ADRIANO
NARDI
TESTI
CRITICI
PIENICOLA MARIA DI
IORIO, “Un anno drammatico! Violenza di genere e l’impatto del coronavirus”,
catalogo mostra collettiva Womahr. Women Art Human
Rights for Peace, Gangemi editore, novembre 2020. ISBN 978-88-492-3974-4 Opere pubblicate:
Babysh (1999), Oil carpet (2002).
“... Adriano Nardi, con
un'opera emersa dalla sua riflessione pittorica dedicata al movimento di
Seattle, rivoluzione culturale degli inizi degli anni 2000 in cui rappresenta
una texture ricca di una folla furiosa, carica di rivalsa e determinata dalla
voglia di reagire ad un mondo che l'artista non condivide, esausto di una
saturazione ambientale e idealistica viene posta sotto l'aura di una visione,
quasi una illuminazione che disgrega la violenza a favore della nuova
riflessione ecologista e protagonista di un futuro più equilibrato ...”
LORENZO
CANOVA, "Gli intrecci di Womhar. Arte contemporanea per l’agenda donne,
pace e sicurezza", catalogo mostra
collettiva Womhar. Women Art Human Rights for Peace, idem come sopra.
“...
Babysh (1999) di Adriano Nardi presenta un volto di bambina dipinto su una
texture che, osservata con attenzione, si rivela come una folla di
manifestanti, immagine visionaria e utopica di speranza per un futuro che
superi gli scontri e possa diventare finalmente pacifico, in particolare grazie
al contributO attivo delle donne e alla loro presenza sempre più forte nel
contesto politico mondiale…”
BIAGIO FEDELE,
"Racconti di un collezionista", Monopoli (Ba) Luglio 2020.
"... Nel 2007 ho subito un delicato intervento al nervo acustico che mi ha
tenuto per un pò lontano da tutti gli artisti e dalla mia amata galleria, ma
per fortuna la mia ripresa ed il fatto di aver ampliato gli spazi espositivi
con il trasferimento della galleria nel mio vecchio studio da imprenditore
edile in Via Mazzini, mi hanno consentito di rimettermi in gioco ricontattando
i "miei artisti" e di ricominciare a coltivare la mia grande
passione. Dopo lo stop forzato, uno dei primi contatti con il mondo
dell'arte fu certamente l'augurio di prontissima guarigione pervenutomi
nell'Aprile del 2007 insieme ad alcuni cataloghi da parte di un grande artista
come Adriano Nardi e dalla sua gentilissima signora Sabrina. Ricordo ancora
l'episodio con molto piacere e ci penso ogni volta che ammiro le sue splendide
opere facenti parte della mia collezione. ..."
CARLO
FABRIZIO CARLI, "Il Premio Vasto nel quadro dei premi pittorici
italiani" testo in catalogo della mostra Premio Vasto 2020. Le opere della collezione, Agosto 2020. ISBN 978-88-6497-110-0 Opere pubblicate: Il Manifesto di Basmina
(Minimal Divide Manifesto) (2003).
"
... La circostanza che le giurie del Vasto fossero ripetutamente presiedute da
un critico di gusto assai fine, di tendenza conservatrice, come Virgilio Guzzi,
mi sembra accreditare un generico ma sostanziale inserimento del Premio
nell'ambito degli indirizzi di stile e gusto impressi alla Quadriennale da
Fortunato Bellonzi, durante la sua lunga, ultratrentennale conduzione
dell'istituzione romana. In effetti nella raccolta del Premio Vasto si può
constatare una notevole presenza di pittori partecipanti alle Quadriennali (in
particolare dalla V edizione alla XI, esperienza magari replicata più volte:
Alessandro Algardi, Guido Biasi, Carlo Caroli, Angelo Maria Crepet, Gioxe De
Micheli, Antonio Di Fabrizio, Marcello Ercole, Alberto Gianquinto, Piero Manai,
Neno Mori, Marcello Muccini, Ennio Pozzi, Guido Prayer, Massimo Quaglino,
Oreste Zuccoli, possono costituire una conferma di questo discorso e la
testimonianza di come i giurati del Vasto ancorassero le loro scelte a
meccanismi selettivi, per l'epoca, qualitativamente ben fondati).
Occorre
poi sottolineare il ruolo fondamentale assolto, nel Premio Vasto, da un nucleo
di giovani che alla Quadriennale avrebbe partecipato in una stagione più recente:
Matteo Basile, Paolo Consorti, Alberto Di Fabio, Stefania Fabrizi, Adriano
Nardi, Marco Verrelli, Dany Vescovi. E fu forse questo, per il Vasto da un
tale punto di vista, il periodo più stimolante.
Ciò
sempre chiedendo venia per qualche involontaria omissione, e ringraziando
Daniela Madonna e Debora De Gregorio per la loro preziosa pubblica-zione //
Libro del Premio Vasto. Indagini, traguardi, prospettive (Vasto, 2007), gremita
di notizie e di immagini utilissime, e recante i nomi dei curatori, dei
partecipanti, dei premiati, dei giurati.
Suffragati
da un così puntuale repertorio, si resta stupefatti constatando il gran numero,
e soprattutto la qualità, di artisti che hanno esposto nelle sale del Premio (concretamente:
prima ['Istituto "Carlo Della Penna", poi il Palazzo delle
Esposizioni, ancora ['Istituto "Filippo Palizzi", infine Palazzo
d'Avalos e le Scuderie di Palazzo Aragona), come pure dei critici richiamati in
città in occasione del Premio.
Ancor
più della già accennata trascuratezza verso l'area linguistica dell'astrazione,
sorprende la ridotta presenza di opere afferenti a una poetica di realismo
esistenziale e a tematiche di carattere sociale che pure, negli anni Cinquanta
e Sessanta, erano ampiamente praticate in Italia, anche a motivo del
coinvolgimento politico, che, invece, dovette penalizzare la loro presenza alle
edizioni del Premio Vasto. Tra le rare eccezioni a questa constatazione si
possono rammentare Giannetto Fieschi e un artista peligno, dal percorso tutto
sommato solitario ma stimolante, qual è stato Italo Picini. Altra presenza
anomala La luna e la scala di Alberto Gianquinto, che è, comunque, un dipinto
alquanto insolito nella poetica dell'artista, appartenente al versante più lirico,
intimistico
e meno ideologico.
Giunge
qui l'occasione di segnalare un gruppo storico di artisti abruzzesi dal respiro
e dal riconoscimento talvolta anche internazionale, tutti in piena adesione
alla pittura d'immagine: Gabriella Albertini, Carlo D'Aloisio da Vasto, Gigino
Falconi, Giuseppe Fiducia, Leopoldo Marciani, Gaetano Memmo.
La
raccolta del Premio Vasto, come si è avuto modo di constatare, ha osservato
coordinate culturali tutte italiane: unica, parziale eccezione, la presenza di
un
pittore
statunitense, però saldamente italianizzato: Robert Carroll. Ancora: se
il Vasto - quanto meno nell'aspetto
che al momento più ci interessa,
ovvero il regesto delle opere acquisite ..."
LORENZO CANOVA, "Un lungo viaggio nell'arte. La collezione del Premio Vasto."
(paragrafo: Nuova immagine italiana), ibidem.
"
... 3. Nuova immagine italiana
Dopo
una lunga pausa, dovuta alla fine della formula dei premi acquisto, il Premio Vasto
ha ricominciato poj ad arricchire le sue collezioni grazie alla lungimiranza di
Roberto Bontempo, che, a partire dall'edizione del 2003, è riuscito a fare
delle acquisizioni mirate di opere di artisti italiani delle ultime
generazioni, anche con la parallela realizzazione del progetto IncontrArti
dedicato ai giovani autori legati al territorio nazionale.
Nella
collezione sono entrati così lavori di pittura, scultura, fotografia e arte
digitale che hanno sviluppato il precedente filone iconico del Premio, in
ricerche che hanno attinto fecondamente non solo al linguaggio dei media e alle
nuove tecnologie, ma anche al ricchissimo repertorio dell'arte del passato, una
sorta di codice genetico vissuto come un'immensa fonte di stimoli e di
suggestioni da
elaborare
con vocaboli nuovi.
Le
raccolte del Vasto si sono così dotate della presenza di alcuni tra i più
interessanti interpreti della nuova arte italiana, in un attraversamento che ha
documentato molti aspetti significativi del primo decennio del nuovo secolo. La
forza dell'arte italiana di quegli anni è stata infatti quella di essere
composta da molte particolarità destinate a completarsi in un quadro d'insieme
molto vitale, dove le differenti possibilità espressive si sono integrate in un
panorama di grande varietà e di feconda ricchezza.
Il
nuovo dialogo tra le diverse forme
espressive ha del resto arricchito anche la
fotografia, le tecnologie digitali e il video, mescolando le tecniche di
rappresentazione in una fusione dove le diverse visioni hanno dialogato e
scambiato spunti, soluzioni e iconografie.
Nella
Collezione troviamo così le opere digitali e fotografiche di Matteo Basile, con
il suo sincretismo di culti e di suggestioni intellettuali, di Alberto Di
Fabio, con la sua metamorfosi subacquea fatta di rimandi classici e di
mutazioni biotecnologiche, di Alessandro Grisoni con le sue architetture
contemporanee dilatate dal grandangolo, di Fabrizio Sclocchini con omaggi a
Duchamp composti dagli ingranaggi di macchine inutili e abbandonate, di Nicola
Vinci, con la teatralità spettrale e gotica dei suoi personaggi teatrali e
misteriosi.
Come
si è visto, nel rispetto della tradizione del Premio, anche la pittura e
scultura iconiche sono molto ben rappresentate in questa seconda parte della
Collezione, con la visionaria immagine di inquietanti ed enigmatici danzatori
tra le fiamme di Stefania Fabrizi, la fusione di colore a olio e digitale nel
volto di Basmina del quadro di Adriano Nardi, i viadotti silenziosi e i
manichini metafisicamente futuribili delle opere di Marco Verrelli, le accese
scansioni artificiali della natura tecnologizzata di Dany Vescovi, le trame
decorative della ragazza senza volto di Andrea Buglisi, il caos primigenio dei
paesaggi con figure di Paolo Consorti, la ruggine e gli smalti delle strutture
industriali di Alessandro Busci, le figure drammatiche e monocrome di Andrea
Mariconti, le anatomie plastiche e michelangiolesche di Matteo Pugliese.
…".
ROBERTO BORGHI,
"Classici scambi", testo in catalogo mostra "Scambi tra scene.
Teatro e arti visive (e viceversa)", edizione I quaderni di Hesperia -
3, Origgio (Va), Novembre 2019. ISBN: 978-88-943980-3-8
Le arti visive catturano sempre più
spesso l'attenzione della drammaturgia contemporanea. Questa, perlomeno, è la
sensazione che si ricava da uno sguardo complessivo sulla scena teatrale
milanese. Negli ultimi anni i cartelloni dei palcoscenici ambrosiani hanno
proposto spettacoli dedicati alle vicende biografiche, alle intuizioni
estetiche, ai tormenti creativi di Mark Rothko, VincentVan Gogh, Frida Kahlo,
Alberto Giacometti, Edward Hopper. L'esistenza di Amedeo Modigliani, nei cui
snodi gioca un ruolo non secondario il rapporto con uno spregiudicato
gallerista, è stata al centro persino di un temerario e appassionato musical
andato in scena al Teatro Leonardo tre anni fa1. La più recente
piece di Fausto Paravidino, rappresentata ad aprile 2019 all'Elfo Puccini2,
inizia in una galleria trendy di Londra e si conclude in un museo d'arte
contemporanea di Berlino.
Tra i fattori che possono motivare
quest’attenzione o, forse meglio, questa curiosità, c’è la crescente attitudine
dell’arte contemporanea a “fare notizia”: per le cifre spropositate raggiunte
dalle aste, per la sbrigativa mitizzazione di cui sono oggetto molti artisti,
per le elucubrazioni e le provocazioni a meri fini mediatici sottese a troppe
opere di successo. Ma c’è anche la progressiva importanza che l’elemento visivo
- anzi, specificamente cromatico - ha acquisito nella costruzione degli
spettacoli, elitari o nazionalpopolari che siano.
La curiosità però non sembra essere
reciproca: oggi il teatro è una dimensione pressoché ignorata dagli artisti, e
non solo dai più giovani. A costo di apparire nostalgici, va detto che la
situazione non è sempre stata questa. Dalla fine degli anni Settanta, lungo
tutti gli Ottanta e sino all'inizio dei Novanta - cioè in tempi in cui la
memoria delle avanguardie era ancora viva - la scena artistica sperimentale si
è contaminata senza eccessiva diffidenza con il teatro di ricerca. A Milano in
particolare le sale dell'Out Off e del CRT hanno ospitato con una certa
frequenza le creazioni di artisti e performer attivi in gallerie e spazi
alternativi. La copertina di questo catalogo riporta una foto delle sculture
realizzate nel 1991 da Milo Sacchi per l'Erodiade di Giovanni Testori,
allestita con la regia di Antonio Syxty proprio all'Out Off: "uno
stilizzato trono barbarico, una grande croce obliqua tempestata di
teschi", come ha scritto Giovanni Raboni, che si innestano nel "severo,
disadorno, scostante evento rituale" predisposto dal regista seguendo dei
"propositi di algida, raccapricciante linearità
liturgico-feticistica"3.
Ernesto Jannini, Adriano Nardi, Maurizio
Calza, Clara Brasca, Giacomo Spazio, Antonio Syxty - gli artisti presenti con
le loro opere nelle stanze di Villa Borletti - hanno conosciuto questa stagione
di scambi fecondi fra teatro e ricerche visive. Alcuni tra loro hanno calcato
la scena in qualità di perfomer o attori, altri collaborano tuttora con
storici palcoscenici italiani come registi o scenografi, altri ancora hanno
indagato attraverso i loro lavori la dimensione del tragico, ovvero il nucleo
di concezioni da cui ha avuto inizio la storia del teatro occidentale. Tutti,
in fondo, hanno la consapevolezza che la scena intesa nella sua accezione più
trasversale, ovvero come spazio emblematico della creazione artistica, è il
luogo della rappresentazione, ma nel valore etimologico del termine. Il
verbo latino repraesentare scaturisce dal montaggio delle particelle re-ad-prae-(s)ens,
in una composizione quasi sinfonica di significati che rimanda al gesto di riportare
qualcosa alla presenza di qualcuno, però rivelando anche il senso di
quel qualcosa4. Nella rappresentazione artistica la vita, una
volta trascorsa e consegnata alla memoria, ritorna in scena con l'aggiunta del
suo senso, o perlomeno dovrebbe. La storia delle arti del
Novecento
è attraversata da una costante e tormentata verifica del modello
rappresentativo, dalla quale scaturisce l'oscillazione continua tra
contestazione e canonizzazione, tra sabotaggio e ritorno all'ordine.
Strattonati dalle avanguardie, il teatro e le arti visive sono stati gli ambiti
espressivi in cui questo modello è stato maggiormente messo in crisi,
soprattutto a causa dello scarto, della distanza non solo temporale, tra la
vita e la sua riproposta sulla scena, tra il dato esistenziale e la
sua riformulazione nell'opera. A metà strada tra spettacolo e tableau
vivant - inteso come traslazione corporea di un'immagine pittorica -, la performance
è stata il genere che, nel passaggio tra moderno e postmoderno, ha
accomunato la scena alternativa dell'arte e quella del teatro off.
Ideatori e attori di performance sono stati, in modi specularmente opposti,
Giacomo Spazio e Antonio Syxty. Tra la fine degli anni Settanta e i primi
Ottanta, le loro azioni si sono collocate su crinali agli antipodi:
all'esaltazione della casualità, del vediamo come va a finire, di
Spazio, ha fatto da contraltare la progettualità minuziosa, quasi asfittica di
Syxty. La vita, nelle performance di Spazio, è qualcosa che, invece di essere
rappresentata, si presenta, si affaccia sulla scena per rivendicare la sua
natura accidentale, la sua imprendibilità. Nelle azioni sceniche di Syxty, la
vita è un meccanismo arcano; è un meccanismo, quindi ha un tragitto preordinato
che, in questo specifico caso, segue un andamento circolare, tautologico; ma è
arcano, inesplorabile nelle sue più profonde logiche di funzionamento: è al
massimo ripetibile, ma anche la ripetizione può avvenire soltanto in un clima
ermetico che, persino quando sembra virare al parodistico, ha un tono
intrinsecamente minaccioso. Detto altrimenti: la vita, per Spazio, è
irrappresentabile perché si situa in un presente continuo del quale l'arte può
dare al massimo testimonianza; per Syxty non è rappresentabile perché segue uno
schema che avvertiamo come perennemente identico e oracolare allo stesso tempo.
Non sorprende quindi che la pittura di entrambi, più che astratto, sia
a-rappresentativa, sia fondata su sedimentazioni di materiali e immagini
preesistenti che, nei lavori di Spazio, vengono mescolati e lacerati sino a
diventare percettivamente inafferrabili, nei dipinti di Syxty, si mutano in
alfabeti di segni impenetrabili, trascrizioni di un inconscio che si esprime
per vaticini.
A-rappresentativa, e pregna di
suggestioni oracolari, è anche la pittura di Maurizio Calza. Mi ostino a
chiamarla pittura, sebbene consista in opere dal vistoso assetto scultoreo,
perché al suo interno scorgo rimandi a quella tradizione di pensiero che si è
interrogata sullo statuto della rappresentazione proprio attraverso le immagini
pittoriche. Forse, più che a-rappresentativa, l'arte di Calza è pre-rappresentativa:
si situa in un'ipotetica fase della storia dell'umanità in cui il rito ha ancora
il sopravvento sulla rappresentazione, e in particolare su quella teatrale. È
risaputo d'altra parte che nell'Atene del V secolo B.C., quando le tragedie
vengono per la prima volta messe in scena nell'ambito delle feste
dedicate a Dioniso, il teatro è "situato ai piedi dell'Acropoli
adiacente al tempio" del dio notturno ed è "fornito di un
altare al centro dell'area di azione"5. L'Altare esposto a
Villa Borletti però non è nemmeno dedicato a Dioniso, ma a un dio
misconosciuto: la poetica di Calza fa riferimento a un senso del tragico
arcaico, preclassico, antecedente quindi alla sua formalizzazione in genere
teatrale avvenuta nel corso del periodo classico della storia greca. Il tragico
come percezione ancestrale del sacro, come timore atavico, come energia
primaria destabilizzante che scompiglia le geometrie, le conduce a una
pericolante instabilità, e adultera i colori della natura insinuando delle
tonalità acide, disturbanti. Al contrario, la pittura di Clara Brasca è
pienamente classica, come dimostra lo sguardo che essa posa proprio sulla
tragedia. Nei volti istoriati delle eroine tragiche, il senso di enigmatica
inquietudine sembra quasi rapprendersi in presenza di un'idea di classicità
"alla quale – scrive Salvatore Settis - continuiamo nonostante tutto a
connettere valori ritenuti universali, come la perfezione, la misura,
l'equilibrio, la grazia, l'intensità e la naturalezza dell'espressione"6.
Universale equivale ad atemporale? Il classico deve essere inteso come qualcosa
di "inalterabile e perpetuo"7, come un'entità a-storica,
iperuranica, immobile? Una possibile risposta a questo interrogativo sta in
opere come Pennellata: la Venere che traccia una pennellata
lichtensteiniana allude a un'origine inevitabile - quanto può essere
classicheggiante persino la Pop - e insieme a un possibile orizzonte
verso cui tendere; ma è soprattutto la manifestazione di un cortocircuito della
storia, che in modo più o meno opportuno abbiamo chiamato postmoderno,
in virtù del quale il classico si rivela come il desiderio
proibito delle avanguardie, e la tragedia risalta in quanto genere per
antonomasia della sperimentazione teatrale.
Il binomio immaginario classico -
iconografia pop può esserci d'aiuto per accostare il lavoro di Adriano
Nardi. Le figure femminili che compaiono in parecchie delle sue opere
provengono da pubblicità e riviste di moda, cioè dalla fonte primaria
dell'impetuosa ondata neo-pop che ha travolto l'arte degli ultimi
decenni. Eppure la sua prima personale era intitolata Antipop, e in
effetti tutto il suo percorso creativo si contrappone alle logiche di consumo
dell'immagine prescritte dal sistema della comunicazione. Per giunta la sua
riflessione teorica ruota attorno all'impossibilità - o forse a una sorta di possibilità
condizionata - della rappresentazione nell'era digitale. Mi sembra però che
al fondo di questo artista così sfaccettato, capace di spaziare dalle
scenografie per i grandi teatri della Capitale a visionarie operazioni concettuali,
vi sia un sentimento tragico del mondo che orienta tutto il suo agire: che lo
spinge, per esempio, a raffigurare un teatro in macerie - quello distrutto dai
bombardamenti nella regione siriana di Ghouta - nel modo allo stesso tempo più
solenne e conturbante possibile; e che lo porta a evocare un macroscopico
paesaggio permeato di allusioni somatiche, quasi fosse un corpo sofferente, con
organi ancora in via di formazione. Uno sentimento tragico che sembra
richiamarsi a un'intuizione paradossale del classico: un classico selvaggio.
L'allestimento della mostra nelle stanze
di Villa Borletti prevede che le opere di Nardi fronteggino quelle di Ernesto
Jannini. La scelta non è solo dettata dalle vaste dimensioni dei lavori di
entrambi, ma ancora una volta da un'antitetica percezione di che cos'è, e di
come si manifesta, il classico. Jannini, come scrive Viana Conti,
"ha calcato per anni le scene teatrali" e, "da attore partenopeo
qual è stato", risulta "inconfutabilmente segnato dalla classicità greca,
insita nel suo DNA"8. Nelle opere recenti – come Pulcinella
robotico, del 2017, e il coevo, ma non esposto, Gran Torneo - si fa
evidente anche l'interesse per i movimenti netti e sincopati dei robot ma,
soprattutto, dei loro antenati, vale a dire le marionette.
Se
la formula non fosse davvero abusata, oltre che filologicamente scorretta,
sarei tentato di dire che nel caso di Jannini il classico ha tratti apollinei,
e lineamenti dionisiaci in quello di Nardi. Alla base della ricerca
dell'artista napoletano mi è sempre parso di avvertire qualcosa di congelato ma
incredibilmente non freddo: qualcosa che ha la rigida solidità conferita da un
processo di congelamento – e se dovesse muoversi, lo farebbe con gesti a
scatti, come i robot e le marionette – ma è comunque caldo, nel
senso che possiede un'intensità sensoriale e si manifesta in modo spettacolare.
Questa stessa paradossalità percettiva, insieme con uno spiccato senso
dell'arcaico - nell'accezione etimologica dell'arkè, dell'origine delle cose -
mi sembra caratterizzi la grande installazione a parete intitolata Cantico
delle creature in cui assistiamo, come scrive Luigi Meneghelli nel catalogo
della mostra Theatrum, a "un diluvio di immagini che si allargano
sino a comprendere orizzonti sempre più vasti, combinando tra loro fantasie
figurali e favole pitagoriche". Persino le "cerniere in acciaio che
sostengono l'intera opera portano istoriati numeri oracolari e lettere
ipnotiche che sembrano rinviare a un sapere dei primordi"9.
La Sala della Musica di Villa Borletti ospita invece una sezione della
mostra focalizzata sulla Scala: il teatro per antonomasia in cui, in passato,
si sono contaminate la scena delle arti visive e quella della drammaturgia
musicale. Però, appunto, in passato: le collaborazioni con i grandi pittori
italiani nella realizzazione di scenografie operistiche si sono concluse con la
fine del Novecento. Verso la fine del XX secolo i palchi della Scala sono stati
l'eccezionale sede di una mostra fotografica dedicata alle persone che avevano
lavorato perlopiù dietro le quinte - tecnici di scena, musicisti in pensione -
assieme ad alcuni grandi direttori d'orchestra, celebri tenori e danzatrici.
Quelle immagini scattate in un rigoroso bianco e nero da Paola Bobba e Anna
Rosa Faina Gavazzi, sono state poi raccolte in un libro stampato da Valentina
Edizioni nel 2000. Il titolo di quel volume, La Scala. Racconti dal
palcoscenico, dice molto delle immagini esposte a Villa Borletti, che sono
appunto delle biografie narrate attraverso dei ritratti fotografici, eleganti
almeno quanto stranianti, che sembrano richiamarsi alla ritrattistica pittorica
ottocentesca. Accanto a queste foto, nella Sala della Musica è presente una
serie di lavori su carta di Bruno Gianesi, artista che ha a lungo ricoperto il
ruolo di direttore creativo della maison Versace, ispirati a coreografie
di Maurice Béjart e William Forsythe. Insieme con Gianni Versace, Gianesi ha
ideato i costumi indossati dai danzatori per celebri balletti andati in scena
alla Scala, oltre che in numerosi altri palcoscenici internazionali. La Sala
della Musica ospita numerosi disegni che riproducono fedelmente i progetti
degli abiti e alcune libere rielaborazioni delle atmosfere delle coreografie,
oltre che del peculiare clima creativo che contraddistingueva il marchio di
moda.
Per una significativa coincidenza, anche
queste opere su carta risultano in fondo degli omaggi all'immaginario classico,
rivisto alla luce di un gusto espressionista. In apertura del percorso
espositivo della mostra sono presenti alcuni fondali degli anni Trenta
appartenuti alla compagnia di Domenico Rame – il padre di Franca Rame - poi
entrati a far parte di un vasto archivio di materiali teatrali curato da
Antonio Zanoletti: esempi di una pittura apparentemente naif, ma in realtà con
risvolti di inattesa raffinatezza, che rimanda a quelle situazioni metafisiche
di cui era pregna l'arte tra le due guerre.
1
Modì
- L'ultimo inverno di Amedeo Modigliani, libretto, testi, musiche di
Gipo Gurrado, una produzione Odemà/Tiktalik andata in scena al Teatro
Leonardo
di Milano nell'aprile 2016.
2 Il senso
della vita di Emma, testo e regia di Fausto Paravidino, una produzione del
Teatro Stabile di Bolzano andata in scena all'Elfo Puccini di Milano
nell'aprile 2019.
3 Giovanni
Raboni, Quella testa mozzata "parla" con Erodiade in
"Corriere della Sera", 28 novembre 1991, p.38.
4 Sulle sfumature
semantiche del concetto di rappresentazione andrebbe letto un bellissimo saggio
di Virgilio Melchiorre, Sul senso della rappresentazione in "Comunicazioni
sociali", (2) 1979, poi in
Id.,
Essere e parola, Vita e Pensiero, Milano 1993.
5 Glynne Wickham,
Storia del teatro, il Mulino, Bologna 1988, p, 85.
6 Salvatore
Settis, Futuro del classico, Einaudi, Torino 2004, p.103.
7 Cit., p. 92.
8
Viana Conti, testo introduttivo a Gran Mercato, personale di Ernesto
Jannini presso la galleria Silvy Bassanese, Biella, marzo-aprile 2010.
9
Luigi Meneghelli, testo introduttivo al catalogo della mostra Theatrum,
galleria La Giarina, Verona, 2018, p. 9. In questa mostra erano presenti alcune
delle opere esposte a Villa Borletti.
Opere
pubblicate: Paesaggio interno (2019), Paesaggio interno esterno (2012), Teatro
di guerra (2018), Headdtrance in Yarmouk, Syria (2015-2018).
LUIGI
MENEGHELLI, "Theatrum", testo in catalogo, edizione galleria La
Giarina Arte Contemporanea, Verona, Giugno 2018.
"Il
momento in cui parlo è già lontano da me. J. L. Borges,
Atlante
— Questa è solo la cornice materiale del teatro, il suo apparato esteriore, la
sua struttura convenzionale. In realtà il teatro è un "non-luogo" o
una "dimensione mistica" che unisce lo spazio fisico alla
metafisicità della rappresentazione. Direbbe Carmelo Bene: "È quando si
spegno la luce [...]. È parlare parole incomprensibili perché la gente non deve
andare a teatro a riconoscersi": casomai a perdersi, ad essere risucchiata
dall'altrove.
Tuttavia, quella che in uno parola possiamo chiamare scenografia (o apparato
teatrale) non è qualcosa di statico, una semplice organizzazione o un arredo
dello spazio scenico, è un elemento vivo: sono oggetti che vanno, che vengono,
si muovono. Certo non prevalgono sullo spettacolo, ma ne condividono la
capacità di "far vedere" l'invisibile, di costruire "l'altro
mondo". Sono come echi del rapporto (spesso drammatico) tra i personaggi,
capaci di svelare l'inconscio del testo e dell'azione. Di più: la scenografia
porta in sé anche una sorta di componente rituale simile a quella di un altare:
su di essa (o attraverso di essa) l’attore celebra la sua recita, la sua
"messa in scena". E quando egli ha terminato la sua
"performance" e il sipario si è chiuso, la sala rivela ancora
un'atmosfera sacrale, misteriosa, ultramondana. E’ un sogno non finito e pronto
a riprendere in ogni momento la sua azione visionaria. Forse è il fascino di
questa vita potenziale, l'esplorazione di possibili altri modi di esistere ad
aver sedotto grandi artisti contemporanei, come Burri, Calder, Paladino, De
Maria, Kentridge, a mettere le loro firme a famose scenografie. Essi hanno trovato
nel teatro l'occasione di proiettare il loro linguaggio fuori da se stesso,
dando corpo patente alle simulazioni, agli sdoppiamenti, alle "verità
d'ombra".
Ebbene, i tre artisti in mostra (Clara Brasca, Adriano Nardi, Ernesto Jannini)
presentano lavori che sembrano venire dopo (o a latere) e porsi come commenti e
analisi di ciò che accade davvero a teatro. In questo caso, non potendo fruire
dello prova del fuoco del palcoscenico, essi realizzano immagini che sono
riflessioni sul senso dell'inganno, del "vedere doppio" o del
"vedere un doppio". Non hanno macchine sceniche da costruire, per cui
non possono che ricorrere a giochi allusivi e illusivi. Solo che le loro
illusioni sono paradossalmente più depistanti di quelle che s'inverano in
scena. Hanno la malizia del tromp-l'oeil, che aggiunge al fascino formale dello
pittura il fascino spirituale dell'inganno visivo, della mistificazione dei
sensi.
ATTO
I
—
È così con i "ritratti ideali" che dipinge la milanese Clara Brasca
su carte di grandi dimensioni: carte che toccano terra o si avvolgono su se
stesse come antichi rotoli ...
...
ATTO
II
Diversa
è l’attenzione che richiede il grande sipario di Adriano Nardi (Teatro di
guerra, 2018), dove l'artista romano cerca di dar corpo a un'immagine
tormentata della distruzione della città di Goutha in Siria. Nel suo caso, solo
la distanza mette a fuoco la totalità della scena, l'immenso rovina che si
manifesta sulla tela.
Da
vicino invece si coglie una pericolosa avventura di liquefazione, di
disgregazione luminosa della pittura: sono gesti anarchici, slanci fermati in
volo, ritmi sincopati. È inutile cercare un appiglio, un aggancio in questo
spazio tentacolare e smagliato. Qui non si da inizio o conclusione, ma solo
incroci, crocevia, inabissamenti, e anche ascese, riti cerimoniali della
superficie e della profondità. Ed è come se qualcosa del tempo, del
consumo
del corpo, della respirazione s'inscrivesse sulla tela. Del resto, non diceva
Delacroix: "Quando sono nel mio atelier entro in scena"? Ma la
pittura di Nardi appare anche eretta, alzata, parietale: è movente,
apparente-scomparente, per eccessi, per crisi, per danze, una pittura
"soffiata" come se fosse fatta da un attore. E che l'artista pensi
costantemente al teatro lo attestano anche le piccole foto ritoccate della
serie Headdtrance in Yarmouk (2018), dove delle figure femminili fanno da
introibo alla scena, come avveniva nelle recite di un tempo o quel
"patchwork" di frammenti di tela dipinta (Against all violence, 2017)
che rimanda allo spazio intessuto di inesauribili e indicibili relazioni che è
il palcoscenico.
ATTO
III
—
Infine, nelle installazioni e nei dipinti dell'artista di origini napoletane
Ernesto Jannini si possono trovare le infinite tracce di possibilità visiva che
il teatro ha costruito nel corso del tempo e nel fondo del nostro immaginario
...
...
—
Così la galleria più che un luogo teatrale, ri-crea un'atmosfera teatrale.
Mostra enigmi, rebus visivi, simulazioni, capricci. Chi passa davanti alle
opere può provare la vertigine barocca del non finito, del differito, della
meraviglia. Non interessa svelare la macchina scenica, mostrare gli ingranaggi,
i materiali, i funzionamento, ma sorprendere il teatro come "mondo a
parte". Si dice che nessun testo, nessuna regia, nessuna scenografia possa
sostituire la presenza fisica dell'attore o anche che "il corpo è
l'essenza del teatro". Qui in apparenza non ci sono danze o recite, almeno
visibili, ma solo
perché
il movimento si cela nelle immagini: è una presenza inferiore, è un pensiero in
atto. Con l'aggiunta inattesa che lo stesso spettatore, in fondo, può diventare
attore, personaggio di una scena alternativa. In altre parole si è tolto quel
velo di complicità (o di banalità) che di solito ci offusca la vista quando si parla
di teatro: si è voluto mettere in scena il puro atto di guardare, facendone
problema."
Opere
pubblicate: Teatro di guerra (2018) Headdtrance in Yarmouk, Syria (2015-2017),
Trancesuicide (2015), Against all violence (swastika) (2017), Headdtrance in Yarmouk,
Syria (carte 2015-2018).
GABRIELE
PERRETTA, ”Suicide painting”, Segno
n°
261, p. 55, recensioni e documentazione attività espositive,
Febbraio/Marzo 2017.
"Nel
mondo d'oggi ci sono sempre meno artisticità dominanti e culture dell'arte. Le
immagini e i principi generali d'ordine seduttivo marciano più celermente di
quelli politici. Gli scambi sul piano mediale si servono di strumenti di
comunicazione estremamente agili, per i quali le barriere della distanza sono
irrilevanti. Molte sono state - dagli inizi degli anni Ottanta del XX sec. - le
suggestioni che in qualche modo hanno toccato l'arte italiana: basti ricordare
l'influenza esercitata, fino all'ultima generazione della pittura e
dell'immagine mediale, dai fotografi e dai rotocalchi. Oggi (e non da oggi
soltanto) questo prestigioso mito si è centuplicato. Esso era in un certo modo
legato ad un culto un poco astratto, ad una nozione accentuata e quasi
esclusiva dell'idea di digitale. Il suo successo non ha coinciso soltanto con
la scomparsa dei grandi protagonisti del pop dei primi anni '60 d'oltralpe ma
con quella ripresa della coscienza mediatica che ha saputo animare i pittori e
gli illustratori, soprattutto a cominciare dagli anni '90. Con quella data
comincia il vero viaggio oltre i confini della pittura d'immagine e del nostro
schieramento mediale, un po' onnicomprensivo fino ad allora, a varcare perfino
la dogana della contaminazione totale. Tra i maggiori istigatori di questo
ampliamento di orizzonte va ricordato soprattutto Adriano Nardi. Tuttavia, ora
che la situazione appare più navigata, che cosa persiste di quei motivi mediali
sui quali Nardi ed altri fecero leva per rompere il provincialismo e
l'estetismo che riducevano se non mortificavano la dimensione popolare (che
oggi forse viene scambiata per populista! sic!) delle nostre immagini
internaute? In un'ampia ed acuta mostra personale all'Aratro Nardi sottolinea i
due moventi principali che fece scattare all'inizio l'azione della sua pittura
e della sua poetica. Per la mediamorfosi del Suicide Painting, il mito donna e
il mito immagine ebbe ed ha un significato provocatorio. La pittura da Nardi
proposta a modello d'ordine interiore era ed è l'icona del flusso mediatico assecondata
dal Sunset Strip del sex appeal dell'inorganico (come direbbe Walter Benjamin).
In questa grande tessitura cromatica, lunga più di otto metri ed esposta
all'Aratro, Nardi conferma l'unione tra l'assemblaggio in patchwork di
frammenti di stoffa con una sorta di mosaico o di ricamo, che raccoglie, come
in un palinsesto, suggestioni e riferimenti tratti da luoghi, framing e slade
diversi. L'immediatezza delle icone sessuate, la particolare cura nel gioco
della pittura digitale, la pennellata rapida e discontinua - a sottolineare la
necessità di rendere la rappresentazione il più pubblicitaria possibile, e, se
vogliamo videografica possibile - sono, in sintesi, i punti principali del
gioco di Nardi. Le opere in mostra all'Aratro, ed in particolare nella large
installation, bene illustrano i nuovi approdi dell'autore, che pur essendo
coetaneo dei pittori mediali, come molti della sua generazione, ricomincia dai
rotocalchi, ed è attratto dal flusso, dalla frammentazione, dal movimento,
dall'oltraggio montante e tissurale di icone rubate all'auto-annientamento
mediatico: queste ed altre immagini l'hanno portato ad una sorta di
mediamorfosi visiva e immaginaria e, allo stesso tempo, di straordinaria
attualità, un'attualità da suicidio! Egli costruisce collage di reticoli
montati con immagini rubate all'illusione di realtà, creando simulacri onirici
in bilico tra reportage e castrazione. In effetti non c'è sentimento
nell'immagine mediale, non ci sono scene drammatiche. Ma proprio lasciando
fuori tutto ciò, la simulazione della pittura da vita ad un altro tipo di
strategia scettica: è come creare il silenzio all'interno di un'immagine
assurda; producendo un senso di straniamento. Così si impone allo sguardo il
suicide painting, figura metaforica che in the great tapestry trasmuta;
seguendo un montaggio di tappeti-memoria, qui Nardi prosegue la sua ricerca
sull'immagine femminile legata ai mass media e ai social network, unendo le
figure di modelle celebri, come Kate Moss, a quelle delle Suicide Giris a cui è
legato il nome dell'intero lavoro, ragazze che (come scrive lo stesso artista)
"non mirano alla morte, ma ad una bellezza self-made, antivelina, che nega
il silicone e il ritocco". Il tatuaggio rappresenta in questo nuovo
sentire, il traslato concreto che passa dall'analisi mediale della luce
dell'immagine digitale - l'RGB della micropittura - alla concretizzazione della
linea come taglio e sutura critica."
LORENZO CANOVA,
”Suicide painting”, Pieghevole della mostra Suicide painting, Edizione
UNIMOL/Aratro, Campobasso, Dicembre 2016.
"L’ARATRO
inaugura una mostra personale di Adriano Nardi, una grande installazione che
raccoglie un ciclo di lavori recentissimi montati in una struttura speciale,
realizzata appositamente per questa occasione.
In questa grande opera, lunga più di
otto metri, Nardi unisce la pittura all’assemblaggio in patchwork di frammenti
di stoffa, in una sorta di enorme mosaico o di tessuto ricamato per immagini,
che raccoglie, come in un palinsesto contemporaneo, suggestioni e riferimenti
tratti da luoghi, contesti e tempi diversi.
In questa opera, Nardi prosegue la sua
ricerca sull’immagine femminile legata ai mass media e ai social network,
unendo le figure di modelle celebri come Kate Moss a quelle delle Suicide
Girls a cui è legato il nome dell’intero lavoro, ragazze che (come scrive
lo stesso artista) “non mirano alla morte, ma ad una bellezza self-made,
antivelina, che nega il silicone e il ritocco, un po’ dall’anima made in Japan,
un po’ punk anni settanta. Corpi che osano e provocano con piercing e tatuaggi,
che si auto affermano scegliendo il proprio look, rifiutando norme
comportamentali ed estetiche convenzionali. Si mostrano al mondo grazie a
fotografi e stylist indipendenti, non allineandosi ai trend, ai dogmi della
bellezza tipici delle riviste di moda. Il tatuaggio rappresenta in questo mio
nuovo sentire estetico e pittorico, il traslato concreto che passa dalla
analisi mediale cromatica della luce costituente l’immagine catodica e digitale
– l’RGB della micropittura - alla concretizzazione della linea come taglio e
sutura (nelle opere “cucite” o con le stoffe ritagliate e incollate) o come
disegno inserito ‘sottopelle’ - in cui sarebbe concretamente evidente un
paradosso se non fosse inteso che come desiderio della donna di scriversi o
disegnarsi addosso - in quanto qui è descritto, inchiostrato nella superficie
intesa come pelle della pittura”.
Nardi compone così un ciclo di immagini
sospese tra dimensione virtuale e fisicità, tra immaterialità e tattilità, un
grande complesso iconico costruito attraverso un pullulante pulviscolo di
frammenti dove le memorie personali e le foto del web, i centri commerciali e i
musei, le icone dello star system e i volti anonimi si fondono nella tessitura
di un grande arazzo che riprende le narrazioni per immagini degli antichi
ricami ad ago, componendo un gigantesco racconto sincronico che ci parla del
nostro presente affondando le radici nel passato e aprendo le sue profezie
verso il futuro."
Opere pubblicate: Venom black bird (2014) copertina, Swingeing London (2014),
Primark (2014), Suicide sustainable landscape (2014), Suicide wall (2013-14).
VITTORIA COEN, ”Figurazione in
movimento”, Catalogo della mostra Salone della pittura bolognese
dall’Ottocento al contemporaneo, Edizione Galleria d'arte Fondantico,
Bologna, Marzo 2015.
"... Quasi
tutti gli artisti qui rappresentati hanno fatto una scelta precisa, quella di
seguire la propria individualità creativa. Artisti come Morandi, ma anche
Saetti, per aspetti molto diversi, Ilario Rossi, Borgonzoni, e più recentemente
Adriano Nardi, hanno sentito certo l’aria del tempo, molti di loro hanno
viaggiato per il mondo, e vengono in mente parole come Sublime, Cubismo, Realismo…
La figurazione assume qui il compito della narrazione
perenne, quella che continua a stupirci a distanza nel tempo. "
Opera pubblicata: Pittura nuda (2008)
ROBERTO LACARBONARA,
testo e comunicato stampa della mostra Visioni allo Studio d'Arte Fedele, Monopoli, aprile 2014.
"
Visioni è un
progetto espositivo sul tema del “non-visibile”. La visione è, per definizione, un’esperienza
sensibile elaborata nel cortocircuito di immagine e immaginazione, nell’esubero
percettivo con cui lo sguardo – e, con massima intensità, lo sguardo di un
artista – traduce il vedere nel plus-vedere dell’opera e, così facendo, assume
l’ottica precaria del “visionario”. Visione dunque come dubbio, come tradimento
del visibile, ovvero scarto tra il reale e la rappresentazione.
La
collettiva di pittura proposta dallo Studio d’Arte Fedele definisce una sintesi
tra le esperienze figurative di storici artisti della galleria ... Operazione inversa per Adriano Nardi mediante una moltiplicazione dei piani cromatici che
insistono sul profilo femminile. ... In
ognuno di questi casi la pittura sembra consumare il reale, filtrare le
superfici insinuando un senso nuovo, silenzioso. Visioni è pertanto un meccanismo di
inversione del sistema della rappresentazione: non esiste alcuna verità nella realtà,
tutto quanto è solo il dubbio di qualcosa che non è."
A.A.V.V., ”Nardi Adriano”, Catalogo
dell'Arte Moderna, numero 44, Editoriale Giorgio Mondadori, Cairo Publishing
Milano, Giugno 2008.
“ (NOTA CRITICO-BIOGRAFICA) Formazione: dopo il Liceo Artistico, si è diplomato
all'Accademia di Belle Arti di Bologna. Soggetti: il soggetto femminile è
sempre presente nelle opere degli ultimi anni, come figura metalinguistica di
una concezione non figurativa quanto concettualmente simbolica. Tecniche: olio
su tela preparata dall'artista, per raggiungere la caratteristica coloritura
"povera"; tecniche digitali su cui interviene a olio".
Opera pubblicata: Paesaggio nudo (2007)
LORENZO CANOVA, ”Visione romana. Percorsi incrociati nell'arte del novecento”,
Edizioni ETS, Pisa, Luglio 2008.
“ (capitolo 5 - Gli approdi dell'argonauta) Una memoria metafisica rieccheggia
così nell'opera di molti artisti romani delle ultime generazioni... ... Adriano
Nardi usa analogamente prelievi dai mass media, inseriti in un profondo
tragitto percettivo dove la pittura assume un corpo dalla presenza lievemente
materica, o si smaterializza nei fluidi rivoli dei pixel, per sviare le
sicurezze del nostro sguardo in un mistero sfuggente celato nello spazio
incerto che lega l'occhio e il pensiero..."
Opera pubblicata: Senza titolo (Bue squartato) (2005)
LORENZO CANOVA, ”Oblio e rinascita dell'arte italiana”, testo critico dal
catalogo della XV QUADRIENNALE D'ARTE DI ROMA, Marsilio editore, Venezia,
Giugno 2008.
“ Al bivio tra oblio e rinascita, in uno spazio incerto posto tra il gorgo
oscuro della sparizione e un nuovo dinamismo creativo, l'arte italiana si trova
oggi di fronte a un singolare paradosso che la vede troppo spesso dimenticata
dalle grandi manifestazioni internazionali pur esprimendo una vitalità forte e
diffusa. L'arte italiana, infatti, nonostante le sue note debolezze strutturali
e di sistema, possiede ancora il valore oggettivo di una molteplicità di
visioni e di linguaggi, in un panorama composito che va valorizzato nella sua
essenza plurale. La Quadriennale del 2008 rappresenta così un'occasione
importante per riflettere su questo particolare momento e sulle diverse
personalità che formano il mosaico articolato dell'arte delle ultime
generazioni in Italia. Con uno sguardo assolutamente non provinciale e aperto a
un necessario e attivo dialogo internazionale, l'arte italiana conserva anche
alcune caratteristiche territoriali che in un certo senso costituiscono
un'eredità della grande tradizione storica, legata ai diversi volti del genius
loci del nostro Paese. Questo elemento, visto owiamente in modo negativo da
chi, sulla scia di un'idea errata di globalizzazione, preferisce linguaggi
omologati e mondializzati, costituisce invece un segnale importante della biodiversità
dei nostri ecosistemi culturali che merita di essere maggiormente sostenuta e
difesa. In quest'ottica, le generazioni di artisti presenti nella quindicesima
Quadriennale appaiono come il conseguente sviluppo di un percorso storico che
le vede conservare alcuni tratti basilari della loro identità italiana senza
trascurare però l'importanza di scambi e rapporti ormai estesi su scala
planetaria. Questo cammino potrebbe pertanto partire dal Futurismo, con le sue
intuizioni innovative e con la sua relazione consapevole e propositiva con i
media, per trovare importanti rispondenze, in seguito, nelle ricerche
extrapittoriche sui nuovi materiali e nelle tendenze che già negli anni
Sessanta e Settanta hanno saputo rinnovare la pittura e la scultura. Non va inoltre
trascurato il fatto che dal Futurismo di Balla e Depero discende anche quello
sguardo ironicamente lucido e giocoso che ha trovato significativi riscontri,
ad esempio, in Pascali e Boetti, e che è ancora ben presente negli artisti
delle ultime generazioni. Una simile visione è presente, in un certo senso,
anche nella Metafisica (e particolarmente in de Chirico), il cui messaggio
multiforme è proseguito fino alle nuove ricerche degli anni Sessanta, alle
riflessioni pittoriche e concettuali di un'arte che guarda se stessa allo
specchio e al ritorno alla pittura in chiave più barbarica, colta o elettronica
degli anni Ottanta. Così si può notare come molti artisti presenti in questa
mostra si servano dei linguaggi antichi del disegno, della pittura e della scultura
rinnovandoli con l'immensa quantità di stimoli non soltanto visivi provenienti
dal mondo contemporaneo, ma sempre con un elemento mentale che fonda la
coscienza di un lavoro che non vuole avere esiti puramente
"retinici", naturalistici o narrativi, ma che cerca di sviluppare
quella severa capacità di riflessione che ci parla del presente e, molto
spesso, del futuro con una visionaria e potente capacità metaforica di
intuizione e anticipazione. Quindi, il lavoro di questi autori, appare una
degna realizzazione del pensiero di Pier Paolo Pasolini che ha scritto della
necessità di un nuovo confronto con la grande tradizione artistica italiana per
creare immagini nuove e potenti, senza cadere in tentazioni illustrative o in
sterili nostalgie, ma parlando in forme perenni del presente attraverso la
"forza del passato". Si segnala dunque, in questo contesto, l'opera
di artisti attivi con la pittura, la scultura, la fotografia e le nuove
tecnologie che partono da un nucleo progettuale fondato sull'antico e "mentale"
denominatore comune del disegno. Non a caso, ad esempio, si può notare come
sempre più spesso la pittura e la scultura confinino con un video di animazione
e con ricerche digitali in 3D, allargate al territorio dilatato e mondiale della
rete, costruite attraverso una serrata elaborazione "pittorica" dove
ogni fotogramma è "dipinto" o meglio composto da un disegno
preparatorio. Forse proprio l'elemento grafico può rappresentare il termine di
congiunzione che unisce allora le differenti forme espressive, il territorio di
confine dove il progetto e le tecniche si toccano rendendo possibile un
ipotetico legame tra la dimensione prettamente manuale del disegno e la
dimensione "tattile" dei media elettronici teorizzata da Marshall
McLuhan, ribadita da Derrick de Kerckhove e profeticamente anticipata da
Filippo Tommaso Marinetti. In questa dinamica "tattile" che vede il
corpo dell'artista coinvolto direttamente nel dialogo con la carta o con un
ambiente elettronico, il disegno rappresenta il territorio dove si compie il
rapporto tra il pensiero e l'azione: tra l'arto, il progetto, e un'opera che
nasce grazie all'interfaccia di una matita o di un mouse che riescono ancora a
dare un senso alla memoria condensata nelle tracce della grafite o nei bit
immateriali dei segni elettronici. È del resto vero che la pittura e la
scultura possano non soltanto dialogare, scambiare informazioni e spunti
creativi con le nuove tecnologie, ma che possano anche costituire il sostrato
tecnico e concettuale di un nuovo modo di concepire il video e l'animazione
d'artista. La pittura e la scultura si trovano, infatti, in un particolare
momento di trasformazione, che appare legato al parallelo sviluppo delle
tecnologie informatiche, un campo sempre più ampio offerto dalle nuove possibilità
del digitale che permettono intrecci di immagini e di ambientazioni, il collage
e la manipolazione dei prelievi fotografici rielaborati in un progetto che
viene poi traslato nella finale dimensione pittorica o scultorea. È
interessante notare come gli artisti, non di rado, si pongano allora in una
posizione differente, in una relazione consapevole con i media, senza
dimenticare quella che può essere vista come una visione contemporanea della
qualità pittorica accresciuta dai diversi codici lasciati in eredità dalle
sperimentazioni del XX secolo. L'arte italiana, non casualmente, si muove
spesso in una direzione analitica dove la pittura e la scultura rappresentano
uno strumento di indagine che dialoga con le molte possibilità offerte dagli
intrecci iconici contemporanei, dal fumetto all'illustrazione, fino al cinema e
al videoclip. Si mostra così la forza della pittura e della scultura intese
come media "densi", capaci di comprendere carichi stratificati di
informazioni, tramiti fondamentali per una ricreazione più ampia della
"realtà" nella sua essenza complessa. Si tratta infine di ricerche
che si collocano in una posizione che segna la sua diversità rispetto a
parallele esperienze italiane e internazionali, dove il rapporto delle arti visive
con la dimensione dei media elettronici assume un valore particolare, in un
paradosso che vede corrispondere all'alta risoluzione della tecnologia una
bassa risoluzione del video, della fotografia, della pittura e del disegno, in
una concezione spinta spesso fino al polo estremo di una manifesta esibizione
di infantilismo e di azzeramento totale della tecnica. Gli artisti italiani che
qui vengono presi in considerazione, hanno compreso il pericolo di arresto
causato dalla dialettica tra queste posizioni e hanno reagito rafforzando le
potenzialità creative e comunicative del loro lavoro, facendo, ad esempio,
sconfinare la pittura nel dialogo con il video, ribadendo e intensificando
l'apertura "ambientale" della scultura verso l'installazione,
servendosi del disegno come base per un progetto digitale di allargamento
nell'oceano del web, o, nello stesso momento, concependo la fotografia in senso
pittorico e ancora di più disegnativo, in un colloquio fecondo con l'eredità
della storia dell'arte. Alcuni dei migliori artisti italiani si muovono difatti
in questo campo con una visione attiva, dove tutti i dati sono vagliati e
ricomposti con una densità di stile e di pensiero che comprende elementi di
riflessione e di intuizione uniti a una visione acuta ed enigmatica che formano
il composito tessuto simbolico delle opere. In questo modo va notato come molti
nostri artisti siano capaci di interpretare criticamente le grandi emergenze
del presente e di parlarci delle possibili dinamiche del futuro. Molti di loro
guardano lucidamente all'oggi ma con una posizione capace di avvertire crisi,
tensioni e contrasti in un modo metaforico e allusivo che non evita però di
analizzare le drammatiche dialettiche dei nostri giorni e dell'avvenire. È un
panorama che denuncia una visione non tranquillizzante, la quale da vita a
creazioni dominate da un senso di sospensione minacciosa, di allarme o di
mistero. Non a caso, molti artisti avvertono, ad esempio, il pericolo corso
dagli ecosistemi e dalla natura ma cercano di andare oltre la semplice
denuncia, con immagini che sono ancora capaci di divenire forme simboliche...
...Un altro artista che parte da immagini massificate e pubblicitarie è Adriano
Nardi, che scompone e riordina concettualmente la bellezza femminile delle
riviste patinate con uno studio rigoroso della percezione condotto in pittura,
strumento analitico volutamente diretto a una lentezza simbolica
dialetticamente contrapposta alle velocità dei media...
Opera pubblicata: Pittura nuda (2008)
PAOLA BONANI, scheda critica dal catalogo della XV QUADRIENNALE D'ARTE DI ROMA,
Marsilio editore, Venezia, Giugno 2008.
“ Il titolo della prima personale di Adriano Nardi nel 1998 è Antipop, un
termine che rivela subito i debiti ma anche le distanze prese dall'artista nei
confronti della Pop Art. Nardi, infatti, inserisce nei suoi quadri immagini
prelevate dai massmedia e usa i colori artificiali (Rgb) delle trasmissioni di
immagini digitali. Tuttavia la sua pittura conserva un tratto unico che si
traduce in una intensa manualità. Tra il 1999 e il 2000 ritrae le prime donne
"da copertina", da allora soggetto centrale di ogni suo lavoro.
L'artista le inserisce su sfondi in cui si alternano pittura astratta e
immagini tratte da internet, spesso violente, che creano un forte contrasto tra
i diversi piani dei quadro, tra le algide figure dipinte a olio e gli sfondi
realizzati con la stampa digitale {Seattle, 2000). Nelle opere recenti, i corpi
femminili sono stesi e trasformati in luoghi da percorrere, disseminati di
forme geometriche dai colori accesi e irregolari trame di segni dalle tinte
terrose ( Paesaggio Nudo, 2007).”
Pubblicato un ritratto fotografico di Adriano Nardi.
LORENZO CANOVA, ”Tra corpo e paesaggio”, testo del catalogo della personale
alla Galleria La Giarina di Verona, dal 2 febbraio al 5 aprile 2008
"Adriano Nardi coniuga l’attenzione per la qualità pittorica all’indagine
dedicata ai meccanismi comunicativi e percettivi mescolando elementi differenti
inseriti tuttavia in un discorso rigoroso e unitario sulla pittura e sulle sue
possibilità di rinnovamento nel contesto attuale dell’arte contemporanea.
L’artista ha scelto in questo modo di indirizzare la sua opera verso una
direzione dove la tecnica si trasforma in uno strumento di indagine linguistica
in dialogo con gli spunti provenienti dalle comunicazioni di massa. In questo
senso si spiega anche la sua volontà di porre concettualmente le opere su un
versante dove la pittura spesso resta sospesa in un apparente “non finito” e
dove l’elaborazione si manifesta attraverso una raffinata macchina della
finzione. L’autore, infatti, non di rado conduce la sua ricerca attraverso un
binario doppio, in cui la pittura è vista talvolta come il medium di una
comunicazione visiva “calda”, deliberatamente ricca di informazioni, segnata da
una stratificazione di riferimenti, sollecitazioni e prelievi iconici. Allo
stesso tempo, però, in diverse occasioni, l’autore sposta la sua pittura in una
direzione più “fredda”, dove l’opera incontra pause di vuoto e di silenzio
comunicativo che servono però a dare sostegno alle parti più complesse e
complementari, in un discorso dove la riduzione amplifica i messaggi visivi
attraverso codici sintetici e minimali. L’artista gioca allora con il demone
della precisione che si manifesta costantemente nel suo percorso, mettendolo
però in crisi attraverso il suo stesso sistema costruttivo, utilizza un
procedimento rigoroso per comporre una sorta di opera aperta dove le mutazioni
modificano l’assunto di partenza. Le variazioni sul tema iniziale si collocano
in bilico tra il rigore matematico e l’aspirazione a scoprire la necessità
formale del disordine che corregge le asperità del progetto, il senso di un
caos controllato che trasforma l’esito finale dell’opera. Questo intento è
sviluppato proprio attraverso il progetto che mescola il disegno manuale con
l’intervento costruito al computer, una modalità che denuncia la sua natura
duplice, utilizzata per dare forma a un’opera dove l’occhio è condotto in un
labirinto fittizio dove spesso non riesce a distinguere il preesistente assunto
digitale dall’intervento pittorico anche quando la presunta corposità del
colore farebbe immaginare una particolare presenza tattile in quella zona del
quadro. Il concetto di tattilità del resto concorre alla riuscita di queste
opere, data la sua ambivalenza legata al contatto tra la mano e i sensi
dell’artista e dello spettatore sospesi tra il flusso fisico del pennello sul
supporto e il coinvolgimento sensoriale degli ambienti elettronici e in
particolare digitali, fondato proprio su una relazione tattile. [1] Non a caso,
nel suo recentissimo ciclo, Adriano Nardi, ha approfondito il suo lungo e
complesso lavoro sulle immagini, attraverso opere che sviluppano proprio il
rapporto tra pittura e digitale e divengono il tramite per una meditazione
sull’ordine e gli inganni dello sguardo. La dimensione analitica dell’opera di
Nardi viene qui condotta su un binario sospeso dove il corpo femminile può
paradossalmente trasformarsi nelle forme di un paesaggio mentale, sfidando le
nostre certezze e raggiungendo un territorio di indagine concettuale dove la
bellezza viene scomposta e riordinata attraverso un metodo rigoroso di studio
della visione e delle sue coordinate. Nardi riflette pertanto sulle possibilità
offerte dal recupero dell’illusionismo pittorico per trovare un nuovo senso
alla sopravvivenza della pittura, basato sulla possibilità che la ponderatezza
di questo medium offre nel contraddire e talora nel sovvertire la velocità che
fonda la potenza espressiva delle comunicazioni di massa. Nardi, di
conseguenza, si serve di prelievi dai mass media, rielaborati, trasformati e
inseriti però in una temporalità parallela e rallentata dove i meccanismi di
persuasione sono scoperti e dove l’artista può aiutare lo spettatore a
percorrere un più profondo tragitto percettivo. La pittura assume quindi
consistenze differenti, si trasforma in un’epidermide rugosa o in un corpo
dalla presenza lievemente materica, si smaterializza nei fluidi rivoli dei
pixel e ritorna per sviare le sicurezze del nostro sguardo. Le opere di Nardi
evitano tuttavia il rischio di uno sterile interesse formale e si scoprono
dotate di un mistero sfuggente, si arricchiscono di un enigma celato negli
interstizi che si creano tra lo sguardo e il pensiero, nella tensione
stilistica di una rappresentazione che sembra tendere al suo stesso
annullamento. Sospinti tuttavia da un dinamismo che agisce come un vento
rinfrescante, i colori e le forme si animano di una nuova vitalità, la pittura
vibra di una nuova leggerezza mentale e stilistica e le figure annunciano un
rinnovamento aurorale che sorge dalle ombre geometriche della meditazione e del
rigore. La figura femminile ritrova così la forza per occupare lo spazio
dell’immagine attraverso il sistema paradossale della sua apparente dissoluzione,
mediante lo smembramento, la scomposizione e la ricostruzione, dialetticamente
risolti nelle metamorfosi di una struttura che scopre con chiarezza il valore
della sua presenza fisica e simbolica.
1[1] Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano 1967 (ed. orig.
Understanding Media, 1964), p. 334; Cfr. anche D. de Kerckhove, La pelle della
cultura. Indagine sulla nuova realtà elettronica (ed. orig. The Skin of
Culture, 1995), pp. 54-56.
Opere pubblicate: Hagal (2005), Pittura nuda nel paesaggio (2006), Pittura nuda
nel paesaggio (2006), Paesaggio di Violetta (2006), Pittura oggetto (2007),
Pittura oggetto 2 (2007), Os Fa Piramide (2006), Paesaggio nudo 1 (2007),
Paesaggio nudo 4 (2007), Dama romana (2007), Angelo caduto (2007), Rigenerazione
(2007).
ALESSANDRA MARIA SETTE, ”Diana, Atteone e altre storie”, catalogo della
personale "Onda di Diana", novembre 2007, realizzato da Galleria
Maniero, Roma
“Ciò che amavo di più nei pittori era l’audacia”, Leo Castelli
Nuovo ciclo pittorico per il prolifico Adriano Nardi, pittore giovane ma già di
grande esperienza. Coerente con la sua ricerca, l’artista continua ad esplorare
le molte possibili combinazioni e contaminazioni tra pittura e stampa digitale.
Non si tratta ovviamente di un’operazione formale, ma di un percorso cognitivo
che parte da lontano, dalla nascita della fotografia nel XIX secolo, attraversa
nuovi esiti pittorici stimolati da questa tecnica, percorre le avanguardie di
primo Novecento, l’astrazione, la pop art, il concettuale, gli anni Settanta, i
linguaggi digitali, e arriva dritto al profondo rinnovamento della pittura al
quale in questi ultimi tempi – fortunatamente – stiamo assistendo.
In un’intervista del 2002, Nardi afferma “la stampa… mi dà la possibilità,
paradossalmente, di concentrare la ricerca sul colore, sulla pittura intesa in
senso più alto”. Dunque, da un lato, il supporto tecnologico è, per l’artista,
strumento di approfondimento e conoscenza. Dall’altro lato, per lo spettatore,
la sintesi dei due linguaggi ha l’effetto di rendere le immagini più complesse
e al tempo stesso più intriganti. Molti sono, infatti, i piani di lettura che
si offrono contemporaneamente: i colori, sempre vivaci, utilizzati in modo
inaspettato; la geometria delle forme, che vanno componendosi senza però
arrivare a negare il modello reale dal quale l’artista è partito; i simboli che
spesso emergono sulla tela; le texture stampate che vanno a ricongiungersi con
le pennellate concrete, talvolta a fondersi con queste. Infine, il corpo
femminile, che Nardi pone sempre al centro delle sue opere. Volti, mani, gambe,
ma anche figure intere, vengono trasfigurati da geometrie e colori che – senza
rispetto alcuno per le regole del reale – scandiscono, tagliano, attraversano
gli spazi della tela. E’ un’onda, questa pittura, che viene spinta con tutta la
forza del mare. Non conosce ostacoli, non si ferma finché non si afferma,
stabilisce nuove regole spaziali, cromatiche, formali. Sintetizza decenni di
linguaggi e ricerche artistiche. Racconta, con orgoglio, che, nonostante tutto,
lei è ancora lì, più viva che mai. “Dipingo cercando la rivelazione concreta
della pittura” dice ancora Nardi… Poi l’onda passa via, lasciando non la
traccia, non il segno, ma il solco del suo passaggio.
Queste donne, icone di un universo di conoscenza, strumenti di comunicazione
ampia ma alta, si fanno guardare dallo spettatore ma, nello stesso tempo, sono
loro a guardarlo, ammiccando, interrogando, talvolta provocando. Nardi non fa
misteri: queste immagini sono tratte da magazine di moda, book fotografici,
siti web voyeuristici. Sono donne bellissime, volutamente conturbanti,
consapevoli del fascino che esercitano. Sono però distanti, trasfigurate sino
ad abbandonare completamente la realtà per diventare simbolo della pittura stessa.
Corpi sensuali e colori sintetici, migliaia di pixel e pittura ad olio, si va
così realizzando il rinnovamento della figurazione, reso possibile grazie alla
grande capacità di trasformazione della pittura, linguaggio evidentemente molto
più flessibile verso i cambiamenti di quanto non si pensasse.
In questa serie di opere, l’artista compie un ulteriore passo nell’ambito dello
studio delle possibilità comunicative della pittura. Il lavoro è stato ispirato
dalla lettura del mito di Diana nell’analisi di Pierre Klossowski (“Il bagno di
Diana”, Silva Editore, Milano 1962, prima ed. italiana). Nardi non intende dare
una lettura per immagini a questo racconto, ma piuttosto “riflettere”,
attraverso i mezzi “fisici” della pittura, le implicazioni emotive della
vicenda di Diana e Atteone. Sempre con il doppio registro digitale-pittorico,
l’artista privilegia in questo caso una dimensione molto vicina all’astrazione.
Alcuni lavori di questa serie portano il titolo di “Paesaggio nudo”,
accompagnato da una numerazione progressiva. Tutte le tele, inoltre, recano sul
retro un timbro che indica la posizione in cui il dipinto deve essere
collocato. Stiamo entrando, evidentemente, in una dimensione concettuale sempre
più lucida, maturata in anni di ricerche.
Ma il concettuale è un obiettivo predeterminato o una naturale evoluzione della
ricerca di alcuni artisti? E’ una seduzione o una necessità? E’ un’attrazione
fatale o un esito inevitabile?
I titoli di alcune mostre che negli anni Nardi ha proposto al pubblico fanno
riflettere. “Antipop” (1998), “Le naviganti” (2000), “Vertical horizons”
(2002), “Microdipinta” (2004), “Pittura nuda” (2006), e questa ultima, sono
chiare indicazioni di un percorso orientato verso gli esiti forse più estremi
della pittura, un’esplorazione delle possibilità e dei limiti di questo
linguaggio, ovviamente oltre il confine della rispondenza al vero.
I “paesaggi” ora creati da Nardi sono ancora figure femminili, qui più
provocanti che mai, attraversate dall’onda impetuosa della pittura, scomposte
da geometrie concettuali che ignorano le regole della natura, incapaci di
opporsi all’urto del colore. A tratti, può sembrare quasi che siano state
queste donne a provocare Nardi, il quale ha reagito con le sue armi, le
pennellate vivide di un artista che, nell’apparente confusione di elementi, sta
percorrendo lucidamente una strada trasversale, tra il fascino freddo del
concettuale e il terreno caldo dell’emozione, tra la razionalità della
geometria e il coinvolgimento del colore, tra il sintetico del digitale e
l’organico del corpo.
E’ un percorso maturo e consapevole, quello di Nardi, portato avanti con buona
pace di coloro che gridavano che “la pittura è morta” e che il futuro dell’arte
è solo nelle nuove (ormai non più tanto) tecnologie."
ALDO MARRONI, ”Il dèmone artistico di Diana”, catalogo della personale
"Onda di Diana", novembre 2007, realizzato da Galleria Maniero, Roma
" Quale ispirazione è possibile trarre da un’opera così enigmatica come il
Bagno di Diana?* Perché un artista si richiama esplicitamente ad un altro
artista, curiosamente definitosi un “monomane”? Si tratta solo di emulazione,
di reiterazione o, addirittura, di sfida? Cosa affabulano di più la storia
mitica narrata da Klossowski o le immagini che la leggenda suscita nella nostra
mente? La vicenda della sua rappresentazione artistica inizia con un divieto e
la sua successiva trasgressione: “Nunc tibi me posito visam velamine narres, si
poteris narrare, licet” (“Racconta ora di avermi sorpresa svelata – se lo puoi,
fai pure!”)**. Ma come può Atteone riferire quello che i suoi occhi hanno
visto, se la dèa lo priva della facoltà di parlare? Perché Diana interdice
l’arte del racconto, non permette che qualcuno possa con un linguaggio naturale
ed umano comunicare la propria esperienza estatica? Sarà che forse dall’alto
della sua impassibilità detesta d’essere immortalata come una sacra sgualdrina?
Sarà che forse propende più per il culto delle immagini e che il suo erotismo,
così smaccato di fronte allo sventurato cacciatore-sacerdote, è compendiato
tutto nella sua iconofilia?
Altri interrogativi mi spingono ad andare ancor più nel profondo di questa
storia che si dipana tra il tragico volere umano e l’inutile giocosità divina.
Quali impulsi umani conducono Diana a patteggiare un corpo risplendente con il
dèmone intermediario?*** Quali aspettative di godimento divino si insufflano
nell’anima di Atteone quando segretamente, ma anche sciaguratamente, immagina
di poter possedere la dèa? Atteone, discendente dalla stirpe di Dioniso, ha nel
sangue la vocazione allo smembramento, verso cui si avvia consapevole della
fine imminente cui lo condannerà il suo irrefrenabile desiderio di violare il
divino. Diana, dèa della caccia, si è già appostata nel laghetto, attorniata
dalla sue ancelle. L’immagine del cinegeta che nell’opera di un malcapitato
artista vede manifestarsi la possibilità di riuscire nella sua impresa, non la
intimorisce. In fondo è sempre una dèa, donna solo per puro piacere,
possedibile ma imposseduta. Sarà forse Atteone a possederla, lui cacciatore di
cervi e lei desiderosa per gioco del bramito animalesco? Il dèmone paraninfo si
diverte alle loro spalle, li tiene d’occhio acconsentendo ad ogni richiesta
lasciva.
La vista, considerata dalla cultura filosofica occidentale vero senso
teoretico, unitamente all’udito, perché scruta senza toccare, perché infiamma
la concupiscientia oculorum, ingenera il peccato del guardare ma è anche il
punto d’incontro dei desideri carnali, dunque è lo strumento sensitivo complice
dei due amanti. Atteone ha gia osservato in un affresco se stesso nell’atto di
montare la dèa. Diana sa già di questa sua visione e lo trae in inganno,
rivestendosi di un corpo luminoso, dunque assumendo anche lei, al suo servizio,
la forza dell’immagine. Ambedue si sentono vincolati alla visione fantasmatica
che mano a mano prende forma nelle loro anime. Sono futilmente votati allo
stesso gioco speculare. Ma com’è possibile, si chiede Atteone, possedere una
dèa? Diana lo invita a provarci, non dimenticando di essere, in quanto corpo
divino, fuori della portata di qualsiasi amante umano. Potrà mai Atteone
accedere all’ordine divino ed ergersi con le zampe dietro a Diana? Potrà mai
Diana divenire un essere umano e cedere all’istinto animalesco di Atteone?
L’enigma si fa strada nelle loro coscienze, fino a giungere alla consapevolezza
di un netto impedimento ontologico. Ma se lo stato soprannaturale e quello
naturale confliggono, vi è un’altra facoltà che può favorire l’impossibile
incontro, ed è l’immaginazione. Francesco Bacone aveva sentenziato che
l’immaginazione può fare matrimoni e divorzi illegali tra cose. Perché allora
non può far accoppiare Atteone e Diana? Diana – come ho detto – è una convinta
iconofila. Ma Atteone, nutre la stessa convinzione? Sembra di no. Il suo
desiderio naturale di possedere la dèa lo costringe all’iconoclastia. Non si
accontenta del suo simulacro. L’erotismo iconofilo di Diana si scontra con
l’iconoclastia mortifera di Atteone. Per questa sua ansia distruttrice il
cinegeta verrà trasformato in uomo-cervo e fatto a pezzi dai suoi fedeli cani.
Diana, gli adepti, li vuole con convinzione adoratori del suo simulacro,
complice il dèmone intermediario. Così il vero discepolo della dèa della caccia
è colui che esercitando l’immaginazione e lasciandosi possedere dalle potenze
impulsionali, diviene prima ancora che narratore (il cui esercizio è impedito
dal verdetto soprannaturale), pittore, costruttore di simulacri. Il simulacro
comunicabile ha la meglio sulle parole, le quali tradiscono nella mediazione
della coscienza l’intensità della visione. Il Bagno di Diana, risalente agli
anni Cinquanta, preannuncia un’inversione di tendenza che vedrà Klossowski
impegnato nella realizzazione di tableaux vivants a grandezza naturale: nel suo
cammino di pensiero, questo apparente rovesciamento segna il passaggio
filosofico dal far comprendere al far vedere, dal dominio della coscienza alle
forze impulsionali, dai freddi concetti alla complicità emozionale. E’ mai
possibile attribuire al gioco tragico di Diana il desiderio di innalzare la
pittura ad arte divina? Lo può certamente, ma solo se l’arte abbandona
l’ambizione di raccontare. Se pensa, invece, di assumere in sè lo spirito della
narrazione, ha già perso la sfida in partenza.
Con quale sguardo opera Adriano Nardi? Egli vede Diana attraverso le
suggestioni e le visioni generate nella sua anima dallo stesso dèmone che ha
portato Atteone verso la morte e Klossowski verso il superamento delle “leggi
dell’ospitalità”. Allora Nardi deve essere considerato un complice di
Klossowski ed un adepto di Diana? In ogni caso, un solo culto è ammesso: quello
del simulacro. Non pensare mai di andare oltre la propria visione, significa in
primo luogo non oltrepassare mai ciò che ci si presenta con urgenza
nell’immaginazione. Assumere in proprio la violenza dell’iconoclasta può
portare all’impossibilità non solo del dire, ma anche del rappresentare. Nardi
ha compreso la lezione impartita dal dèmone artistico di Diana. Rifugge il
narrare, per mettersi al riparo nel far vedere, nel far vivere il suo
spettacolo mentale tra i cultori dei simulacri. La seduzione del corpo di Diana
(o meglio: del corpo creatole dal dèmone) e la sua iconofilia continuano a fare
discepoli. Nardi, dunque, replica nel suo spirito e nei suoi interventi artistici
sulle “monete viventi”**** quel sentire voluttuoso che ha impedito ad Atteone
di parlare ma non di vedere, quell’impulsionalità che ha permesso a Klossowski
di vedere, di narrare e di rappresentare nel contempo. Le visioni proposte
nella mostra nascono, ad avviso del mio sguardo estraneo, dalla sottomissione
ad un impeto iconofilo la cui potenza programmatica sta nella reiterazione
all’infinito dell’infinita seduzione esercitata dall’arte attraverso il corpo
demoniaco di Diana e l’enigma mortifero di Atteone. Che si senta anche l’anima
di Nardi sotto il dettato possessivo dell’immagine? “L’anima – dice Klossowski
- è sempre abitata da qualche potenza, buona o cattiva. Non è quando le anime
sono abitate che esse sono malate; è allorquando non sono più abitabili. La
malattia del mondo moderno, sta nel fatto che le anime non sono più abitabili,
e che esse ne soffrono!”.
*P. Klossowski, Le Bain de Diane, Pauvert, Paris 1950.
** Ovidio, Metamorfosi, libro terzo, vv.192-193.
*** Apuleio, Il demone di Socrate, a cura di B.M. Cagli, Marsilio, Venezia
1992.
**** P. Klossowski, La Monnaie vivante, Éric Losfel, Paris 1970.
ADRIANO NARDI, ”Onda di Diana”, catalogo della personale "Onda di
Diana", novembre 2007, realizzato da Galleria Maniero, Roma
"_ Diana è il vuoto pieno e meraviglioso: vive ed abita nel luogo
impossibile dell’Alto paesaggio. La divina virtù di castità della Dea è insita
al proprio ritrarsi dal desiderio di Atteone di possederne la chimica, le
membra, i profumi ed effluvi di pelle bagnata e aperta. Il riflesso con cui si
materializza la teofania di Diana, il demone intermediario, sfida l’uomo-cervo
neofita con queste parole: “Se puoi farlo sei libero!”. Sorpresa durante il
bagno nell’onda, nello spruzzargli acqua sul viso la sua astuzia è di non
compierne del tutto la metamorfosi. Cosicché “egli non penetri nella luce che
va cercando, poiché tutto ciò che è manifesto è luce.”
Opere pubblicate. Quadri: Ge ehe man (2006), Moneta vivente (2006), Paesaggio
nudo (2006), Paesaggio nudo 2 (2007), Paesaggio nudo 3 (2007), Paesaggio nudo 5
(2007), Paesaggio nudo 6 (2007), Paesaggio nudo 7 (2007),Paesaggio nudo 8
(2007), Onda di Diana (2007). Carte: Alto Paesaggio 1 (2006), Alto Paesaggio 2
(2006), Alto Paesaggio 3 (2006), Alto Paesaggio 5 (2007), Alto Paesaggio 7
(2007), Alto Paesaggio 8 (2007), Alto Paesaggio 13 (2007).
LORENZO CANOVA, ”Nove artisti romani”, catalogo della mostra collettiva Nove,
Silvana editoriale, Milano 2007.
(testo prossimamente in pubblicazione)
LORENZO CANOVA, ”Metamorfica”, catalogo della collettiva "Pittura
Elettrica capitolo II", settembre 2006, edizione Giamaart Studio, Vitulano
(Bn)
" II corpo, il volto, lo sguardo e la loro estensione nella realtà hanno
rappresentato sin dagli anni Settanta alcuni dei temi privilegiati del versante
elettronico dell'arte contemporanea, campi di ricerca dove il video, affiancato
dalla fotografia, si è trasformato in un centrale strumento di indagine che ha
trovato in seguito un'importante estensione nelle tecniche digitali. Le ricerche
sul corpo e sull'identità si sono poi intrecciate alla nuova attenzione per i
mass media sviluppata dalla Pop art perdendo il carattere di critica radicale
che le avevo spesso contraddistinte e trovando un nuovo dialogo con la pittura
e la scultura, che non sono rimaste assolutamente indifferenti di fronte a
questo fenomeno, ponendosi spesso in un confronto diretto con le immagini delle
comunicazioni di massa. In questo senso, ad esempio, il genere del ritratto si
è in qualche modo "dilatato" per la sua possibilità di avvicinarsi
all'immaginario del mondo contemporaneo marchiato dalla presenza moltiplicata
degli occhi che ci scrutano dalle riviste, dai quotidiani, dai monitor e dai
cartelloni pubblicitari. Pertanto, la "contaminazione" mediatica che,
fino a qualche anno fa, appariva come un'esigenza basilare per la sopravvivenza
della stessa pittura nel contesto delle arti del presente, oggi si mostra come
un punto di partenza molto trasformato dallo sviluppo di istanze e di influenze
che non dimenticano il recupero di suggestioni e di spunti derivati da un ampio
arco cronologico della storia dell'arte che unisce il Medioevo alle
neoavanguardie. La citata tradizione del ritratto e l'astrazione geometrica, la
vanitas barocca e l'iperrealismo possono diventare in questo modo elementi
utili a costruire un nuovo discorso sulla pittura d'immagine aperto agli
sconfinamenti e alle mescolanze con la comunicazione di massa, ma con una forza
della presenza iconica dello figura che rappresenta un elemento decisivo di continuità
con l'arte italiana dei secoli passati in un viaggio, che raggiunge anche il
cinema, dagli affreschi di Giotto fino a Pasolini. Gli artisti del secondo
capitolo di Pittura elettrica rappresentano così il corpo e il volto, cercano
un nuovo sguardo sulla natura e sul mondo passando dall'azzeramento assoluto di
carcasse abbandonate nel deserto al trionfo ambiguo di una sensualità da
copertina, combinano eros e ironia, suggestioni della memoria e costruzioni
paradossali, possono scavare nelle pieghe dei sistemi complessi del reale e
nella loro proiezione nei media, recuperare e rinnovare antiche iconografie,
mostrando tutta la capacità metamorfica della pittura e della scultura di
restare linguaggi capaci di inserirsi nel cuore pulsante del contesto contemporaneo
…Adriano Nardi si sofferma sul corpo femminile, rappresentato utilizzando
spunti di immagini di nudo riprese dai media sulle quali si innestano campi
cromatici e scansioni geometriche, La rappresentazione è dunque utilizzata come
un paradossale strumento di indagine analitica, in una struttura dove
l'accostamento tra la carnalità patinata del soggetto e la sua ricostruzione
mentale creano un vero e proprio corto circuito concettuale tra le consuetudini
percettive e le trasformazioni della figurazione…
Opere pubblicate: Potnia minore (2005), Peace Potnia (2005), Grande Potnia
(2005).
MARIA CRISTINA BASTANTE, ”La scintilla della pittura”, catalogo della
collettiva "Pittura Elettrica capitolo II", settembre 2006, edizione
Giamaart Studio, Vitulano (Bn)
"Ad un primo sentire pittura elettrica può suonare simile ad un ossimoro.
Senza pensarci troppo, alla pittura s'associa una tradizione secolare e l'idea
di un'esecuzione che richiede comunque un certo tempo. D'altro canto,
l'elettricità è istantanea, inafferrabile. La scintilla, quindi, è tutta qui,
nell'apparente contrasto, che, invece, si rivela un fertile e proficuo incipit.
L'influenza dei nuovi media e dei nuovi mezzi espressivi è fatto non
trascurabile: che poi la risposta sia d'accoglienza o di critica poco cambia,
il dado è comunque tratto. E la pittura, o meglio chi fa pittura - qui è il
nucleo di questo progetto, articolato in due capitoli - incamera immagini,
suggestioni, non si lascia sfuggire ne le rosee promesse di un futuro migliore,
ne gli aspetti inquietanti che sono l'altra faccia del progresso tecnologico e
scientifico, Su questi elementi s'intesse la riflessione e questi elementi
possono diventare battuta d'avvio per un'ulteriore indagine, questa volta
interna allo stesso linguaggio della pittura...
…Nei quadri di Adriano Nardi, le figure femminili appaiono trasfigurate, come
icone lontane: algide, perfette nei tratti e nelle proporzioni, queste giovani
donne - riprese da riviste patinate, da editoriali di moda o da immagini
pubblicitarie - vengono trasformate in semplici superfici, attraversate da
campiture di colore piatto, definite da un incastro severo di linee. II gioco
percettivo oscilla continuamente tra astrazione, indagine analitica e
metamorfosi: il risultato è un'affascinante riflessione sul medium, sulle
possibilità offerte dalla tecnologia, sulla definizione di un nuovo
immaginario, in cui contemporaneità e tradizione dialogano…"
GABRIELE PERRETTA, ”Pittura discinta e pratica edonista”, catalogo
della personale "Pittura nuda", edizione Studio d'Arte Fedele,
Monopoli (Bari), Giugno 2006
testo
(cfr., con variazioni) pubblicato anche con
il titolo "Tra pittura ed ecologia della pittura" nel volume: "In
contrattempo. La pittura malgrado tutto" (a cura di Romano Gasparotti),
edizioni Mimesis, Milano, 2007
" Ogni volta che un artista rinnova l’interesse ad adoprarsi nel dipinto,
si pone di nuovo davanti a noi la domanda di sempre: che cos’è la pittura e in
che modo, nel nostro contemporaneo, è possibile “farla”? Una buona parte degli
interrogativi posti dall’arte moderna equivalgono alla domanda vitale sul come
fare la pittura e perché affaccendarsi ancora in essa. Sembra che il senso
della pittura, come del resto quello della poesia, della musica e di altre
tecniche antiche quanto il nostro mondo, si avviluppano sul loro operare e
sulla loro stessa possibilità a realizzarsi. Oggi, quindi, lavorare nella
pittura e attraverso la pittura rimane un problema, un’incognita che spesso ci
appare vittima della sua stessa pratica, martire e sacrificio del suo stesso
svolgimento. Su questo interrogativo riflette anche Adriano Nardi che, come
artista, negli ultimi tempi, colpito dalla minaccia che il mestiere espressivo
subisce grazie al bombardamento pluri-estetico del quotidiano, arriva a
definire il suo stesso fare pittorico “nudo”, cercando di effettuare la pittura
con le seguenti intenzioni: “Capire cosa succede nella materia, nella natura.
Capire cosa fosse possibile intuire e vedere nella libertà riflessiva (cioè
della luce riflettente) in quel suo correre, librarsi, cadere e alzarsi,
elevarsi e sprofondare, ma soprattutto cosa fosse quella possibilità spaziale”.
Nardi, facendosi sempre più esplicito e “nudo”, come il suo stesso mestiere,
dice che ritiene “ecologico il fare pittura, e naturali i suoi strumenti con
cui riflettere e capire l’ambiente che ci circonda e in cui viviamo”. Ma in
effetti, la questione sta proprio qui: per tendere verso una sorta di ecologia
del fare pittorico, come lo stesso Nardi ci rammenta, non bisogna capire solo
in che maniera fare la pittura, ma tentare anche di ragionare e di ripensare
l’ambiente, non solo come il luogo che accoglie la pittura che noi possiamo
offrire, ma anche come l’habitat e la pittura che esso ci offre. In sostanza,
non è possibile staccarsi dal mondo e fare alla maniera di…, perché anche se
fosse così la maniera stessa apparirebbe come il dato certo di un processo
sociologico in atto. Basta ricordare, come farebbe Francis Haskell, che non è
possibile prescindere dal collegamento tra la dimensione estetica del presente
e le altre dimensioni della vita collettiva. Il valore di una bellezza antica o
moderna dipende dai contesti sociali in continua evoluzione.
A proposito dell’ecologia, proviamo ad adoperare una perifrasi: se l’istanza
sulla struttura compositiva della pittura richiede un responso ecologico, cos’è
più naturalistico, il suo ambiente poetico interno (quindi tecnico), o il suo
specchio naturale e biologico? Partendo sempre da questioni sociologiche
generali, sappiamo che la scienza biologica studia l'ambiente e le relazioni
che i diversi organismi viventi instaurano tra loro e con i luoghi medesimi.
Dallo stesso discorso generale sappiamo anche che l'ambiente fisico è
caratterizzato da fattori fisico-chimici, detti complessivamente fattori
abiotici, quali la temperatura, l'umidità, l'intensità luminosa, la
concentrazione di ossigeno, di anidride carbonica e di sostanze nutritive nel
suolo, nell'acqua e nell'aria. Nel contemporaneo, si parla spesso di ambiente
biologico, o di componente biotica per indicare l’insieme di tutti gli
organismi viventi presenti in un dato ambiente fisico. L'ecologia è un sapere
complesso, che sfrutta le conoscenze di numerosi settori dello scibile umano.
Coniato dal biologo tedesco Ernst Heinrich Haeckel nel 1869, il termine
ecologia deriva del greco óikos, "casa", e lógos,
"discorso". Come sappiamo fu Charles Darwin, che con la teoria
dell'evoluzione mise in evidenza gli adeguamenti dei diversi esseri viventi ai
vari tipi di ambiente, sottoposti al vaglio della “selezione naturale”, mentre
fu il naturalista e geografo Alexander von Humboldt, che studiando la
distribuzione delle specie vegetali sul nostro pianeta, ci propose un termine
di paragone fra il mondo naturale e l’estetica dell’espressione.
Ma diciamo che, parallelamente, anche l’arte e la pittura nei secoli della sua
evoluzione hanno avanzato un sapere ecologico che si potrebbe prospettare come
la conoscenza della casa dell’arte. Se l’ecologia è l’oikos-logos, la pittura a
detta di Heinrich Wolfflin è malerisch, ovvero non una forma per mezzo del
contorno, ma grazie ad una mescolanza di luci ed ombre che ci restituisce una
determinata chiarezza di colore, ossia la nuda forma della materia come pittura
stessa. Il celebre storico svizzero, nel 1915, ci suggeriva che la pittura in
sostanza è lo specifico del pittorico, essa è la sua nudità e di ciò che è
vivace ed espressivo in sé. Ma aggiungiamo pure che, dal 1915 sono successe
tante e tante cose e forse lo stesso H. Wolfflin non ebbe il tempo di assistere
a ciò che le avanguardie storiche prospettarono della totalità del linguaggio
artistico, per riuscire a cambiare nel corso del ‘900 proprio la dimensione
della pittura. Ricordiamo pure, a costo di essere noiosi e pedissequi, che la
pittura ha subito tante di quelle rivoluzioni, che forse nella pittura stessa
l’aspirazione ad una nuova rivoluzione rischia di rimanere una velleità più
secessionista e plateale della facciata rinascimentale dell’Università di
Salamanca.
La pittura e la pratica pittorica sono divenute un campo di scissione del mondo
dell’arte. C’è chi fa la pittura presupponendo il terreno delle emozioni (un
territorio che possiamo chiamare emo-painting) e chi ne ipotizza una che invece
riusciamo a definire conceptuelle1 o pittura mediale che considera l’emozione -
come diceva lo stesso Aristotele - una “categoria della passività” 2. La
pittura, là dove adatta l’emotività al suo modo di agire, coniuga le azioni e
quindi contrappone la ricerca del piacere oltre la distinzione tra buono e
cattivo e, là dove si dà unicamente come mezzo, appare provocatoriamente
oggettiva, ovvero come dice Adriano Nardi “il ritmo compositivo costruisce ed
esprime la propria forma come prodotto plastico che contiene la propria
immagine”. Nel catalogo di San Marino del 2005, Nardi dice in maniera secca che
nella “pittura non descrittiva il colore esprime se stesso e la
seduzione”3,ovvero l’insidia iconografica del godimento agisce quasi come un
atteggiamento critico.
Facendo, dunque, un ragionamento bio-sferico sulla pittura, diciamo che oggi
essa - così come l’ecologia - comprende gli insiemi di tutti gli organismi
esistenti nel suo lessico e nel suo dizionario strumentale. Per continuare a
riferirci al parallelo con la scienza ecologica, è come se i vari elementi e le
varie tecniche che concorrono alla formazione della pittura fossero dei biomi,
ovvero un complesso di ecosistemi che si fanno avanti grazie alla struttura
dominante della grammatica pittorica. Quindi, ogni volta che si ricorda un
discorso sulla pittura sovviene la domanda: “Cosa è stata dunque la pittura
dalle origini ai giorni nostri?”. Storicamente la pittura risponde all’idea di
un’arte di applicare colori o altre sostanze organiche o sintetiche su varie
superfici, per creare immagini. Nel corso della sua storia, la pittura ha
assunto varie forme primarie, cui corrispondono materiali e tecniche distinti.
Fino al XX secolo, essa è stata quasi sempre aiutata dall'arte del disegno. In
Occidente, molto sfruttata fu la pittura ad affresco che arrivò al culmine del
suo sviluppo nel tardo Medioevo e nel corso del Rinascimento, e che prevede
l'applicazione dei colori "a fresco", cioè sull'intonaco ancora
inumidito (talora completata dall'aggiunta di alcuni dettagli "a
secco"). La pittura a tempera, una tecnica ancora più antica, comporta
l'uso di pigmenti miscelati con rosso d'uovo e applicati su uno spazio piano
debitamente preparato, ordinariamente una tavola in legno coperta da un telo e
quindi da più strati di gesso e colla. L'invenzione della pittura a olio, che
fu preferita all'affresco e alla pittura a tempera in epoca rinascimentale,
veniva tradizionalmente attribuita ad alcuni pittori fiamminghi dell'inizio del
Quattrocento, tra cui i due fratelli Hubert e Jan van Eyck; ora si ritiene,
invece, che la sua origine risalga a epoche precedenti. La pittura ad olio è
una tecnica basata sull'uso di colori ottenuti impastando i pigmenti con
sostanze oleose. Relativamente semplice da utilizzare, la pittura a olio
essicca a rilento senza mutare di colore; ciò semplifica il processo di
elaborazione dell'opera consentendo correzioni, sfumature e tonalità, fin dalla
prima stesura. Variando lo stemperamento, l'olio si presta a ogni tipo di
applicazione: velature, chiazze, sgocciolamenti, spruzzo e pittura a corpo (con
impasto denso e coprente). Con la pittura ad olio è possibile miniare una scena
realistica, creare effetti di intensità con l’aiuto di contrasti di luce e
ombra, combinare i colori in maniera significativa e fermare una speciale
situazione. La tecnica si adatta bene anche alla pittura astratta. Ricordando
ancora i diversi rapporti che i pittori ebbero con il loro lavoro, si richiami
pure il celebre Vincent Van Gogh, il combattuto fiammingo che usò i colori in
maniera nuda e vivace, basandosi su una pennellata larga e vibrante. Una volta
in un taccuino di appunti, che testimonia la recente uscita di Antonin Artaud
da otto anni di internamento manicomiale, il celebre attore e commediografo
marsigliese ebbe a scrivere del Campo di grano con volo di corvi (1890) del
famoso pittore nativo di Groot Zunder: “una linea macabra di corvi neri / su un
paesaggio di terra convulsa, un mare scatenato di onde di terra vinaccia, / una
formidabile schiuma di onde di melma, / rosse come la vinaccia,/sulla quale una
linea di corvi pende come una vecchia tenda che ricade, / una linea di corvi
che sfalda su un mare di vinaccia convulso, / una formidabile schiuma di un
vino che avesse / intasato la terra, perché questo mare è una melma / di
materia massiccia sporca e carminiata”4. Insomma, in questo scritto che risale
al 1947, l’arte vibra tra la materia massicciamente bisunta e carminata, come
nello stesso Van Gogh, che prolungherà la sua estetica sino alle vibranti
esperienze del Gruppo Cobra5, preparando l’arte contemporanea ad altri rapporti
con la fisicità della tela e del colore. Infatti, a conferma che il mezzo
pittorico è di per sé latore di un messaggio che si sposta al di là della
dimensione pura considerata da Marshall McLuhan, va rammentato in che misura
Mark Rothko, uno dei maggiori pittori degli anni Quaranta, fu tra gli
inconsueti entusiasti di tecnologia, usando pigmenti che non hanno fatto fronte
ai guasti del tempo. Già i preraffaelliti utilizzavano i prodotti versatili
della nuova tecnologia chimica, per rappresentare un mondo che la scienza non
aveva mai corrotto. Per Jackson Pollock, poi, i nuovi colori incarnavano
l’attualità del proprio tempo. Inoltre, un artista che ha usato in maniera
incondizionata vernici industriali fu Frank Stella, entusiasta di stendere una
sostanza acrilica veloce, anonima, forse priva di fascino, prodotta in serie ed
adatta ad oggetti di arredamento industriale. Helen Frankenthaler si dedicò
alle vernici perché sottraevano alla comunicazione pittorica il sentimento.
David Hockey, in una retrospettiva del 1970, del suo passaggio (del 1963) dagli
oli agli acrilici dichiarò: “Quando usavo i colori ad olio dovevo sempre
lavorare almeno a tre o quattro quadri contemporaneamente, perché allora potevo
continuare a dipingere ogni giorno… bisognava aspettare che asciugassero. Ora
invece è possibile lavorare tutto il tempo a un’opera sola”6. In sostanza dalle
parole stesse degli artisti si può capire che la storia ultima del pigmento
pittorico coincide con la crisi e la metamorfosi della pittura stessa del
nostro secolo e soprattutto con l’impossibilità dell’uomo nel suo atto
artigianale di ritornare indietro nel tempo, a meno che questo ritorno indietro
non rappresenti una forte motivazione concettuale. Non a caso Alechinsky, il
vecchio componente del gruppo Cobra, per le sue composizioni di grande formato,
dal 1965 utilizza esclusivamente colori acrilici, che rendono il tratto più
morbido e meno espressivo. Il pittore Morris Louis (scomparso nel 1962),
riprendendo dalla tecnica della Frankenthaler e ignorando i pennelli, creava
delle macchie versando colore acrilico sulla tela grezza. Whaam! che fu dipinto
nel 1963 da Roy Lichtenstein, uno dei primi artisti a utilizzare immagini
tratte dai fumetti e dalla pubblicità, fa parte di un ciclo di grandi acrilici
su tela (misura 173x406 cm) in cui non vi sono dubbi sulla metamorfosi che la
pittura del ‘900 subì di fronte all’avvento dell’elogio tecnologico e nella
tecnica di esecuzione di un manufatto. L’impianto è dotato di una grande
apologia del mondo della reclame ed il segno riflette – come scrisse Jean
Baudrillard nel 1974 - “l’anomia nella società opulenta”7. Kenneth Noland,
anche economicamente, era contento dell’acetato di polivinile, il rinomato PVA
per impastare pigmenti in polvere aiutava le perversioni tecnologiche
dell’artista.
In sostanza, l’alchimia operativa viene assorbita dal mondo tecnologico e il
colore rispecchia il nuovo termometro della pittura, che collabora a rendere
anacronistico qualsiasi principio di purezza e pulizia. Ecco perché l’esigenza
di ecologizzare il discorso pittorico diviene una scelta politica e soprattutto
una scelta analitica, una predilezione critica e concettuale che guarda con
scetticismo tutte le forme di costruzione pittorica che non partono dall’analisi
del proprio fare. Nella breve definizione di Olio su tela, mostra del 2005 a
San Marino Nardi dichiara: “Ho definito il grado oggettuale della Pittura
sperimentando la stampa digitale. Si è resa evidente – la concreta realtà –
innestando la micropittura dei corpi in immagini prelevate dal contemporaneo,
ispirate a drammi sociali legati alle istanze ambientali, come nella grande
opera “Mapping Dora” del 2002 (realizzata dopo l’11 settembre 2001) […]. Nel
ready-made sostanziale della Pittura la materia permane nella sua immanenza”8.
In sostanza Nardi dice che in una fase digitale corpo e materia della pittura
si virtualizzano e in un secondo momento la tecnologia si trasferisce nei
riflessi di colore della luce cromatica. I pigmenti pittorici, oggi prodotti sinteticamente,
un tempo venivano ricavati impastando la polvere ottenuta dalla frantumazione
di particolari minerali con diversi tipi di grassi e oli. I minerali più usati,
con i relativi pigmenti in polvere e in pasta sono l’ematite, malachite,
azzurrite, cinabro, lapislazzuli, realgar e orpimento.
La maggior parte degli artisti usa oggi colori a olio di produzione
industriale, confezionati in tubetti. I pigmenti utilizzati devono essere
insolubili, stabili nel tempo e chimicamente inerti. I colori a olio asciugano
con l'esposizione all'aria, per assorbimento di ossigeno. Poiché gli oli grassi
tendono a ingiallire, si usano come diluenti oli essenziali di origine vegetale
(essenza di trementina, di lavanda ecc.). I supporti più indicati per la
pittura a olio sono il legno e la tela di lino, cotone o canapa tesa su un
telaio mobile o incollata su tavola. Il supporto deve sempre essere preparato
accuratamente mediante la stesura a più riprese dell'imprimitura, una mistura
di colla e gesso, che garantisce la presa e la stabilità dei colori. La tecnica
della pittura a olio si presta a una grande varietà di procedimenti, ma prevede
in genere alcune tappe fondamentali. I pennelli più utilizzati per l'olio sono
prodotti con setole piuttosto rigide, ma si usano anche spatole e perfino
“l’universo mondo”. Nel corso dei secoli, si sono succeduti vari metodi, teorie
e stili artistici, spesso riproposti, per quanto modificati, in vari momenti
storici. Ad esempio se gli impressionisti sono usciti del tutto trasformati dal
confronto con la fotografia, i nuovi pittori ad olio del XX secolo sono usciti
del tutto modificati dal confronto con i media e con la rivoluzione digitale.
Non a caso Adriano Nardi, in uno dei suoi appunti sulla metodologia della
micropittura, che risale al 16 giugno 2005, registra il fenomeno che la Kodak
ha deliberato la fine del bianco e nero. Questo ultimatum tecnico, se da un
lato mette fine ad una storia della tecnica, dall’altro apre degli orizzonti
problematici che solo l’arte e l’immagine mediale dagli anni ’80 in poi ha
tentato di definire. Infatti, Nardi suggerisce di parlare, al di là della
figurazione e della rappresentazione, di pittura figurata e soprattutto “nel
concreto superficiale della materia e della sua virtualità luministica” di micropittura
“intesa anche come percezione ecologista delle cose e delle sostanze”. Non a
caso Nardi, volendo giungere ad un approccio molto semplice, ha chiamato la sua
mostra a San Marino Olio su tela, per rivendicare - così come facevano i
pittori degli anni Quaranta - che ci troviamo di fronte ad una tela, quindi ad
una “vera materia e ad un vero colore”. Ma, in effetti, chi ama la verità oltre
il paradosso sa bene che, come afferma l’acutissimo Victor Sklovskij, se l’arte
è pensiero espresso per immagini anche la tela, la materia e il colore sono le
componenti grammaticali di un’immagine, che è spirito di infrazione ma non di
negazione di se stessa, anche là dove abbiamo davanti ai nostro occhi dei ritmi
assolutamente deformi, astratti e che fanno fatica ad accennare ad una
qualsiasi figurazione o figura. Infatti, insisteva col dire Sklovskij, la
“parola figura è anch’essa una figura”. Adriano Nardi indica, dunque, l’olio su
tela come la sponda più radicale della materialità della pittura, ma
inevitabilmente anche come il metro di paragone tra il godimento della pittura
e la pregnanza oggettuale della stampa digitale.
In effetti, il desiderio del pittore è quello di legittimare il suo stesso
mestiere come strumento per “terapeutizzare l’attività della percezione” e
difendere quasi sempre il gioco della propria identità. Così disposte, la
logica e l’attenzione di Nardi vogliono andare “oltre l’accademia”, ma sarà mai
possibile tutto ciò? Oppure, questo desiderio è solo un modo di farsi
riconoscere oltre la coltre di crisi, che si addensa nel territorio stesso
della pittura, all’indomani delle nostre ansie attuali? Le ansie che oggi ci
affliggono sono tante ed una di queste è quella legata alle mitologie della
tecnologia. In altri termini, siamo assolutamente sospettosi nei confronti
dell’affermazione della tecnologia, quasi come se fossimo le vittime
predestinate del suo gioco infernale. Ma chi lo dice che la natura è così
serena e benefica con noi? L’artificio ormai ha il suo essere, ha la sua etica
e questa, al di là delle ansie, filtra i desideri di un’arte che è figlia del
nostro tempo complesso, nel quale la pittura è stata assolutamente fagocitata.
È il caso di Nardi che, quando evoca la pittura nuda, parla di una nudità
desiderata, critica, iconograficamente insidiosa come il corpo di una bella
donna - da cover di magazine - che ci desta i sensi e ci conduce nell’universo
dei sogni erotici infiniti. La disputa di Nardi si rispecchia in queste sue
parole: “Nei quadri dalla prospettiva bidimensionale o dalla struttura
geometrica a scalante (vedi teoria dei frattali) come gli “hurricanes” o
“pittura libera”, la anomalia apparente, transgenica, tra riproduzione manuale
e riproduzione tecnologica, restituisce il fascino del potenziale
microstrutturale…”.
Per ricordare quanto sia inscindibile il rapporto tra la salvaguardia del
naturale e l’affermazione dello sviluppo tecnologico, basta fare l’esempio
delle discariche di rifiuti: l'eccesso di produzione di rifiuti è una delle
conseguenze del livello tecnologico raggiunto nella civiltà occidentale. In un
mio recente articolo sulla questione del natechrealism e sul connubio tra
ecologia e tecnologia, rendevo al paziente lettore il seguente esempio: “un
giornale distribuito nei paesi dell’Asia meridionale restituisce una notizia
veramente globale: si racconta che ogni anno l’India importa centinaia di
migliaia di PC che arrivano sottoforma di omaggio o di materiale da riadattare.
Ma sono solo rifiuti, come lo sono i frigidaire, i cellulari e gli apparecchi
televisivi. Il servizio, pubblicato sul magazine Outlook, sostiene che: “Per
osservare i “riciclatori” all’opera basta transitare su una delle strade di
Bombay. Drappelli di adolescenti sbudellano PC e videoterminali, estirpandone i
componenti. I pezzi vengono puliti con polveri o soluzioni acide e divisi dalla
plastica, oppure si approssimano ad andare al fuoco, per poter staccare e
dividere i diversi metalli. Finanche i tubi catodici, che contengono piombo,
vengono inceneriti per rinvenirne il vetro. Infine, i residui arrivano nei
cassonetti e indirizzati alle discariche. I ragazzi si muovono con scioltezza,
lavorano senza guanti e senza nessuna protezione contro i fumi velenosi”.
Guardando lo spettacolo di Bombay è facile capire quanto siamo affezionati alla
nostra civiltà e, soprattutto, quanto nel bene e nel male la condizione
tecnologica è planetaria. Globale fino al punto da inserirsi in qualsiasi
rapporto e dimensione umana. In effetti questa realtà serve a dimostrare che,
non solo non amiamo i nostri territori, ma ogni giorno siamo costretti ad
osservare con sempre maggiore indifferenza l’immiserimento prodotto dal nostro
sviluppo, avvezzandoci al suo costante andamento”9. Ecco, questo è quello che
dicevo a proposito del nostro consumo tecnologico globale, con l’intenzione di
dimostrare che nessuno di noi è più in grado di prescindere da questa realtà e
che quindi una possibile riflessione sulla nudità di una tecnica non sarebbe
più in grado di ignorare il filtro globale di una medialità conflittuale. La
“pittura figurata” che dir si voglia non può che essere pittura mediale e
quindi in quanto mediale non può che essere un ossimoro della pittura stessa ed
un suo antidoto10. In effetti, in quell’occasione di analisi in cui usavo la
pittura come ironia sulla pittura stessa scrissi - usando il corsivo - che la
pittura è una tecnica che serve a gestire le immagini digitali nella loro
immediatezza. A distanza di poco tempo, anche per quanto riguarda Nardi, non
riesco a cambiare il mio parere. La pittura oggi rimane un ossimoro ed essa
anche se si pone problemi di naturalezza, sulla sua stessa visione tecnica non
potrà mai più prescindere dal confronto e dal matrimonio bio-genetico con altri
media, fino al punto che essa direttamente o indirettamente nel contemporaneo è
condannata ad agire sullo sfondo di una grande mimesis mediale per assorbire:
astrazione, informale, verosimiglianza, rappresentazione, ecologia, spazialità
et via di seguito. Insomma, la pittura non è più un punto e daccapo, ma semmai
un flusso nelle arti. Con la sua grande conformazione conceptual-design può
comprendere una scelta di specificità pittorica, istallativa, scultorea et
seguito. Anche a partire da ciò, Adriano Nardi mette insieme immagini fluenti e
concentrate dove l’attrattiva del volto muliebre, attraversato da campi
cromatici e da scansioni geometriche, sembra rivelare le coordinate di una
nuova e possibile sensibilità del mondo attraverso la provocazione edonistica.
Oggi tutti danno ragione al medialismo, tutti riconoscono che per fare un discorso
attuale sulla pittura bisogna confrontarsi attivamente con la fotografia, il
digitale o il video, rielaborando le sollecitazioni dell’universo comunicativo.
La pittura oggi si salva dalla decadenza solo se punta a guardare la vita
quotidiana. Essa non può restare con lo sguardo intatto, solo se guarda al
mondo si nutre del mondo. Tutto ciò Nardi lo mostra, passando da una
costruzione metamorfica del quadro, da una doppia valenza digital pittorica ad
una soluzione “nuda”, in cui il digitale è solo evocato nelle fessure, nei
nicchi, nelle pieghe, negli angoli delle figure, nelle texture recondite del
corpo femminile. Le occasioni di espressionismo astratto sono dunque puntuali,
sovrapposizioni di vestizioni che nella loro violenza non intaccano neanche per
un attimo quei tenui e riposati ritagli di visività iconica, che la donna
eroticamente nasconde. Momenti di attrazione fatale della pittura stessa, che
rivelano il corpo a corpo tra densità ed espansione del segno.
Le immagini sono tutte tagliate sul doppio organismo della versatilità
pittorica. Alcuni dettagli che con colori forti e penetranti mettono in risalto
dei particolari suadenti di un’anatomia iperstimolata, sono caoticamente
rivestiti da una pennellata Cobra che completa il resto della figura. Da qui in
poi appare una donna, che in alcuni dettagli è ben visibile e al limite della
guaina fotografica ed in altri è vissuta da una pittura gestuale, rivestita
dalle materiche e concrete manate dell’artista, che con questo suo tentativo di
corpo a corpo, documenta il desiderio di sessualizzare, possedere fisicamente
la pittura. Da questa doppia visione viene quindi fuori che se i dettagli
percettivamente giocano nell’immagine la strategia dell’assenza, se la versione
fotografica svaga la dimensione micromediale della riproduzione e della
concettualità, l’azione gestuale della vestizione, col suo caos, con la sua
agitata performance segnica: sbuccia, stempera, sovrappone, dilata,
smarginalizza l’immagine, rendendola incodificabile e alterata nella seduzione.
Quindi, la donna è lì con le sue spoglie colorate, androgina, venerea quanto la
pittura, con i suoi inviti ambigui, con le sue espressioni compiaciute, con le
sue eccitazioni provocanti, che legittimano la paranoia dell’edonismo maschile.
Essa forse è aliena a se stessa e didascalicamente sfuggente alla sua
condizione, per non essere nell’oggetto, per essere lontana dalle voglie di chi
la fa apparire inerte alla passerella, a cui il mondo dello spettacolo vuole
piegarla. Ecco perché le immagini restano immagini.
I visi e i corpi delle ragazze sono l’incarnazione stessa della pittura
figurata e medialmente metamorfica, dove il fascino e la seduzione si fa spazio
attraverso altro charme ed altro sex-appeal. Nardi, contro l’idiosincrasia
mediale della telecronaca dei drammi dell’umanità, ci mette di fronte ad una
provocazione, la stessa istigazione che abbiamo ritrovato nell’apocalisse dei
sensi di Houellebecq ne “Le Particelle Elementari” (trasposto anche sul grande
schermo). La pittura è nuda perché le ragazze sono nude ed avvenenti e tutto
ciò, anche se potrebbe provocare un certo sospetto di percezione filomacista, a
me non sembra che abbia niente a che fare con la dialettica ambigua del “potere
o della desacralizzazione del potere delle donne”. Rispetto ai quadri
precedenti, sembra che Nardi abbia un po’ abbandonato il retaggio ribelle e la
denuncia dei drammi sociali, per dedicarsi ai bei nudi della pittura. La verità
è che la donna, fuori dai suoi poteri, così come nel film The Libertine con
Jonny Deep e John Malkovich, viene indicata come qualcosa di più di un’immagine
scomposta. Essa è il corpo della pittura, è quell’alchimia operativa per
l’estensione del desiderio, è un colore per la riproduzione della gioia di
vivere che nasce dall’appagamento e dal desiderio della pittura stessa. La
seduzione pittorica di questa donna stimola il nostro occhio ad un nomadismo
erotico, che vuole essere vissuto senza colpa, ma come chiave per liberare la
nostra condizione umana di ateologi del godimento. L’uso plurale, eccitato ed
entusiasta del colore indica una sorta di neo-libertinismo ateo ed una giusta
esaltazione edonistica. Vale la pena discendere nel Trattato del corpo amoroso
di Michel Onfray che in Europa è ormai di grande successo, per scardinare
l’eccitazione della pittura di Nardi, più che seguire l’euforia dell’icona in
sé. Qui non è il contenuto, ovvero il corpo stesso della donna che riflette lo
stato di eccitazione, ma è il fare pittorico stesso che nel suo processo, nella
sua esecuzione, si dis-vela, dis/vela il suo abile criterio psicoanalitico. La
pittura non è un corpo di donna, ma il corpo della pittura. Essa non è la mano
della donna, pur bella, avvenente e fatale, che Nardi compone e scompone sulla
superficie, giocando sulle differenze tra il dettaglio vezzoso e la massa
ancestrale e psico-pittorica post-Cobra che la ri-veste dopo averla denudata,
ma è il segno efficace dell’eros stesso, del pigmento nelle sue differenze di
stesura, nelle sue declinate competenze, nei suoi tratti che si giocano tra l’algido
e il denudato e il valente rivestito.
Se il corpo tende al godimento anche chi esegue la pittura prova piacere a
godere, immergendosi negli impasti e nei riverberi del colore per sconfiggere
la minaccia satanica e proibizionista di quegli avvenimenti che negano il
piacere dell’organismo, della quantità di materia che rigenera l’afflusso
adrenalinico del nostro sangue, della nostra indole impulsiva, del nostro
tessuto liquido che dal corpo tende a comporre l’immagine della Pittura-Donna.
Dunque se la “pittura è nuda”, è perché c’è ancora qualcuno che ha voglia di
farci l’amore e di gioire con essa, insomma di esultare con l’immagine della
sua realizzazione e della sua fluttuante ecologia percettiva. Se la pittura
dopo l’esperienza digitale si è spogliata della sua artificialità, è perché il
corpo del suo essere donna ha raggiunto un’altra nudità androgina, un’altra
vestizione al limite tra il finto e il finto vero. Qui, in chiosa finale, vale
la pena ricordare uno scritto forte di Roland Barthes del 1973, Le plaisir du
texte che sottolineava lo spirito di godimento del fare. Barthes ci serbava
memoria del fatto che “bisogna affermare il godimento del testo contro
qualsiasi appiattimento”, ora è come se Nardi nella ricerca della nudità della
pittura dicesse altrettanto. Cambiando le parole di Barthes potremmo dire la
pittura è “una forma umana, è una figura, è un anagramma del corpo… […] è
evidente che il piacere è scandaloso. Non perché è immorale ma perché è
atopico”11."
1 Risultato di un processo di astrazione; il concetto è ciò che Aristotele
attribuisce a Socrate: la corretta definizione di una cosa che si sottrae alle
opinioni ed alla variabilità delle esperienze, quindi il concetto è, secondo
Ch. S. Peirce, ciò che si trasferisce nel significato e quindi nell’ambito
della semantica.
2 Aristotele, Categorie, in Opere, Laterza Bari, 1973, vol. I, 9 b, 27-34.
3 In Catalogo del Ciclo Espositivo nell’ex Chiesetta di Sant’Anna, Nardi, ed.
Gall. D’Arte Moderna e Cont. Repubblica di San Marino , 2005, p. 9.
4 Antonin Artaud, Van Gogh. Il suicidato della società, a cura di Paule
Thévenin (1974), tr. it. di Jean-Paul Manganaro, Adelphi Milano, III ed. 1996,
p.111. Per quanto riguarda un commento generale al rapporto Van Gogh Artaud mi
permetto di rimandare al mio Pour Artaud. Neuralità e delirio nell’arcipelago
dell’introspezione, Edizioni dell’Ortica, Bologna 1997.
5 Gruppo di pittori e scrittori attivo in Belgio, Danimarca e Paesi Bassi dal
1948 al 1951. Il nome è un acronimo delle tre città in cui il gruppo operò
(Copenaghen, Bruxelles e Amsterdam). Fondatori del movimento furono gli
scrittori belgi Christian Dotremont e Joseph Noiret, insieme ai pittori
olandesi Karel Appel, Constant e Corneille, che avevano fatto parte del Gruppo
Sperimentale, fondato ad Amsterdam qualche mese prima, e il pittore danese
Asger Jorn. In seguito vi aderirono molti altri artisti, tra i quali Pierre
Alechinsky. Nello spirito di un'arte collettiva, i confini tra la parola
scritta e la pittura spontanea erano tutt'altro che rigidi: scrittori come
Dotremont e Lucebert dipingevano, pittori come Corneille e Constant scrivevano.
Il risultato fu una notevole sinergia di immagine e parola.
6 David Hockey: Painting Printings. Printis and
drawing 1960-1970, catalogo della mostra Whitechapel Art Gallery, London, 1970,
pp.11-12.
7 La société de consommation. Ses mythes ses structures, Gallimard, Paris 1974.
8
Op. cit., idem p. 9.
9 Il brano del mio scritto che qui cito è riportato nella rubrica Osservatorio
Critico, col titolo Natechrealism. Tra tecnologia, fusi orari e
miniaturizzazioni, in Segno. Periodico internazionale di arte contemporanea,
edizioni Fondazione Segno e Sala editori associati, Pescara, 2006, p. 94.
10Sull’ossimoro della pittura mediale si veda il mio testo Nascosto dietro gli
“umiliati e gli offesi”, un’introduzione inserita nella monografia Antonello
Matarazzo, opere 1995/2005, editore Publisher, 2005.
11 Roland Barthes, Il piacere del testo, tr. it. di Lidia Lonzi, Einaudi,
Torino, IV edizione, 1980, p. 22.
ADRIANO NARDI, ”Pittura nuda”, testo dell'artista in catalogo della personale
"Pittura nuda", edizione Studio d'Arte Fedele, Monopoli (Bari),
Giugno 2006
"C'è qualcosa che non si vuole dire, c'è qualcosa nei corpi e nelle
geometrie che non si vuole dire, per dirle bisogna vederle, per vederle bisogna
desecrarle.
Barocco come concetto-scudo, bozzolo, indescrivibile? E se la realtà fosse solo
Barocca? Se l'estetica fosse solo Barocca? Barocco, baroccume, eccesso,
stravaganza, bizzarria, di cattivo gusto! Ancora nel dizionario troviamo che il
termine deriva da un incrocio del termine della scolastica “Baroco” - dicesi
tra parentesi "schema mnemonico di un tipo di sillogismo"- con il
francese “Baroque” a sua volta derivazione del portoghese “Barroco” (Perla
irregolare). La perla irregolare, è naturale, va aperta. Se il mondo fosse solo
Barocco, e pare che lo sia, cosa c'è oltre?
IL SOTTOSISTEMA, IL CAOS, LA SUA FORMA REGOLARE deve sfuggire via dal blocco
della definizione, al suo interno troveremo le mille risposte.
Non cerchiamo un sottoinsieme ma la sua verità, la sobrietà del Barocco, il
ruvido tenue, il colore di uno strappo francescano.
________________
Cos'è la micropittura? “dovresti spiegarlo” mi suggeriva Gabriele Perretta. Non
ho voluto farlo nella forma che avrei pensato potesse o potessimo intendere in
quel momento1 per lasciare aperta e penetrabile proprio la scala dimensionale.
Ora voglio dire qualcosa, riguardo la micropittura. Voglio spiegare in che modo
ho sempre guardato la “pittura” nei musei e nei quadri di tanti da vicino, per
capire, al di là della scienza del dipingere, di ogni scuola o mestiere o
maniera o genialità, cosa succedesse nella materia, nella natura. Cosa fosse
possibile intuire o vedere nella libertà riflessiva (cioè della luce riflettente)
in quel suo correre, librarsi, cadere e alzarsi, elevarsi e sprofondare, ma
soprattutto cosa fosse quella possibilità spaziale.
Cioè cosa può rappresentare, poeticamente, una luce descritta, in mimesi,
rappresentata, nel momento in cui la vedo solo nella sua epifania endogena.
Nella sua concretezza reale e totale. L'architettura di entrambe queste
componenti assieme, crea un varco per la terapia della percezione. E'
terapeutica per la percezione.
La percezione necessita di una lunga terapia; in questo senso ritengo ecologico
il fare pittura, e naturali i suoi strumenti con cui riflettere e capire
l'ambiente che ci circonda e in cui viviamo.
Microdipingere forse vuol dire fare una faccia, un paesaggio in una piccola
parte del viso ma anche pensare che proprio di lì, sopra quella densità oleosa
del colore, transiterà una piccola entità di vita, magari un piccolo insetto.
Non ci siamo, ancora. Vuol dire camminare ma essere scomparso, troppo piccolo
per essere visto, da lassù.
Vuol dire avere intorno una luce che riflette insieme a te un unico colore,
cioè riflettere insieme e chissà quale colore. Io non so quale colore sia ma
voglio che sia un colore naturale e rivoluzionario.
(28 ottobre 2004)
A "Match"2 durante il confronto-dibattito alla galleria Russo, i
pittori presentati da Marco Tonelli (in particolare Nicola Bragantini, con cui
ho successivamente stretto amicizia), hanno insinuato che la mia pittura come
le altre del nostro gruppo, presentato da Lorenzo Canova, ‘non ha spessore’. Il
confronto si è acceso (per fortuna, visto le chiare differenze tra i gruppi,
all'inizio era un po' troppo pacifico). Partendo dal presupposto che io abbia
usato immagini "New global" dal 30 novembre del 1999 - più giusto che
"No global", termine con cui mi ha prontamente sostenuto Canova - per
riferirmi al nuovo movimento di pensiero mondiale che ha rimesso al centro
l'uomo ma anche la natura, ho detto che "dipingo anche per le
formiche". Mi è uscita così. E mi è uscita anche la parola "micronizzata"
riferendomi alla pittura, perché invitavo a vederla appunto da una posizione
molto ravvicinata.
Bragantini ha parlato di "palestra" allo studio, di limite mai certo,
è convinto che partendo da un progetto, il lavoro sia in un certo modo…
prevedibile. Mon Dieux, io solo posso ben sapere quanto la mia pittura richieda
costanza di concentrazione e impegno fisico, e quanto non vi sia certezza nel
dipingere zona per zona; queste sono ideate prima ma aperte - e le aprirò
sempre più - al confronto luminoso con le altre, al movimento interno della
massa concreta del colore ad olio che mi lascia sempre la libertà e la solidità
della ricerca del limite.
Ogni esperienza del passato e ogni dato teorico o filosofico, ogni concezione
del momento storico, tendono a convergere al centro del'opera. Nella sua idea
viva, mai morta, della Pittura. L'ideale - il colore - che trita concettualità,
oggettualità, figurazione, astrazione, descrittività e descrizione, gesto
informale e pittura "mossa fresca", non velata, non ripensata, non
ricoperta o abbassata. Sempre invece una eccitazione retinica per la
riflessione della visione.
Ho detto: per una NUOVA VISIONE.
L'opera in mostra - "Sine Direction", o anche detta "Il seno
selvaggio"3 - era tecnicamente doppia tra digitale e pittura e questo ha
portato un certo scompiglio, essendo loro “pittori e basta”, arrivando a farli
affermare in modo totalitario l’avversione nei confronti della tecnologia: io
l'ho portata in palestra con me, senza negarla a priori.
(18 dicembre 2004)
... La natura è sì spietata, come noi lo siamo verso scale inferiori e diverse,
esterne alla nostra coscienza.
Esiste un mondo che non ci appartiene, quello che facilmente allontaniamo con
un passo o con un movimento del corpo, e quello che ci ignora perché piccoli, senza
peso e misura del corpo differente, che crea un'asola invisibile ma molto
efficacemente collegata, connessa e attiva, fautrice di trasformazione
microstrutturale...
(28 dicembre 2004)
Un'opera concettuale può avere uno stile?
Esiste una figurazione concettuale?
Esiste un'opera concettuale figurata?
Quale visione, quale stile rappresentativo porta quest'opera concettuale?
Che cosa vuole figurare?
Che razza di oggetto naturale è, questo tipo di opera concettuale?
________________
Nei quadri dalla prospettiva bidimensionale o dalla struttura geometrica a
scalante4 come gli “Hurricanes” o “Pittura libera”, la anomalia apparente,
transgenica, tra pittura manuale e riproduzione tecnologica, restituisce il
fascino del potenziale microstrutturale nel refuso fenomenico del linguaggio.
L'immagine scompare sotto i colpi della propria oggettualità; viviamo la gioia
di un contatto ravvicinato con la dissolvenza culturale nella entità naturale
della forma.
Lo psicologismo, qui, muore nella materia.
(2 giugno 2005)
Kasimir Malevitch, uscendo dalla problematica della figurazione (“no al
paesaggio, no alla natura”) afferma il proprio essere, nella scelta radicale,
oltre, nell'eccesso oggettuale, bidimensionale, geometrico.
Da qui, ecco la nuova coscienza dell'individuo libero, e liberato.
Concepisce successivamente un nuovo ritratto 'rinascimentale', in quanto è la
coscienza del mondo ad essere nello spazio; vede e rappresenta un uomo nuovo
che si ammanta di geometria e di colore.
Ma cos'è il colore di un corpo?
Quale luce vediamo riflessa?
Su cosa riflette?
Su quali strutture, dell'oggetto e del cosmo?
Malevitch cambia le date dei quadri in quanto sa bene che il nostro tempo è un
assoluto relativo. Ciò che appare ai suoi occhi continua un discorso nel futuro
precedente al proprio presente. Vede con la ricerca, l'altra via possibile e
alternativa, in una geometria non lineare, intuita sul corpo, nello spazio )(
inverso )( al prospettico.
Malevitch muore, e rimane corpo ammantato nella geometria della sua bara.
oltre
(13 giugno 2005)
Appunti per la percezione della pittura o della pittura come percezione.
Se dipingiamo su una immagine proiettata, interpretiamo la luce "punto per
punto".
Sul piano inteso sia come superfice che come pelle figurata.
Lambendo o incidendo sulla parte esterna del corpo proiettato, delle sue masse,
la luce crea quel tono, quel grado di luminosità: sia graduando il cromatismo
con l'uso del bianco - nella cui gamma come è noto sono presenti tutti i colori
dell'iride - che con l'uso di un modulato spessore d'olio, in cui le
trasparenze della luce diventano pelle, membrana.
Questa visione doppiamente ravvicinata, del corpo della pittura e del corpo
rappresentato, del concreto superficiale della materia e della sua virtualità
luministica nella visione dello spazio in senso prospettico classico,
definiscono il concetto spaziale di micropittura, intesa infine come percezione
- in senso ecologista - delle cose e delle sostanze, mano a mano che le
avviciniamo, per quasi attraversarle.
Non parliamo, allora, né di rappresentazione né di figurazione quanto semmai di
pittura figurata: oltre l'accademia e oltre l'oggettualità.
_______________
Ieri la Kodak ha decretato la fine del bianco e nero fotografico: usciranno di
produzione le tecnologie che per buona parte dell’ottocento e per tutto il
novecento hanno prodotto un medium (per la riproduzione di immagini) che ha
contribuito a trasformare la nostra percezione in un determinato momento
storico.
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Tentativo di fare un quadro blu con l'arancio
(16 giugno 2005)
La critica attiva che solitamente promuove l’ottocentesca retorica della
profusione oggettuale, nel momento in cui si avvicina alla pittura,
coerentemente sceglie e promuove quella aggrappata alla mimesi del reale nel
senso più letterario, cioè quella pittura che descrivendo il reale, qualsiasi
sia l’istanza che ne promuove le immagini, ancora una volta promuove la
distanza dallo stesso, definendo ancora l’arte come fenomeno culturale
extra-ambientale. Così si alimenta in modo inconsapevole, l’idea
dell’arretratezza della tecnica pittorica, effettivamente antica, ma non
superata. Quasi introvabili - ma si possono forse timidamente delineare - sono
invece quelle realtà critiche che comprendono la natura contemporanea della
Pittura, la quale non sopravvive quando si assoggetta al tema tradizionalmente
realistico della figura, e invece vive quando è al suo grado più avanzato di
natura post-oggettuale. Lungi dal volere riesumare la stravecchia querelle tra
figurazione ed astrazione, voglio invece affermare il mio leggero impegno alla
ricerca della naturale libera convivenza di entrambe. Nella speranza appunto di
causare, come piccola goccia attiva nel mare della complessità ambientale, la
minor quantità di danni possibili.
(25 giugno 2005)
Il punto di partenza potrebbe essere la visione concreta di Cezanne: dove il
dadaista Duchamp chiude nel picco tridimensionale.
Mi piace pensare che ora sia la pelle - il parametro di non esagerazione - senza
di cui si deborda nel possibile reale, quantico, come oggi lo conosciamo.
La narrazione, insita in un oggetto reale come nella sua rappresentazione, è
eccessiva come la nostra scala tridimensionale.
Cercate di vederla, questa figura geometrica eccessiva della letteralità! Si
trova anch'essa tra il piano e l'immagine, ma ne distorce il disegno.
Quel disegno diventa perfetto quando lo lasciamo entro quella misura che vado a
spiegare, tra il segno e la chimica.
Lo spazio di una nuova figura geometrica è nella atmosfera micro: ad esempio
come materia-montagna su una superficie-pianura.
La struttura riflette la luce che avviene anche in questa figura.
Ecco dove si narra bene: in quello stare o essere giù, o dentro, dove la luce
costruisce un nuovo ambiente.
_________________
Alcuni punti:
- Il colore puro riflettente5 (nel testo della personale “As straight as”6 l'ho
individuato definendolo come monocromatico)
- La densità macchinica7 riflettente (l'olio permette uno stravolgimento
cromatico sul piano)
- Il segno - aria - battente
- Il disegno riflesso
- Il piano natura del lino
- La luce descritta del piano
- La descrizione del vuoto pieno del percorso (meta? spirituale? scientifico?
esoterico? vertiginoso!)
- Dalla estetica cubista alla coscienza geometrica frattale
Nell'opera “Videofiliazione” del 1996 - esposta nella mia prima personale nel
1998 all’Università “La Sapienza” di Roma8 - nella scalante che si interrompe,
da una parte si innesta il museo e il suo spazio, dall'altra i contenuti
cromatici e sinteticamente narranti il diversamente micro-strutturato
dell'immagine pittorica. Se avessi potuto continuare nell’ideale riduzione a
scalante di una piramide tronca aperta sul piano, questa serie di figure
connesse - costituita da una unica tela geometricamente ritagliata e articolata
come una ramificazione frattale - sarebbe arrivata ad essere più piccola del
colore inteso come segno, pennellata, corpo, particella.
Nel ciclo attuale di ricerca “Sine direction” è l’opera in cui vi è la svolta
geometricamente descritta, in cui il linguaggio ha preso una via di chiarezza
differente.
(28 giugno 2005)
Ieri ho visto la "Guerra dei mondi" di Steven Spielberg. Una dinamica
particolare è resa benissimo nel dramma invisibile che l'uomo crea in natura, e
in quello visibile nella guerra tra i mondi. Risulta evidente l'idea della
scala dimensionale biologica, come spazio da comprendere, per una sopravvivenza
nel naturale. La salvezza, pare si affermi anche qui, è nell' "òntos
mikròs"9.
(30 giugno 2005)
Il colore appartiene ed è dato dalla presenza, o meglio immanenza, della luce.
Il mondo si compone in un ordine visivo casuale e naturale, in cui il
fenomenico della biologia, della chimica delle sostanze e dei corpi, si attua
dinamicamente in un fluido rapporto con la luce. La luce ne promuove ed
energizza le trasformazioni.
E' chiaro, non affermo niente di nuovo. La novità va cercata non nella certezza
della fotodinamica come tale, ma nella consapevolezza di una ulteriore sua
potenzialità estetica e simbolica. La figura immaginaria che possiamo percepire
è il vero nuovo che si attua quindi nell'immanente fenomenico.
Se dovessi pensare e realizzare, ora, delle “Microdipinta”10, scieglierei di
avvicinarmi ancora di più all'idea di questa parola, in cui lo sguardo
femminile scelto per essere intriso di una leggera materia pittorica, dimostri
prospetticamente l'assestamento del piano della pelle del viso a quello del
piano della carta. In questo asse coincidente dei due piani, l'olio della
pittura penetra lentamente nella porosità della carta già imbibita dai
micropunti di stampa tipografica. Ho scelto di operare la mappatura digitale
fotografica punto per punto con l'uso dello scanner non appena il materiale
pittorico è stato intriso sulla carta. L'olio fresco viene così fotografato
mentre penetra nella cellulosa. Nel minuto di tempo in cui avviene la
mappatura, stiamo registrando un brevissimo tratto del nostro tempo relativo.
Il micro-fenomeno fisico dell'assorbenza tra sostanze, l'assestamento tra le molecole,
definisce una temporalità differente, proporzionata a quella dimensione
infinitesimale che spesso sottovalutiamo e allontaniamo dalla nostra
consapevolezza esistenziale.
Tornando anche alla figura immaginaria della Micropittura, posso ora definire
come affrontare la pittura ad olio su tela nella consapevolezza della
fotodinamica dei fenomeni naturali, o come meglio generare una immagine in
quello stesso asse di coincidenza di piani. Percezione generante quindi un
oggetto - il quadro - nel cui asse perpendicolare al piano della visione
frontale si attui una compresenza estetica e oggettiva, punto per punto.
L'icasticità della mimesi al grado intellettivo in cui al grado concreto si
formi quello strato ideale: la membrana oggettuale della pittura che sà di
essere chimica, molecolare, micronizzata.
Ecco che il soggetto femminile simbolico della pittura è consapevole di
mostrarsi e di descrivere le proprie sostanze. E' cosciente11, la Pittura, di
farsi icone di una compresenza estetica di dimensioni differenti e volutamente,
per zone, differenziate. Nel realizzarsi punto per punto, è bello mostrare, per
far comprendere, una compresenza.
Su quella membrana assolutamente piatta e bidimensionale del lino preparato (ma
se ci avviciniamo ne notiamo anche la trasparenza organica infinitesimale)
l'olio si adagia ed attua una lentissima penetrazione; nel tempo si attuerà la
graduale essicazione. Ecco quindi la visione che chiamiamo concreta di una
pennellata, di un grumo di colore, che possiamo definire così per la sua
dimensione, per la scala definibile al suo grado simbolico oggettuale. Ma ecco,
vicino, a lato o sovrapposto, compresente, appunto un grado di visione icastica
differente, in cui nella uguale porzione della stessa scala si passa dalla
visione oggettuale a quella della mimesi. La materia pittorica viene cioè, in
quell'uguale centimentro, non solo compositivamente ed esteticamente poggiata
con un gesto, con le setole di un unico pennello o dito. Viene trattata in un
grado di visione inferiore - nella scalante - in cui si attuano scale minori di
pennellate, segni, trasparenze, cercando il massimo, quasi ammaliante, della
seduzione figurativa.
(10 luglio 2005)
Un divario minimo in una diversa globalizzazione.
La micropittura come educativa pratica della percezione e ginnastica della
vista.
Se dipingiamo costruendo un corpo la pennellata è alla nostra vista, su quella
scala, una pennellata mimetico costruttiva; se ci avviciniamo a guardare ad
esempio l’immagine di un dito in una sua piega articolare, la pennellata si
divide in una scala inferiore in masse tonali che iniziano a descriversi come
tessuti, comportando una visione di tensioni e forze interdipendenti, che
formano infine una massa di carne, muscolo, luce come densità e trasparenza.
Da qui frazioniamo ancora la pennellata, tagliando anche i peli del nostro
pennello n. 0, e con questo strumento di scala minore muoviamo la micromateria
dell'olio o del pigmento, cercando dentro quei tessuti che sopra abbiamo
descritto, delle chimiche strutturali che abbiano rapporti qualitativi simili
alla pelle di ogni tessuto naturale.
Le complementarietà energetiche interne alla materia stessa della pittura che
riflette il colore di determinate onde luminose, si avvicinano - in questa
scala proporzionale - e vi si sovrappongono, a quelle della superficie membrana
molecolare di ogni corpo o materia fisica.
Questa apparente deviazione extra-linguistica focalizza l'oggetto della
creatività dal punto di vista della sua peculiarità oggettiva, quasi come se
fosse un organismo concreto da intuire e costruire con l'aiuto di un
microscopio da laboratorio. Si vuole quindi spostare sul fare stesso
dell'artista, quell'ideale di organicità dell'opera e dell'operare.
In questo arco percettivo che percorre una linea verso l'interno, dall'icastico
alla verità, piuttosto che dal virtuale al reale, si intuisce e si trova
quell'equilibrio che un'apparenza letteraria del racconto nel quadro, sembra
visionariamente aberrare. In questo senso o in questa dimensione fisica - vicina
al concetto di scalante nella teoria dei frattali - si dipana e si fonda il
valore estetico di una volontà diversa: del fare in ambito artistico, e in
tutto il suo sedimentato storico-culturale, e dell'essere nell'ambiente, in cui
si cerca una propedeutica dell'agire proprio attraverso la Pittura.
Durante il mio percorso scolastico di studio e di confronto attraverso
l'esperienza pratica, al liceo artistico e all'accademia di belle arti, i
momenti di cui ricordo un relativo dissenso con i professori sono pochi,
chiari, significativi. A ben pensarli tutti, in un modo o nell'altro
rappresentano il procedere, nell'esperienza della ricerca personale con gli
strumenti del fare, verso uno spostamento dell'asse di percezione che
dall'assoluto della pittura come aulica ed aristocratica idea astratta della
forma culturale, verteva percettivamente all'oggetto della forma stessa
attraverso una estetica del disprezzo che evidenziasse una volgarizzazione
concreta o una estetica dell'amore, che ne fondasse l'ideale antiutilitaristico.
Questo apparente deragliamento nella produzione di uno studente così educato,
compositivamente e scolasticamente talentato, andava corretto convergendolo
all'asse dei binari paralleli. Nel frattempo, però, ho ricordato e oggi so che
stavo lavorando alle traverse.
(10 Luglio 2005)
Nuove microdipinte.
Perché questo titolo fa riferimento al nuovo? Perché il concetto di avanguardia
è meta-motore interno, secondo una concettualità dell'opera figurata a
scalante.
Come nei "Manifesti" in cui la figura o soggetto avanguardista è vivo
nel quadro, secondo una posizione a scalante dove la realtà dell'artista è il
grado/livello maggiore di quella figura. Troveremo il suo grado minore
procedendo verso l'interno della materia, in senso oggettuale - ma anche
figurato - verso la sua essenza visiva.
(26 luglio 2005)
NOTE
1 In occasione della pubblicazione del “Manifesto di Basmina/Minimal
Divide Manifesto” nel 2003.
2 Mostra collettiva e dibattito pubblico, "Match 2004, Critici
a confronto", Galleria Russo, Roma, Dicembre 2004.
3 Opera pubblicata nel catalogo della personale "As straight
as" (Galleria Maniero, Roma, 2004), nel libro di Gabriele Perretta,
"Media.comm(unity)/Comm.medium", ed.Mimesis, Milano, 2004, p.99., e
infine anche nel catalogo della stessa collettiva “Match”.
4 Per un piacevolissimo approfondimento di questo termine: Benoit B.
Mandelbrot, "La geometria della natura", ed. Theoria, 1989.
5 Il colore puro riflettente, che nel testo della mostra “Olio su
tela” ho definito come "tecnologico... che tende allo staccato, al
purificato" è presente, in questi nuovi quadri, nelle parti
dell'espressione del viso, nel corpo sezionato dalla linea che cerca il proprio
senso e la propria bellezza significante. Questo colore è quello che ho cercato
di definire partendo dall'analisi dell'RGB (red, green, blue), la sintesi del
colore adottata negli schermi televisivi. Questa sintesi catodica è chiamata
‘additiva’ o ‘della luce’, a differenza della sintesi quadricromatica della
stampa che conosciamo come BMCY (black, magenta, cyan, yellow) che è definita
come ‘sottrattiva’ o ‘dei pigmenti’. Il colore di un corpo (come lo vediamo) è
l'insieme della lunghezza d'onda che esso non assorbe e quindi riflette alla
nostra retina: nel pigmento a corpo bianco infatti nessuna lunghezza d'onda
viene assorbita, mentre nel pigmento a corpo nero non vi è riflessione perché
l'assorbenza è totale, o quasi. E' d'obbligo a questo punto ricordare il
primato scientifico newtoniano, secondo cui la natura della luce bianca è scomponibile
in colori, secondo il principio della rifrazione. Dato questo principio di base
il colore è nella luce e non nelle cose. Specularmente possiamo dire che il
bianco non è acromatico (diz: privo di aberrazione cromatica; enc: dicesi di
sistema ottico che non rivela i colori dell'iride; vedi per esempio l’uso del
termine "achrome" in Piero Manzoni) bensì pancromatico. Che lo stesso
non sottindende un principio di sottrazione ma di addizione, appunto. Adottando
nella pittura ad olio la sintesi RGB, stemperando i colori del corpo, degli
incarnati - con il bianco - ho promosso il princio di addizione di luce...
6 Nel testo pubblicato nel pieghevole della mostra personale “As
straight as”, alla base del concetto di scala dimensionale della materia nell’ambiente
si delinea anche un punto di vista spirituale. Nel testo della mostra “Olio su
tela” lo stesso concetto - assimilato a un'idea sociologica dell'ambiente - è
stato rievocato infine nella ritualità - appunto rito ambientale - del culto
matriarcale della "Potnia", antica sovranità mediterranea. Il colore
è stato qui inteso anche come "staccato, tecnologico", secondo una
lettura appunto idealizzata o idealizzante. Lo stiamo ora invece analizzando
sotto l'aspetto oggettivo, di materia riflettente.
7 Per macchinico intendo la strutturale complessità diversificante
che un medium materico non cromatico come ad esempio l'olio, può creare
internamente alla stessa riflessione cromatica pura, ampliando la gamma di
riflessione dei colori. Bisogna però capire questo fenomeno al livello
molecolare in quanto nella meccanica in scala superiore, nella pratica
pittorica, lo possiamo solo intuire o cercarne visivamente la resa mentre
lavoriamo la materia. Alla riflessione di un'onda luminosa - che non è stata
cioè assorbita dalla struttura molecolare del pigmento - si aggiungono quindi
strutture macchiniche che rendono più complessa, per non dire complicata - e
l'idea di colore puro riflettente è qui ora intricata ad una idea che parrebbe
avvicinarsi ad esempio a quella del colore come “essenza sostanziale” o
“materia originaria” nell’opera di Beuys - la dinamica riflettente dello stesso
colore alla nostra sensazione ottica variabile. I giochi dei piani intricati
della rifrazione, diversificano la qualità della riflessione cromatica di una
stessa molecola di pigmento, aumentandone la qualità di mimesi al livello
micro. La sensazione visiva si avvicina così alla complessa naturalità della
biochimica.
8 Si può vedere la documentazione fotografica nel catalogo: “Adriano
Nardi”, edizione del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università
degli Studi di Roma “La Sapienza”, con testo di Stefano Colonna “Antipop,
comunicazione individuale nella società di massa”. La personale si è tenuta dal
12 Novembre 1998 al 3 Dicembre 1998, durante la direzione di Maurizio Calvesi.
9 Ho ideato e inserito questa locuzione nel “Manifesto di Basmina”.
10 La personale dal titolo "Microdipinta" è del 2002, “I
Microdipinta, Butterfly” del 2001, è la prima opera del ciclo così denominato. Sono
stampe fotografiche al laser in cui l’azione pittorica, avviene solo nella fase
precedente alla stampa. Nel comunicato della mostra ritroviamo: “E’ ancora la
Pittura ad affermare la propria visione. Abita quel più piccolo ambiente,
microdipinta tra la pelle retinata dal rotocalco, la porosità della carta e la
densità del segno. Un’immagine costituita a livelli, vettoriale, oppure
organica? Ancora, quel fiducioso sguardo ecologico sul mondo.”
11 L'idea che l’io della pittura possa essere staccato dalle
intenzioni dell’artefice, potrebbe anche essere sviluppata a partire dalla
teoria della “non-non-forma” nella pittura informale.
Opere pubblicate: Pittura nuda (5 opere, 2006), Pittura nuda nel paesaggio (4
opere, 2006), Paesaggio nudo (2006).
LORENZO CANOVA, "Ieri oggi domani", catalogo della collettiva che
inaugura la nuova sede della Galleria Giulia a Roma, dicembre 2005-gennaio 2006
" … appare un titolo quasi simbolico per la mostra con cui la Galleria
Giulia inaugura la sua nuova sede, tre parole che rappresentano
emblematicamente l'atteggiamento che ha sempre segnato la sua lunga attività e
la molteplicità dei suoi interessi, diretti a coniugare il rigore delle
proposte "storiche" alla freschezza delle esperienze più innovative …
…le indagini ottiche di Lyonel Feininger, con le sue velature di matematica
sottigliezza, con la sua poetica geometria della natura che trova in qualche
modo una prosecuzione nelle scomposizioni sospese tra pittura e digitale di
Adriano Nardi…"
Opera pubblicata: II Microdipinta (2001).
A.A.V.V., "Blog on Rimbaud", catalogo pubblicato in occasione della
mostra-evento (19-20-21-22 Maggio 2005) dedicata al poeta francese, e dell'
Asta per beneficenza "SCUOLA IN AFRICA".
In collaborazione con: ACCADEMIA DI BRERA, FONDAZIONE CECCHINI PACE, FONDAZIONE
BUTTERFLY ONLUS - ECOLES SANS FRONTIERES.
Ideazione e progetto di Zazà Associazione Culturale, a cura di Carlo Fatigoni e
Matteo Licitra. Villa Ogliani, Serre, Teatro, Castello di Rivara, Centro d'Arte
Contemporanea, tutti nel Comune di Rivara, con il patrocinio della Federazione
Italiana dei Club e Centri Unesco.
"L'obiettivo finale di questo nostro progetto di promozione culturale
prevede un'iniziativa umanitaria: quella cioè di fondare una scuola d'arte nel
Corno d'Africa, luogo dove Arthur Rimbaud visse una stagione cruciale della sua
tormentata esistenza. Per questo motivo tutti gli artisti partecipanti
all'evento contribuiranno all'esposizione-azione donando almeno un lavoro
d'arte, che sarà messo all'asta: il ricavato sarà utilizzato per la
realizzazione della scuola in Africa. Questa mostra evento è prodotto
dall'Associazione Culturale Zazà tramite contributi volontari degli associati e
con l'apporto determinante degli artisti partecipanti.
I membri della Commissione Tecnico - Scientifica sono i seguenti:
Prof Arch Manolo de Giorgi, Docente di Architettura d'Interni al Politecnico di
Milano
Prof Gabriele Perretta, Docente di Storia e Teoria della Critica ed Estetica
Tecnologica, Paris IV e Brera 2 Milano
Prof. Daniele Goldoni, Docente di Estetica Università Cà Foscari, Venezia
Dott. Ing. Paolo Romano, Docente di Economia e Organizzazione Aziendale,
Dipartimento di Ingegneria Gestiona e del Politecnico di Milano
Prof. Paolo Inghilleri di Villadauro, Ordinario di Psicologia
Sociale,dipartimento di Psicologia e Antropologia Culturale dell'Università di
Verona
Dott. Arch. Matteo Licitra, Presidente Associazione Culturale Zazà
Prof. Rolando Bellini, Direttore Museo Arte Plastica, Castiglione Olona e Vice
Preside della Fondazione Università Internazionale del Arte, U.I A Firenze
Prof. Antonio Marazzi, Docente di Antropologia Visuale, Facoltà di Psicologia
dell'Università di Padova
Dott Arch Claudio Maneri, Presidente Fondazione Butterfly Onius - Ecoles Sans
Frontieres
Dionisio Capuano, Critico Musicale
Roberto Mutti, Critico della Fotografia
Prof. Rosalba Terranova Cecchini, Presidentessa della Fondazione Cecchini Pace
di Milano.
Si ringrazia per le donazioni la Sig.ra Lucrezia De Domizio Baronessa Durini e
il Sig. Gianfranco Pampaloni.
" ...sia quando fanno ricorso al simbolismo (i volti proposti da Adriano
Nardi e da …" (dal testo di Roberto Mutti)
Opere pubblicate: Seattle (2000), Voyager (frame dal video del 2001), III
Microdipinta (2002): quest'ultima opera è stata donata per l'asta.
ADRIANO NARDI, ”Olio su tela”, catalogo della personale "Olio su
tela", Ciclo espositivo Ex Chiesetta di S.Anna, Galleria d'Arte Moderna e
Contemporanea della Repubblica di San Marino, maggio 2005
" Vogliamo chiamare una mostra di pittura "olio su tela"? Siamo
davanti a un quadro: questa non è un'immagine — è tela, è materia, è colore.
Ho definito con il termine "micropittura" il lavoro - non letterario
- attento al tessuto della figurazione da una posizione percettiva ravvicinata.
Da questo punto di vista, il ritmo compositivo costruisce ed esprime la propria
forma come prodotto plastico fenomenologico che contiene la propria immagine.
Nella Pittura non descrittiva il colore esprime sé stesso e la seduzione della
mimesi, in questi corre la linea.
Ho definito il grado oggettuale della Pittura sperimentando la stampa digitale.
Si è resa evidente — la concreta realtà — innestando la micropittura dei corpi
in immagini prelevate dal contemporaneo, ispirate a drammi sociali legati alle
istanze ambientali, come in questa grande opera "Mapping Dora" del
2002 (realizzata dopo l'H settembre 2001) che mi pare necessario, ancora oggi,
inserire nel fondo di questa chiesa. Nel ready-made sostanziale della Pittura
la materia permane nella sua immanenza.
Così - in queste tele - come la colla organica, l'olio e il gesso usati per lo
shaping permettono alla luce di descriversi nelle trame del lino - contando
sulla riflessione - il dato tecnologico è assimilato alla luce che non è della
materia ma tende al purificato, allo staccato.
Così - corpo nel mondo - sono queste figure "...celebrate all'aperto, in
seno a quella varia natura, che era l'immenso corpo della Potnia sovrana e
'agite' da tutto il popolo1."
A.N.
1) Uberto Pestalozza, Eterno femminino mediterraneo, 1954.
Opera pubblicata: Zelotalove (2003), + una fotografia d'insieme della mostra.
GABRIELE PERRETTA, ' I mestieri di Ergon', libro-raccolta di saggi critici tra
cui il testo dal titolo “Il tipo ibrido” (già pubblicato nel 2004 nel catalogo
della personale di Adriano Nardi alla Galleria La Giarina di Verona), Mimesis
editore, collana Dogville, Milano 2005
Dal comunicato stampa: " I Mestieri di Érgon è una mostra che raccoglie
diciotto esperienze artistiche internazionali, riunite in un’unica
istallazione. Gli artisti presenti sono: Tullio Brunone, Carlo Caloro,
Cast/G.P.Mutoid, Ezio Cuoghi, Santolo De Luca, Dormice, Fathi Hassan, Enzo
Lisi, Antonello Matarazzo, Luca Matti, Antonella Mazzoni, Renato Meneghetti,
Adriano Nardi, Andrea Neri, Rossella Petronelli, Silvano Tessarollo e Francesco
Totaro. Nel Palazzo M di Latina, tutta la mostra, seguendo una particolare
istallazione, appare come un’unica grande rappresentazione in cui convivono due
anime: una propriamente multimediale, direttamente collegata con l’ambiente
razionalista della struttura architettonica, e l’altra ipermediale, legata ad
immagini che come fondali da palcoscenico inondano lo spazio in maniera
dirompente, sfruttando le grandi misure e le iconografie più aggressive. Questo
lavoro, che Fabric’art di Latina ha voluto inserire nella programmazione curata
per il sessantesimo anniversario dell’Associazione degli Industriali di Latina,
tenta di snodare una piccola frazione, un frammento dell’etimologia delle
parole d’uso critico che hanno costellato, da quindici anni a questa parte,
l’area più ampia del Medialismo. La formulazione del percorso della mostra è
segnata sin dal titolo, esplicitamente mutuato da un celebre passo di
Aristotele; la messa in opera è ciò che scavalca il concetto stesso del lavoro
artistico specialistico, riportandolo all’atto della necessità umana più in
generale. Nell’opera multimediale totale non è l’artista ad essere in azione,
ma è l’uomo come essere sociale a costituirsi “all’opera”: con l’esasperazione
ipermediale, l’uomo perde la specificità artistica e il fare creativo dilaga.
Paradossalmente l’allestimento della mostra diviene un medium ad uso
collettivo, che si fa avanti come la spiegazione dell’ampio concetto di Érgon,
perché in sé ricongiunge le tecniche più sofisticate di multimedialità e la
spinta più dettagliata della cura e dell’attenzione artigianale alla produzione
degli arte-factum. In corrispondenza a questo spirito collettivo
dell’esposizione, questa edizione di Fabric’art offre un volume di Gabriele
Perretta, edito da Mimesis di Milano: I Mestieri di Érgon: visioni, oggetti,
storie della medialità. Esso raccoglie diciotto testi monografici sugli artisti
e le opere in mostra e due saggi introduttivi a carattere generale, legati alla
metamorfosi dei mestieri nell’arte e nella società contemporanea e una premessa
di Vincenzo Parnolfi Presidente Assindustria e Sergio Viceconte Direttore
Assindustria."
Opere pubblicate: Ducotone Valley (2001*), Searching Wanted (2001),
Mouse&Lisa (2001).
*N.d.r: si consideri questa data come errata corrige della data più recente
pubblicata sul libro, come pure la tecnica relativa a questa opera: olio e
plotting (o plotter print) su tela.
LORENZO CANOVA, “Le strade della pittura”, catalogo della collettiva Il fascino
indiscreto della pittura II, presso la Galleria Maniero dal 10 Marzo al 9
Aprile 2005, Roma
“Il fascino indiscreto della pittura II”, comunicato stampa della collettiva Il
fascino indiscreto della pittura II, presso la Galleria Maniero dal 10 Marzo al
9 Aprile 2005, Roma
"La galleria Maniero presenta il secondo appuntamento del doppio evento
espositivo: “Il fascino indiscreto della pittura” dove sono raccolti pittori
appartenenti alle generazioni successive a quella presentata nella mostra precedente.
Come scrive Lorenzo Canova in catalogo “artisti come Ennio Alfani, Alessandra
Di Francesco, Stefania Fabrizi, Tommaso Lisanti, Adriano Nardi, Francesca
Tulli, Marco Verrelli, fondono fotografia, digitale, video e disegno nella loro
pittura, riflettendo sui problemi del presente e delle sue grandi dialettiche,
in lavori dove la pittura indaga dimensioni intime della memoria o problemi
politici, le grandi questioni sociali, urbanistiche ed ecologiche, mostrando
nelle loro opere un cuore “antico” rielaborato in forme del tutto attuali, in
una visione incentrata su una concezione dell’immagine che, in forme nuove e
del tutto contemporanee, si ricollega alla storia millenaria dell’arte su tutto
il nostro territorio. Questi artisti considerano la pittura e la scultura come
linguaggi dinamici in stretta relazione con le nuove espressioni più
tecnologiche e non come tecniche ‘antiche’ e arroccate su uno sterile
isolamento di nostalgico tradizionalismo: il nuovo dialogo tra le diverse forme
espressive ha del resto arricchito anche la fotografia, le tecnologie digitali
e il video, in un clima dove incontriamo quadri progettati attraverso supporti
informatici o mediati da immagini fotografiche e video, o dove possiamo vedere
stampe lambda, scatti e filmati che cercano di avere una dimensione “pittorica”
o “scultorea”, che denuncia non di rado un preciso e dichiarato rapporto con il
grande tesoro di spunti derivati dalla storia dell’arte. È stato, del resto, da
tempo e da più parti notato come la pittura e la scultura abbiano certamente
dovuto (e saputo) cambiare moltissimo anche per adeguarsi alla concorrenza dei
potenti mezzi tecnologici legati all’immagine, quei nuovi media che fino a poco
tempo fa erano visti non solo come dei nemici ma come dei veri e propri killers
destinati a distruggere le tecniche più tradizionali. E si può certamente
osservare anche come, per superare questo momento di fortissima crisi, la
pittura e la scultura abbiano saputo trasformare le loro millenarie forme
espressive in veri e propri ‘vampiri’ e ‘organismi mutanti’, in grado di
appropriarsi dei vocaboli e dei fonemi del cinema, della storia dell’arte,
della fotografia, della pubblicità, del fumetto, o di internet, trasformandoli
e metabolizzandoli in un linguaggio i cui codici appaiono sottoposti ad una
continua metamorfosi creativa” "
LORENZO CANOVA, ”Immagini del male”, catalogo della collettiva "Il senso
del male" alla Galleria delle Arti Contemporanee a Caserta, a cura
dell'Assessorato alla Cultura, 25 Febbraio- 30 Marzo 2005
“ L'arte ha sempre avuto il compito di accogliere l'orrore nel suo recinto, di
essere il medium in grado di mostrare la crudeltà, la brutalità e il
"peccato" grazie alla sua funzione di tramite "sacrale" tra
microcosmo e macrocosmo, tra l'uomo e il trascendente. Così, con la tragedia
greca e con il teatro di Shakespeare, nella pittura di Caravaggio e di Goya, ma
anche attraverso le Sacre Rappresentazioni pasquali o i cicli di affreschi
dedicati al martirio dei santi, era possibile assistere all'assassinio, al
tradimento, all'incesto e a tutte le più cupe pulsioni e perversioni umane.
L'arte aveva il potere di presentare le immagini e le situazioni più tragiche
senza distruggere i complicati meccanismi dell'ordine civile, sociale e
religioso, salvando in qualche modo un'anima collettiva accerchiata dagli
orrori della storia e dalla brutalità della natura: all'arte era dunque
riservata la possibilità di esibire quel volto del male, che ha costituito un
enigma e un problema centrale per tutte le religioni dellastoria umana. A
questo punto ci si dovrebbe chiedere quale potrebbe essere la funzione
dell'arte in un mondo, non solo occidentale, ormai laicizzato e tecnologico,
oggi che la situazione è radicalmente cambiata e che i mezzi di comunicazione
di massa possono diffondere, senza risparmio ne pietà, scene e immagini di
ferocia sempre crescente, selezionate tuttavia con una logica che sembra
finalizzata ad una sorta di controllo dove ci viene raccontato soltanto quello
che è ritenuto politicamente più opportuno. In questo contesto molti artisti
hanno intuito comunque quale potrebbe essere ancora il loro ruolo, forse
l'unico ancora possibile in un momento storico dove tutto sembra convergere
verso un'unica dimensione "estetica" ma dove si avverte fortemente la
necessità di una nuova consapevolezza di fronte al "diluvio" di
immagini provenienti dai canali dell'informazione e dai mezzi di comunicazione
di massa. Questa mostra cerca allora di dare una "forma"
contemporanea a quello che, anche provocatoriamente, è stato chiamato il
"male", termine ambiguo ed enigmatico che pone problemi enormi e
antichissimi, che vanno dalla sua possibile realtà "ontologica", alla
sua diversa interpretazione nelle varie religioni monistiche e dualistiche, nel
cristianesimo e, particolarmente, in Sant'Agostino, fino al problema del male
presente nelle riflessioni teologiche e nel pensiero di autori che vanno da
Plafone a Piotino, fino a Leibniz, Max Scheler, Luigi Pareyson e moltissimi
altri.
L'intento, owiamente, non è quello di disquisire su tutti i problemi e sulla
grande e assoluta questione del male, ma di registrare come alcuni artisti
dialoghino con un tema così scottante, in una riflessione che prevede
certamente già una scelta di campo provocatoriamente lontana da certe visioni
più "materialiste" o "meccanicistiche" che non prevedono la
presenza del male nel mondo, ma che spesso tolgono legittimità alla stessa
funzione dell'arte, se non nel ristretto contesto degli scambi commerciali.
Questo progetto, va sottolineato, non è basato però su un'idea
"dualistica" del mondo oggi pericolosamente "di moda", in
una concezione dove si scontrano due grandicon un'analisi attenta, si può
scoprire che gli strumenti e gli stessi motivi della lotta difficilmente
possono essere ascritti ad una (comunque generica) categoria del
"bene".
Questo progetto cerca invece di registrare l'interpretazione del male di alcuni
artisti, di comprendere, sostanzialmente, che cosa intendono per
"male" autori che lavorano con linguaggi differenti, che vanno dalla
fotografia alla performance, dalla scultura alla videoarte, fino alla pittura e
all'installazione. Scopriamo in questo modo "letture" che chiamano in
causa la guerra, la crudeltà, più o meno esplicita, la tortura, ma anche la
criminalità organizzata, i disastri ambientali, il riscaldamento globale del
pianeta, le alterazioni artificiali, chimiche e ormonali del corpo umano, per
arrivare fino ad una visione più "metafisica" e simbolica che può
chiamare in causa il peccato e l'espiazione. Da questo mosaico composito
potrebbe scaturire allora una possibile esegesi per immagini de! particolare e
cruciale momento storico che stiamo vivendo, un'interpretazione basata su una
riflessione sul senso di un male che appare comunque dominante negli eventi e
nei drammi dove i conflitti si incrociano agli scontri economici, alle grandi
questioni poste dallo sfruttamento della natura, dalle mutazioni genetiche e
climatiche, dalla delinquenza troppo spesso
dominante, dai cambiamenti sociali, dall'awenire delle metropoli nel Ventunesimo
secolo.
Marshall McLuhan ci ha ricordato opportunamente che «soltanto l'artista (quello
vero) può essere in grado di fronteggiare impunemente ia tecnologia, e questo
perché la sua esperienza lo rende in qualche modo consapevole dei mutamenti che
intervengono nella percezione sensoriale»; Giulio Carlo Argan, peraltro, in una
conferenza del 1980 profeticamente dichiarava: «il bombardamento d'immagini a
cui è esposta la gente, soprattutto nelle città, ha come conseguenza la
paralisi dell'immaginazione come facoltà produttiva d'immagini. Questa mancata
emissione d'immagini ha come conseguenza la passiva acccttazione delle immagini
che formano l'ambiente effimero, ma reale,comunicazione di massa non siano a
senso unico e, soprattutto, non impediscano la comunicazione degli individui
tra loro e con l'ambiente».
L'intento di questo progetto non è dunque quello di mostrare una violenza
"nuda" ed esplicita come, ad esempio, ci appare nei video delle
esecuzioni degli ostaggi in Iraq, o dalle immagini satellitari di guerra, ma
quello di comprendere se l'arte sia ancora capace di interpretare e di
travalicare le apparenze imposte dai mass media, riaprendo la comunicazione tra
individui e ambiente, testimoniando il disagio e il dolore con la forza dei
suoi molti linguaggi: se può insomma ancora scoprire un'ipotetica salvezza
utilizzando la sua capacità unica di leggere il presente e di guardare al
futuro scavando alla ricerca della "verità" degli avvenimenti e di
una loro possibile ricostruzione simbolica senza lasciarsi abbagliare dalla
loro sovrapposizione all'interno dei canali dell'informazione.
Il percorso espositivo inizia...
...Con la capacità intuitiva che spesso segna le opere d'arte, Adriano Nardi ha
dedicato un'opera (realizzata nell'estate del 2004, poi esposta e pubblicata
nell'ottobre dello stesso anno) al tema dell'inondazione, un quadro in cui il
disastro ambientale è annunciato attraverso la fluidità metamorfica e
drammaticamente allusiva delle immagini simboliche dotate di un'inquietante
bellezza...”
Opere pubblicate: Il manifesto di Rachel Corey, 2004 (riprodotto nella
immagine); Il manifesto di Mahjabina, 2004 (solo nominato nella didascalia) .
LORENZO CANOVA, ”A viso aperto”, catalogo edito dalla Galleria Russo in
occasione della collettiva Match 2004, tenutasi dal 4 al 18 dicembre 2004, a
Roma
" Non facciamo pretattica: siamo venuti per vincere. La squadra è compatta
e motivata, un organico che unisce classe e forza atletica, quattro artisti (Di
Silvestre, Cervelli, Nardi, Bellobono) che fanno una pittura attuale, forte e
dinamica, senza pentimenti o nostalgie, in un lavoro che si confronta
attivamente con la fotografia, il digitale o il video, rielaborando le
sollecitazioni dell'universo comunicativo in una sintesi innovativa e ambiziosa
di gioco coraggioso e offensivo. Questo team punta con decisione e senza timori
alle tematiche della vita di oggi, lavorando sul corpo e sul volto umano,
sfidando l'occhio elettronico dei media, rubandone strategie e soluzioni per
creare la qualità inedita di un progetto icastico ed efficace che affonda nel
nucleo pulsante del mondo, nel centro del presente e del futuro, grazie ad una
visione diretta al cuore della vita contemporanea...
...La trequarti del campo è guidata da Adriano Nardi, che punta la porta avversaria
con la sua costruzione metamorfica e fluttuante del quadro, un lavoro dove
digitale e pittura si fondono in una sintesi densissima in cui la bellezza del
volto femminile, attraversato da campi cromatici e da scansioni geometriche,
sembra rivelare le coordinate di una nuova, possibile, percezione..."
Opera pubblicata: Sine direction (Il seno selvaggio) (2003).
ENZO SANTESE, ”Natural Mente”, catalogo della collettiva presso l'istituto
Europeo Promozione Arte Contemporanea a Catania dal 21 ottobre al 21 novembre e
presso l'associazione culturale Antonio Cannì a Ragusa dal 23 ottobre al 23
novembre 2004
“ L'orizzonte visivo di oggi fa apparire "naturale" qualsiasi
assemblaggio improbabile, o abbinamento improprio, oppure collocazione irreale.
Il virtuale si sostituisce ai tratti di una fisicità riconoscibile e
destruttura fa/ora l'esistente per ricomporre sui moduli della fantasia scenari
che paiono familiari, anche quando appartengono alla galassia
dell'immaginazione. In tale linea composizioni spiazzanti esprimono "la
naturalezza" che le fa acquisire come consuete. Ritratto e paesaggio
dominano il carattere della rassegna, dove la figurazione illumina modi molto
differenti degli artisti nell'attivazione di uno sguardo interno, rivolto a se
stessi, e uno esterno, teso all'ambiente, in cui si ripercorrono a volte le
tracce di una storia, scritta in quanto sopravvive di attività e rilievi
passati; per questo fabbriche dismesse, edifici abbandonati, vecchie ciminiere,
oppure arditi azzardi paesaggistici con innesti impropri, scardinano la logica
dell'acquisito e lo mettono in discussione.
E' diffusa inoltre la tendenza a mitizzare il proprio tempo attraverso la
sottolineatura di reperti memoriali, collocati in un segmento preciso del
vissuto, facendolo diventare icona vera di un sentire la realtà, filtrata dallo
sguardo retrospettivo. Il ritratto, ma non solo quello, diventa simbolo di una
volontà di scandaglio psicologico, ma anche d'analisi impietosa e ironica dei
flussi inarrestabili del contemporaneo, legati alla dinamica mediale oppure
alle consuetudini consolidate, alle mode che si legano a feticci del momento
quali scarpe, oggetti d'abbigliamento, oppure addirittura modi gergali, così
come avviene sistematicamente nel mondo giovanile. Vari autori presenti nella
mostra sono portati a mescolare consapevolmente soggetti, linguaggi e stili
diversi in una contaminazione che è sostanziale sul piano dei contenuti e
"poetica" sul livello creativo. E così la pittura, ancora praticata
da molti come territorio privilegiato di indagine, si coniuga fa/ora con
procedimenti del tutto nuovi, in sintonia con la tecnica più aggiornata; in tal
modo l'immagine digitale, il taglio cinematografico, la tecnica del montaggio
cinetelevisivo entrano di peso nella produzione di diverse personalità. Anche
chi declina verso l'astrazione o si affida alla realizzazione tridimensionale
contribuisce con la propria proposta a dare peso e vitalità al mosaico
composito di "Natural Mente". A questa gamma di opzioni, così sommossa
nei contenuti e nei procedimenti operativi, da vita una compagine di artisti
sicuramente eterogenea - Valerio Berruti, Fabrizio Campanella, Sarà Conti, Dino
Cunsolo, Angelo Davoli, Alessandro Di Francesco, Andrea Di Marco, Fulvio Di
Piazza, Carmelo Drago, Stefania Fabrizi, Philip Hipwell, Klaus Karl Mehrkens,
Adriano Nardi, Adriano Ribeiro, Enrico Salemi, Marco Tamburro, Francesco Tulli,
Mario Vespasiani, Luca Zampetti - che fa della figura il fulcro di una
riflessione ampia e profonda, oppure, per contrasto, nella sua scomposizione
trova il nesso di congiunzione con l'essenza del reale. Lo dimostra la sequenza
di opere pittoriche e scultoree allineate nella rassegna...
... Adriano Nardi ricorre a una figurazione dove balugina il senso dei
cartelloni pubblicitari: figure di donne, sospese tra la vocazione di
rappresentare il modello assoluto e l'urgenza di riflettere la durezza della
realtà. La tecnica mediale porta a una tessitura particolare nella
composizione, realizzata con stampa laser su alluminio...”
Opere pubblicate: XXII Microdipinta (2002), XXV Microdipinta (2004).
GABRIELE PERRETTA, “Il tipo ibrido”, testo del catalogo della personale alla
Galleria La Giarina di Verona dal 9 ottobre al 27 novembre 2004
“La domanda è sempre la stessa! Qual è il punto di partenza? Il punto di
partenza è la realtà che ci circonda, è da essa che salpiamo per chiederci:
cos’è l’immagine? Cos’è l’arte (ammesso che essa esista ancora)? E cos’è
l’ambiente entro il quale l’arte, l’immagine si generano? Ci troviamo per
l’ennesima volta di fronte alle immagini di Adriano Nardi e per l’ennesima
volta in questi anni ci chiediamo il perché di questo lavoro, il perché di
questo artigianato, il perché di questa maturazione mediale, il perché di
questa sintesi ibrida di quello che lui stesso chiama, in maniera molto
semplice1, micro-pittura e micro-immagine mediale. A dispetto di tanti miei
colleghi, che hanno bisogno di definire solo il braccio destro del mercato e
inneggiano alla stesura di testi semplici, scritti nel “diletto” e nel dialetto
della sintesi epigonale del medialismo, chiediamoci perché questa pittura corre
veloce, magari sul filo del meticciato, e perché questa categoria sociologica è
sicuramente più ampia ed importante per l’oggi di un singolo fenomeno
pittorico. Molti dei miei colleghi hanno paura di riconoscere che l’arte oggi
dovrebbe essere solo un tavolo di discorsi e, quindi, un grande pretesto per
poter discutere delle cose del mondo (e soprattutto di quelle cose che nel
mondo non vanno bene…).
Più volte mi sono prodigato nel dire che l’arte, al di là dell’oggetto
funzionale che serve a fare un po’ di soldi, non esiste. Nel senso che essa è
assente ovvero, come dice Jean Baudrillard, il suo dasein è ormai puro design.
In questa ecatombe decorata a festa (ma non troppo degna di una brillante festa
barocca), la tecnologia ha assunto le funzioni dell’archeologia ed è in grado
di tirar fuori ciò che la pittura di per sé ha lasciato collassare nel suo
essere storico. Come si sforzava di dire Paul Veyne su Michel Foucault, la tesi
più originale “è che, l’oggetto si spiega a partire da ciò che è stato il fare
in un determinato momento storico”2. Dunque, per considerare l’oggetto pittura
alla maniera in cui ce lo prospettava Piero da Cosimo3, la tecnologia va usata
non come una prospettiva futura, ma come un periscopio per mettersi in contatto
con il passato. Ma se tecnologia va dunque adoperata come archeologia, per
capire effettivamente il senso dell’immagine dell’oggi, più che continuare a
chiedersi in che modo la pittura vive oggi, è bene domandarsi in che modo
l’immagine può resistere nell’ambiente culturale artificiale nel quale viviamo
e come si innesta ad altre “piante” che producono altri ibridi. Corre voce che,
artisti come Adriano Nardi a Roma, per presentare il loro lavoro dovrebbero
fare i conti con l’epigonismo dei mediali, gli stessi - che furbescamente -
negli ultimi anni hanno rivendicato la pittura digitale, la tecno-pittura ed
altre storie simili. Ma purtroppo queste fandonie sono la caratteristica
essenziale delle leggende che si costruiscono in un territorio artificiale,
dove vale la legge del cowboy. Qui, come nella mitica “prateria dove le pistole
dettavano legge”, ognuno si fa lo “statuto” da solo, correndo dietro alla
febbre del dollaro e cercando di dimostrare che quando il suo totalizzante Ego
è venuto fuori era il primo di una tournee di cui egli stesso non conosce né il
produttore né il suo segreto e sottile manager. Viviamo in un’apoteosi del
sistema politico di superficie, che si presenta come il nuovo Averno[i],
fatalmente consegnato al regime della sotto e della sovra-esposizione. Il mondo
si è compiuto nel sistema della macchina fotografica.
In questi ultimi anni, le riviste artistiche di mercato, correndo dietro al
mito della scoperta pittorica, hanno alimentato il conflitto che è in atto fra
le giovani generazioni di giornalisti e di curator e l’hanno fatto solo per
mirare al proprio tornaconto. Nel momento attuale, lo stato di ricerca
sull’immagine, insieme al trend della curatorialità ed al mercato, sono in un
conflitto totale, in uno stato di guerra esasperato che tende ad alimentarsi
grazie alla sua stessa situazione agonistica. Per l’arte - come se fosse un
commercio di idee - vale oggi più di ieri la famosa frase di Dumas figlio “Les
affaires, c’est bien simple: c’est l’argent des autres”. Forse, nell’epoca
attuale, come diceva Henry Miller nel Tropico del Cancro, la “Confusione è una
parola che abbiamo inventato per un ordine che non comprendiamo”.
Dunque, ammesso che qualche pittore o artista come Nardi abbia l’obbligo di
fare i conti con la tradizione “dell’immagine mediale tecno-popolare”, non ci
sembra che debba riverire nessuno degli artigiani di turno che si sono
affiliati alla grande cassa di risonanza dell’epigonismo mediale degli ultimi
semestri, ma crediamo piuttosto che gli possa toccare di riconoscere che,
mentre sin dalla seconda metà degli anni ottanta una commistione tra pittura
mediale (Fabrizio Passarella e Santolo De Luca ad esempio) e medialismo
analitico (Tommaso Tozzi e Nello Teodori) agiva in maniera forte verso
l’ibridazione di una iconografia e iconoclastia totale, nel campo delle altre
realtà artistiche popolari tale patrimonio veniva sviscerato da musicisti che
sono stati gli antesignani di gruppi come i Prodigy, i Deep Deep Forest, oppure
Tricky. Anche se esteticamente diffido del valore artistico della techno music,
nel senso che per me si potrebbe trattare anche di semplice spazzatura
dell’industria artistica tardo contemporanea (dell’industria culturale, bla, bla,
bla…), devo ammettere che essa oggi ha conquistato un suo tratto simbolico.
Il techno è un genere nato a Detroit alla metà degli anni ’80. Si narra che nel
1984 tre amici di Detroit J. Atkins, D. May e Saunderson crearono col
sintetizzatore una musica tesa a riflettere la decadenza post-industriale della
metropoli, rievocando la crescente importanza della tecnologia informatica.
Atkins, per definire i suoi esperimenti con i sintetizzatori analogici e
digitali, introdusse per primo il termine “techno” e da allora la parola ha
definito molti stili di musica da ballo. Questa stessa situazione di Atkins et
company, usata in chiave di metafora, potremmo applicarla anche alla fusione
delle ricerche mediali che in quegli stessi anni si ribellarono in Italia alla
cimiteriale situazione gestita nel nostro mercato dalla politica dell’arte
povera e della trans-avanguardia. In sostanza, per dirla tutta, ciò che in
quegli anni nasce e sino ad ora resiste, e che anzi nelle ore odierne sembra si
giustifichi sempre di più, è quell’esigenza radicale di scavalcare il diritto
di precedenza che dagli anni 70’ in poi si è arbitrariamente sedimentato nella
nostra cultura artistica, mirando verso la priorità del citazionismo e del
virtuosismo manieristico, nonché verso la rivendicazione di un minimalismo
italiano, fatto di materiali e di piccole iconoclastie, per prendere di petto
la realtà che sempre di più ci minaccia e fare i conti con la scienza, con
l’universo scientifico e tecnologico che di lì a poco si fa avanti in modo impetuoso.
Di conseguenza, diciamo pure che, tutta la riflessione mediale, tutta
l’indagine del medianismo, nasce da un confronto diretto o indiretto con
l’ambiente della tecnica ed è sulla stessa tecnica che questo nuovo
materialismo, in maniera sempre rinnovata, ha modo di riflettere anche
attraverso la pittura (qui diciamo pittura per dire più genericamente
immagine). La pittura di cui parliamo, ancor prima che affiorassero gli
equivoci del digitalismo fine a se stesso o del didascalismo mediologico, resiste
solo se viene confrontata con l’universo artificiale, perché è su questo stesso
cosmo che nasce e si innesta la ricerca del nostro Adriano Nardi.
Qualche volta, per seguire come la storia usa trasformarsi, bisogna impiegare
un po’ di umorismo alla UBU Roy (all’Alfred Jarry). Cambiando il tema delle
frasi storiche, ribadiamo che Svetonio, nella Vita di quel pazzo e scellerato
Nerone, ci riferisce che un giorno pare egli abbia esclamato Qualis artifex
pereo, a tal stato d’animo bisognerebbe aggiungere la seguente glossolalia:
qualis artificio pereo, nel senso di quale artificio muore e si compie in me?
Diciamo tutti gli artifici possibili, perché noi nel nostro mondo, siamo
condannati alla forma dell’artificio totale! Il motivo per cui l’arte non
esiste, e non esiste neanche la natura storica che la pittura in quanto pittura
aveva conquistato, è che noi abbiamo scelto storicamente, grazie alla tecnica,
la strada dell’artificio e quindi sarebbe più semplice, quando ci troviamo di
fronte ad una qualsiasi immagine, pittorica o fotografica che sia, parlare di
medialità e di comunicazione. Ma cos’è l’artificio o meglio l’artificialità
dell’ambiente costruito in cui cresce e si alleva una con-formazione, come la
pittura di Basmina di Adriano Nardi? La pittura dell’òntos mikròs, come egli
stesso la definisce, la pittura che insidia “il minimo divario linguistico”, la
pittura che avrebbe la pretesa di “scardinare la sensibilità alle differenze
stilistiche e contenutistiche della forma artistica, data come assoluto personale:
verso una visione delle differenze”[1].
Nella vita e nell’esistente noi abbiamo perso il tratto dell’incalcolabilità.
Grazie alla scienza, tutto è sottoposto al vaglio della tecnica e quindi
l’unicità e la spensieratezza che era conservata nella pittura si è rivoltata
nella malinconia dell’indistinto. L’oscurità dentro la quale siamo condannati
dal sistema ci viene descritta da una vecchia frase dalla Storia noiosa di A.
Cecov: “L’indifferenza è la paralisi dell’anima, è una morte prematura”. G. B.
Shaw dice che, lo stato “indifferenziato è l’essenza dell’inumanità” (Il
discepolo del diavolo). Ma se questi mandati di comparizione di Cecov o di Shaw
ci risultano oscuri, proviamo a descrivere una situazione generale in cui si
delinea la sociologia dell’artificiale perenne. Ogni realtà oggettiva è
all’interno di un precetto, tutte le nozioni si dislocano nello spazio del
metodo tecnico e il passatempo delle difformità è compreso dall’omogeneità e
dall’avvicendamento dei percorsi doppi, duplici, gemelli che spesso si
scambiano tra loro. All’interesse ed all’indiscrezione spesso si reiterano
responsi preparati e predisposti dal programmatore. E quindi chi è il vero
ideatore? Il vero artefice è chi conserva e conquista la possibilità di
replicare. Qual è la sentenza o la smentita possibile? Qual è il limite che ci
viene concesso per rispondere? Forse è l’uso stesso della risposta! Tra scienze
esatte e scienze umane siamo circondati da test, campionature statistiche,
indagini di mercato, elezioni, referendum e quant’altro ci fa credere che come
destino esiste un sì o un no a quella domanda che fu! L’abbondanza delle
notizie, l’assortimento delle merci sui mercati non sono un omaggio alla
libertà, ma la possibilità di verificare se si è veramente utenti o non utenti
del sistema e quindi se siamo veramente inseriti nella catena di montaggio
dello schermo che l’industria costruirà domani. In questa stessa maniera si
presenta la domanda storica sulla contemporaneità della pittura. Cos’è la
pittura, come possiamo praticarla, quale strategia si può usare per affermarla?
Pare che sia di moda il pensiero di quel criminale del feldmaresciallo Helmuth
von Moltke “Marciare divisi, colpire uniti”, oppure “la strategia è un sistema
di ripiegamenti”. Pare che non sia più possibile ciò che Picasso diceva della
pittura, ovvero che doveva essere un’opera di mediazione tra il mondo estraneo
ed ostile e noi.
Oggi la pittura non è media-zione, è media e basta, ma non con la sensazione
che si tratti di un media (non avrebbe la forza di esserlo), piuttosto nel
senso che è lo specchio della mimesi di un media. Ebbene, nella simulazione
totale che tassativamente imperversa, se la pittura vuole “salvare la ghirba”,
ha bisogno di recitare la parte di uno schermo tra gli schermi, l’unica diga,
barriera, scudo o specchio, ove la gente ormai in maniera trasparente si
riconosce. A tal punto tutte le cose che transitano nell’universo mediale
prestano servizio alla finzione del senso! Un imbroglio in forma di reality
show, un semi-valore che non si scambia fra gli uomini, ma su di loro si
ripropone alla maniera di un contrassegno, proveniente da un grande esemplare
che fu emesso come una moneta e registrato altrove. In altri termini, siamo di
fronte ad una realtà artificiale che è in grado di riprodurre se stessa e di
cui oggi, nella ricerca affannosa di qualcosa di naturale, si comincia a
sospettare l’artificiosità. Una ricerca assai vana, falsa e ingannevole, perché
l’artificialismo prodotto dalla tecnica si pone come un effetto della legislazione
che fa passare per realtà le sue forme irrelate di opposizione binaria e di
finta alternativa. L’artificio è un accorgimento sottile, è un trucco, è una
maschera che si aggira come uno spettro tra i travestimenti e che
velleitariamente tende a camuffare, a produrre delle apparenze, a dare degli
input estetici per creare ed allevare altri patrimoni e laboratori artificiali
alla seconda.
L’artificializzazione è spesso sinonimo di reificazione, che nel significato di
Karl Marx è fermo a voler dire che, quella successione attraverso cui gli
esseri umani e le relazioni sociali a cui essi danno vita, diventano res = cosa
sono i requisiti dello stato generale della collettività. In questa communio,
l’arte non ha più ragione d’essere perché essa si permuta tra le cose, diviene
oggetto tra gli oggetti, uno scambio tra gli scambi. Marx, dunque, dice che le
persone sono legate da una stretta dipendenza in cui le cose decidono sugli
uomini. La religione del valore di scambio, sacralizzando la sua essenza,
razionalizza la perdita del valore e fa passare tutto l’orizzonte totale sotto
il principio del facticius = feticismo. Il sistema e la forma di vita in cui
viviamo è diventato nel frattempo “l’artificialità totale del segno”[2], in cui
il capitale non si esprime per avarizia ma per bisogno di procreare e far
procreare artificialità. In questo orizzonte di omologazione totale del senso,
delle immagini, dei materiali, dell’ombra, delle persone, le uniche cose che
contano sono le contraddizioni, solo ciò che riesce ad emergere come
un’antinomia, un contrasto, un’opposizione, uno stridore, un cigolo aspro e
sgradevole può accompagnare uno stato di icasticizzazione della realtà. Così
come, secondo G. Childe, nelle società antiche fu la produzione agricola -
anche nella sua forma più rudimentale – a fornire per la prima volta all’uomo
l’opportunità e il motivo di accumulare le forme dell’eccedente, nell’ambiente
economico contemporaneo l’eccedente è divenuto una norma strutturale. In
effetti, l’arte è morta perché noi non possiamo aspirare all’arte, come non
possiamo ritornare alle origini dell’approvvigionamento rurale. Noi l’arte ce
l’abbiamo ficcata “dappertutto”, siamo pieni di arte, siamo pieni di belle
immagini, di color designers, di cool hunter, di creative designer, di
advertising, etc…. Le copertine delle riviste sono piene di belle immagini, di
iconografia affascinante, eccitante ed accattivante. L’eccedente delle bellezze
patinate, della lavorazione dell’immagine estetica ed estatica, non è risultato
dell’ingegno operoso dell’arte, bensì il prodotto di una storia, la nostra
storia, la storia che l’occidente capitalistico ha scelto e desiderato
inderogabilmente. Potremmo quasi dire che oggi l’immagine e la sua industria
viaggiano nel flusso di quelle categorie istituzionali come i fondi
cerimoniali, i clan, il modo di produzione, il tributo, la rendita, il
plusvalore, etc… L’eccedenza ha dispiegato il suo teorema: riempire i vuoti di
esistenza che potevano farci lamentare sulle forme di indifferenza nel mondo. È
così che nella società della fine del lavoro siamo tutti occupati alla ricerca
dell’immagine che più ci piace. L’eccedenza dell’immagine si pone come una
peculiarità produttiva ed automatica del nostro progresso tecnico. Se i teorici
del design sostengono che la loro disciplina è divenuta un sistema complesso di
conoscenze, i teorici della sociologia in generale dovrebbero sostenere che i
rapporti umani, e non solo le loro particolari dimensioni estetiche, sono
diventati gli addentellati dei mille lemmi di un grande glossario di design. La
società degli artisti è bella e pronta e un super-design logorroico e ciarlone
ne ha progettato il suo sistema filosofico.
Di fronte a tale assurdità, è solo schiacciando la soggettività utopica della
pittura nell’oggettualità totale della reificazione mediale che il soggetto può
vivere nell’età di una tecnica programmata da altri. In questa strategia, che
si incontra al centro di altre strategie, in preda ad una dispersione
risolutiva generalizzata, si mostra l’efficacia di usare la tecnica
dall’interno e scegliere di fare tecno-pittura ed altre storie simili. È a
partire da qui che il mondo della tecnica diviene un laboratorio affermativo
oltre che operativo, per forzare la mano verso la ricerca, ed è da qui che
nasce la possibilità di fare comunicazione tra le mille forme che la medialità
esprime. È all’interno di questa complessa dimensione che nascono le figure
accattivanti di Adriano Nardi che qualche volta appaiono come delle bellissime
donne sensuali ed avvenenti ed altre volte come delle figure androgine e
sofisticate, nuove ed egizie, misteriche ed enigmatiche, figure aneroidi ed
androidi che vengono fuori dal sacco mediatico dei giornali di moda, dei
rotocalchi e delle riviste di “donna moderna” e a la page. Quasi sempre, però,
queste immagini nonostante conservino tutta la bellezza femminile che attrae ed
affascina, appaiono come qualcos’altro rispetto al genere di sola donna, di
solo gay, lesbica o eterosessuale che più riusciamo ad immaginare. La domanda
sorge spontanea: chi è quella lì? Basmina è veramente una ragazza, una donna? A
quale attenzione si offre il suo sguardo? Come è veramente fatta? Chi ci dice
che dietro quella singola immagine di Biquìnis (1999), di Ducotone Valley
(2001), di Fight-Line (2001), di Hiroglif (2003), Hurricane Camille (2002) ci
sono delle donne, delle semplici bellezze femminili? O forse esse potrebbero
impersonare la pittura stessa, come sostiene Nardi? Ma in quei visi è
effettivamente rintracciabile la storia di una donna? Noi guardando quella
immagine osiamo interrogarci sul “chi è” di quella icona, forse perché è sulla
nozione di genere che Nardi ha impostato tutta la sua pittura ed è sull’estremo
significato di gender che egli ci vuole solleticare e avvicinare, proponendoci
icasticamente un’immagine cyber-meticcia e cyber-latinos. L’immagine di Nardi
sembra che parta da un genere che ha mischiato totalmente il feticismo con
l’identità di un sesso, di un corpo, di un’avvenenza e di un’autenticità. Ma
forse in questa folle miscela c’è il genere e la radice della sua profonda
attenzione per l’eccesso del nuovo, prodotto dalla tecnica e dal senso stesso
dell’orizzonte mediale.
Noi sappiamo che il concetto di gender è una categoria sviluppata ed impiegata
dalla critica femminista per indicare processi di costruzione differente del
maschile e del femminile. Andando alla radice del termine, gender suona proprio
come qualcosa che interviene sui processi storico-culturali, nonché semiotici e
linguistici della costruzione di un significato o di un senso. Da qui la mia
idea che vede una strana somiglianza (e qui vado per metafore) fra il sesso
modificato della pittura e la critica stessa al sesso da parte del gender, che
nella sua forma costruttiva vorrebbe opporre il corpo, la totalità del corpo
alla macchina dell’apparato genitale. Qui è come se la pittura ibridandosi,
modificandosi, trovando un’apertura di generi che la fa essere più accogliente
e disposta alle differenze, è capace di ritrovare un corpo biologico pronto a
mostrarsi con diverse identità e a confrontarsi con l’interazione di diverse
culture. Insomma, così come le donne e gli uomini non sono il naturale e
l’immutabile, ma delle rappresentazioni che raccolgono un insieme di modi di
vita e di pratiche discorsive, anche la forma mediale che ha superato
l’illusione materica della pittura include altri linguaggi per combattere il
patriarcato o il matriarcato della sua artigianalità. Il gender del mediale è,
dunque, la legittimazione dell’immagine totale, tutto si sovrappone e viene fuori
attraverso la piacevolezza delle mappe cromatiche che disegnano la visionica di
Nardi. Come nel campo della filosofia femminista il gender è ben presto
diventato uno strumento di critica, diciamo che la pratica di ibridazione di
Nardi lo è altrettanto e lo è, soprattutto, quando l’innesto di pittura e
tecnologia, in un eterogeneo mescolamento riescono a far stridere i tratti e le
tracce compositive. Più il contrasto aumenta e più la piacevolezza del gender è
in atto. Potremmo dire che l’erosione della pittura diviene l’erotismo
pubblicitario e fictionale della comunicazione.
Pensando alla genealogia di quelle immagini, pensando al gioco al rimbalzo che
le forme delle riproduzione attivano tra un ambito e l’altro, un procedimento e
l’altro, è molto difficile accertare l’identità di queste figure. Dietro una di
queste donne c’è probabilmente la storia di una contro-donna e di una
contro-identità, perché è proprio la moda che negli ultimi decenni ha lavorato
più di tutte affinché la bellezza femminile si riscoprisse in controtendenza a
se stessa, facesse lo spillo all’identità di se stessa. Va detto subito, in
forma di inciso, che la Bellezza non può essere quella che E. Panofsky aveva
ricavato dall’analisi delle pitture e delle teorie che possedevano i fiorentini,
neo-platonici e ficiniani, di un tempo che fu! Diciamo che nel nostro
contemporaneo la bellezza è legata alle competenze di un basic design o di un
benchmarking. Quindi, data la bellezza e data la sua certificazione a colpi di
communication design, nella dittatura dell’affollamento anche le differenze e
le identità spesso perdono dei margini netti, lasciando il posto a sospetti e a
supposizioni, ad enigmi ed a quesiti irrisolvibili, che si chiedono in maniera
perentoria, quale sarebbe il senso delle nuove cariatidi.
L’immagine femminile che si vede nelle immagini mediali di Nardi, più che
accertarci del fatto che è una giovane donna, ci stimola subito la curiosità di
capire se quella icona coloratissima e provocante, che sfoggia biancheria sexy
e hot-pants, è una madonna che vuole mettere in risalto il corpo perfetto, che
guarda bene in faccia lo spettatore e lo invita a seguirla nel grande mondo
dell’artificio, oppure è piuttosto come quelle Vergini ambigue che ci aveva
regalato Andrea Del Sarto all’inizio del ‘500. Qui mi riferisco proprio al
titolo curioso della Madonna delle Arpie (1517) esposta agli Uffizi di Firenze.
Se risaliamo con attenzione all’iconografia dei volti di Del Sarto, notiamo con
quanta ambiguità il pittore osava mettere in evidenza nelle sue figure i tratti
più profani. Nella Madonna delle Arpie già le figure mitologiche del
bassorilievo sul piedistallo della vergine rappresentano mostri mitologici metà
donna e metà rapaci, ma se ciò non ci bastasse - guardando meticolosamente i tratti
peculiari del lavoro di Del Sarto - spesso la particolare dolcezza del volto,
unita all’eleganza ed alla gestualità tipica delle sue figure, nasconde altri
tratti ed altre identità. Spesso i personaggi così belli, definiti da forme
sciolte ed apparentemente trasparenti, nascondono una sotterranea inquietudine
che esploderà in maniera ancora più evidente nelle figure e nelle controfigure
di Rosso Fiorentino, Pontormo e Vasari. Potremmo quasi dire che le figure di
Nardi non hanno niente delle donne di Campigli, che attingeva dalla pittura
parietale dell’arte etrusca. La figura delle sue donne non è a forma di anfora
o di altri simboli, ma come dice lui stesso nel Manifesto di Basmina, i colori
arcaici e terrosi della pittura sono superati dall’applicazione in mapping del
digitale “come strumento di riorganizzazione della comunicazione”. Nardi
dichiara in maniera esplicita che i “suoi quadri rimandano al www” e
l’immagine, per fare questo, in genere scorre in maniera piatta e schermatica,
come se dilagasse su una grande mappa geografica con l’inserimento dei mille
colori. Rispetto al sistema di riporto di Maurizio Cannavacciuolo, qui la
composizione, il sistema di montaggio e di cyber-collage è più rapido e fedele.
Risalendo, quindi, ad una iconografia popolare emblematica, per parlare di un
genere circolare, forse è il caso di insistere sulle cariatidi. Nella pittura
di Nardi che vediamo raffigurate così di frequente, rappresentano quasi un
sostegno di tutta la composizione dell’immagine. In fondo la sua pittura agisce
sull’inquadramento dei volti, dei corpi o di zone dettagliate di tutta la
geografia umana, cercando di utilizzare le inquadrature, gli scorci, i profili,
le sagomature o tutte le altre forme dell’apparire. Tale condizione mette la
pittura in relazione con gli altri mezzi di riproduzione mediale che oggi,
nella loro facilità, agevolano i modelli della nostra percezione metropolitana.
Naturalmente, chi osserva con attenzione come viene distribuita la bellezza e
la sensibilità contemporanea ha due alternative o si fa portare dalla corrente
e in questo fiume si nutre di ciò che la comunicazione gli offre e quindi
accetta una piacevolezza passiva e molto diffusa, oppure introduce su questo
andamento una sguardo più personale che tenta di fermare il flusso e, laddove è
possibile, razionalizzare l’evento autonomo e assolutistico che la pubblicità
ha ormai introdotto nel nostro stile di vita quotidiano. Diciamo che la
formalizzazione di Hurricane Camille o Hurricane Carla mi piace pensarla con
quest’ultima possibilità. E diciamo anche che il genere femminile nella storia
rimane uno dei comportamenti umani più tendenti alla libertà, alla liberazione
ed alla trasformazione storico-culturale dell’essere. Con una metafora che ai
ben pensanti potrebbe disturbare, ribadiamo che la donna è la rivoluzione o la
rivoluzione è donna, non soltanto nel suo genere linguistico.
Detto questo è più facile capire quanto la pittura, come tutte le altre
tecniche di riproduzione, sia femminile e, quindi, un genere aperto capace di
accogliere e trasformarsi, procreare ed incrementare, rappresentare e
interiorizzare nella voce del corpo il medium della conoscenza, come sosteneva
Walter Benjamin. Ecco che questa ricchezza produce ulteriore ricchezza e
differenza, non a caso uno dei più bei libri sul materialismo del divenire è
stato scritto da Rosi Braidotti adottando un paradigmatico titolo: In
metamorfosi. Questo è l’argomento della pittura oggi e non potrebbe essere
altrimenti, nel senso che la pittura non sussiste in quanto sua storia ma in
quanto “non è”, cioè è “in metamorfosi”. Essa non può più essere simbolo,
perché trasformandosi in gender essa è l’allegoria in atto, l’allegoria
concatenata al mondo della tecnica dal quale non è più possibile prescindere e
attraverso il quale si può vivere soltanto in una metamorfosi critica continua.
Ho paura che il vecchio e simpatico professore di Konigsberg, conosciuto dai
molti come Emanuele Kant, oggi avrebbe torto nel voler insistere a sostenere
che la bellezza non esiste al di fuori di noi, nel senso che la gamma delle
bellezze nel dizionario del design contemporaneo è più fortificata
dell’antropologia. La tecnologia ha fatto venire i capelli grigi a Kant,
proprio perché la bellezza, grazie al sapere tecno-pop, è soprattutto intrinseca
alla gamma degli oggetti che ci circondano (anche quelli in carne e ossa).
Magnifica utopia quella di Kant che sosteneva che il bello è ciò che piace
senza alcun interesse, purtroppo – scalando gli share televisivi – ciò che
piace sono quelle veline o velone che sono offese da una percezione
estremamente strumentale. Forse questa è la ragione per cui l’in metamorfosi
della pittura potrebbe solleticare l’occhio assuefatto e disdire quei contratti
con i programmi condotti dall’alto.
Sperando che le immagini di copertina possano ribellarsi a tale stato di
afflizione, in cui vivono grazie all’industria culturale, e sperando che il
mondo vada diversamente da come va, tentiamo di pensare in positivo la storia
delle cariatidi, o meglio proviamo a pensare che le cariatidi stesse si possano
ribellare alla loro protostoria. Secondo Vitruvio, l’origine del termine
cariatide è da ricercarsi nella sconfitta subita dalla città greca di Carie.
Secondo la leggenda alcune di queste donne assoldate furono rese schiave e gli
architetti del tempo le raffigurarono nell’atto di sorreggere le trabeazioni
degli edifici, facendole diventare un simbolo contro i traditori della patria.
Mettiamo il caso che quella bella modella posta al centro di Hiroglif sia stata
utilizzata da uno dei tanti fotografi di moda per reggere lo spazio della
visione in cui è stata progettata la presentazione di prodotti, anzi mettiamo
il caso che, come dice Baudrillard, anche i prodotti sono spariti, non ci sono
più perché dopo l’epoca della pubblicità viene la mimesi tra umano e
post-produzione: quale funzione, a questo punto, possono avere delle immagini
così provocanti? Diciamo che, così come nei Dormice, o nei lavori di Andrea
Neri e quelli di Fabrice De Nola, le donne non sono mai delle cariatidi ibernate
nell’antica città di Caria. Semmai sono le modelle di Vanessa Beecroft ad
essere - come si diceva un tempo - delle donne oggetto; qui, tra le immagini di
Adriano Nardi, Nina oppure la ragazza di Seattle sono delle potenziali ribelli,
che reagiscono allo stato di totale appiattimento dell’immagine imposto
dall’alto. La pittura di Nardi, essendo gender, si spinge da un’altra parte
rispetto a delle corporalità che potrebbero minacciarci come i vecchi scheletri
di Vesalio. Queste architetture tentano di sfondare l’immagine, tentano di far
scoppiare la funzione cariatide e, invece di scolpirsi come un oggetto di muto
marmo, esse provano a trasformarsi in allegorie vive, sono come le dame romane
descritte da Pierre Klossowski[3]. Il colore fa da rivestimento epidermico, i
costumi si associano così come se fossero dei complessi muscoli di una nuova
pittura artificiale. Qui dentro il tempo è in una condizione di eterno
presente, e non si tratta della favola dell’artista impersonata da quel
reazionario di Pierre Drieu La Rochelle che - in preda alla rappresentazione di
una borghesia debole, disillusa e corrotta, simulata dall’immagine pessimistica
di una famiglia catapultata nella totale crisi - prova a scrivere, nel 1925,
L’uomo pieno di donne. Chi è a confronto con l’estetica dell’artificio, non è
in grado di incedere col passo del cicisbeo.
Del resto, nelle immagini di Nardi anche la figura, pur nella sua semplicità,
viene sacrificata sull’altare dell’astrattismo. L’identità della persona emerge
solo come un’apparenza tra le apparenze, infatti egli usa il colore con
un’atmosfera che potremmo quasi definire di barocco digitale. In effetti,
l’astrattismo Nardi lo pratica da sempre, basta guardare un lavoro del ’98 che
egli chiama El Niño, o altri lavori che risalgono alle sue sperimentazioni
degli anni Novanta. Usando sempre dei paradossi un po’ barocchi, diciamo che
l’astrattismo figurativo dell’attuale Nardi sta alla Lezione di Mondrian, come
quella di Mondrian potrebbe stare nella cronologia delle discendenze di un suo
antico avo come Rubens. Ebbene, l’Artemide di quest’ultimo non è solo una dea
della caccia, ma rappresenta anche la libertà di muoversi tra paesaggi e
animali selvatici. Senza presunzione e senza contenerci in paragoni storici,
che potrebbero forzare la retorica, diciamo che le donne gender hanno la stessa
fisionomia ribelle, esse cavalcano la scena per catturare la nostra attenzione
a colpi di erotismo ambiguo, omosessuale, lesbico, un erotismo che è la traccia
del nostro desiderio di liberazione e della nostra speranza di libertà.”
[1] Semplice qui è sinonimo di banale, mediocre, andante e solito e non di
unico, singolo e genuino. L’esercizio della giovane critica italiana, ormai da
alcuni anni, con la collaborazione delle riviste d’arte contemporanea si è
gettata da sola in un tunnel manipolato e governato dai media, dove i testi
scritti sull’arte sono il frutto dell’idiozia giustificata dalla rincorsa al
“semplicismo”…
2 Paul Veyne, Foucault rivoluziona la storia (1979), in Michel Foucault. La storia,
il nichilismo e la morale, a cura di Massimiliano Guareschi, Verona, Ombre
Corte edizioni, 1998, p. 31.
3 Piero Da Cosimo, così come in Vulcano e Eolo educatore dell’umanità
(1495-1500), dedicò un vasto ciclo di opere, traendo ispirazione dalla lettura
di Vitruvio, al tema dell’artista come proto-artigiano.
4 per i disinformati e quelli che pensano ad una mancanza di semplicità:
l’Averno è un lago vulcanico presso Cuma circondato da pendii. Così chiamato
perché le esalazioni mefitiche non permettevano la vita degli animali (dal
greco Aornos senza uccelli). Nelle sue vicinanze era l’antro della Sibilla
Cumana e, secondo la leggenda, l’ingresso dell’Oltretomba. Ben presto l’Averno
passò ad indicare l’Inferno in genere.
5 Cfr. Il Manifesto di Basmina, olio su lino e stampa laser, cm 177x128; le
parole invece sono tratte dalla parte scritta dello stesso Manifesto, che
risale all’ottobre del 2003, pubblicato sul sito www.eadessovediamo.org.
6 Jean Baudrillard, Pour une critique de l’économie politique du signe, tr. It.
Mazzotta, Milano, 1974, p. 90.
7 Dame romane, Parigi, 1968.
Opere pubblicate: Biquinis (1999), Seattle (2000), Nina(2002), Suns shadow
rising (2002), Hurricane Camille (2002), Il Manifesto di Mahjabina (Overflow's
Venus manifesto) (2004), Sesto sole (2004), Settimo sole (2004), Link’s baby
link (2004).
CARLO FABRIZIO CARLI, ”Nel segno della pittura”, catalogo della 46° Mostra
Nazionale d'Arte Contemporanea - Premio Termoli (23 luglio - 26 settembre) - De
Luca Editori d'Arte, Roma 2004.
“ La formula adottata per questa 49" edizione del "Premio
Termoli" (più esattamente, della Mostra Nazionale d'Arte Contemporanea che
dell'antico e glorioso premio integra e prosegue la tradizione) - che, in
concreto, consiste in una proposta di sedici artisti giovani (tutti entro i
quarant'anni di età), operanti sul versante della pittura d'immagine -,
presenta un aspetto di esplicita singolarità. Non certo per il fatto di
associare giovani artisti al ritrovamento di una pittura di iconicità figurale;
accostamento che, a ben vedere, non soltanto non offre motivo alcuno di
sorpresa, costituendo anzi uno degli indirizzi più significativi dello scenario
della creatività estetica attuale. La singolarità consiste piuttosto nella
localizzazione geografica della mostra; nel fatto che essa si tenga proprio a
Termoli, città che da mezzo secolo - grazie soprattutto alla guida lucidamente
coerente di Achille Pace, a suo tempo, proprio a Termoli, fondatore, è appena
il caso di ricordarlo, dell'ormai mitico Gruppo Uno - si è andata qualificando
(e ne fa testo eloquente la pregevolissima Galleria Civica, che dal premio è
nata, e che dello stesso costituisce il durevole retaggio per la città) come
uno dei luoghi deputati a testimoniare i percorsi della ricerca aniconica in
Italia, così pittorica che tridimensionale. In questa occasione, il
tradizionale scenario del Premio Termoli si dilata così, significativamente,
per lasciare il campo alla pittura d'immagine. Una scelta che richiede alcune
precisazioni e qualche intervento di messa a fuoco. La prima riguarda l'impiego
stesso del termine pittura, che la diffusa pratica delle contaminazioni di
tecniche e di linguaggi non rende più scontato e istintivo, come in passato.
L'univocità di linguaggio della tradizione si è trasformata in gremito
pluralismo. Pertanto, parlare di pittura oggi, significa riconoscere la
perdurante autonomia e l'individuabilità dell'atto del dipingere (così come,
parallelamente, si potrebbe dire del fare scultura), e dell'oggetto estetico in
cui esso tradizionalmente si concretizza (il quadro). Sulla pittura ha gravato
a lungo l'accusa di essere secondo la proverbiale formula che Arturo Martini
aveva coniato per la scultura, intesa invero come statuaria — una lingua morta,
che avrebbe già detto tutto il possibile, e ormai esaurita la sua capacità
espressiva. In breve, nessuno mette in dubbio la perentoria capacità espressiva
e seduttiva dell'immagine; ad essere messa in dubbio è invece la capacità della
pittura di interpretare adeguatamente l'immagine. E di evitare le secche fatali
del deja vu, specie quando si ha l'impressione (o la tentazione di ritenere)
che tutto in pittura sia stato già detto. Ma, del resto, anche sul versante
esistenziale tutto è stato già vissuto, eppure la vita torna a riproporsi
costantemente come un'avventura sempre nuova. A un pregiudizio ancora
(incredibilmente) diffuso, riguardo la carica innovativa e progressiva,
intrinseca ai vari linguaggi artistici, si deve la vulgata secondo cui la
pittura d'immagine risulterebbe più tradizionale, meno dinamica e proiettata
verso il futuro rispetto ad altri percorsi ed esperienze. Pregiudizio non
soltanto destituito di ogni razionale fondamento; ma che in determinati casi -
poniamo: nella riproposta odierna di taluni percorsi delle avanguardie storiche
- merita perfino di essere totalmente ribaltato. Perché, è vero, certa pittura
d'immagine può riuscire banalmente ripetitiva; ma è anche vero che si da poco
di così conservatore e retrospettivo, di così frustrante, di così francamente
noioso e inconcludente dei conati di una provocazione mancata; di un ostinarsi
a ripetere esperienze già fatte; a ripercorrere sentieri già esplorati ottanta
o novant'anni fa. E se l'accademia risulta sempre fastidiosa, occorre avere il
coraggio di riconoscere che la sua forma più fastidiosa è proprio quella che
svolge all'insegna dell'accademismo dell'antiaccademia e del gesto eversivo,
che non può neppure invocare a sua giustificazione l'alto livello tecnico
dell'antica. Così, se qualcuno vorrà ostinarsi ad affermare la modernità -
poniamo ancora - dei percorsi di marca neodadaista rispetto alla via della
pittura, si potrà in ciò anche convenire, ove il termine di moderno, di
modernità, vada inteso nella valenza di una storicizzazione già ampiamente
sanzionata, inerente alle spinte innovative dell'inizio del XX secolo - queste
sì motivate da una diffusa, al tempo, aspirazione alla verifica e al
rinnovamento dei linguaggi (ricordiamo il giudizio di Ardengo Soffici a
proposito dell'Almanacco Purgativo di "Lacerba" e più in generale
della vicenda futurista: "Nel nostro pensiero, esso doveva servire a
sbrattare il campo dai tanti pregiudizi, luoghi comuni, concetti incalliti di
serietà e degnità che l'occupavano e lo mortificavano come un cespugliame
d'erbacce parassitarie"} - quanto destituita di una carica propulsiva
nelle tarde riproposte nel contesto della presente condizione di postmodernità.
Quest'ultima da intendersi alla lettera come la condizione esistenziale e
propriamente culturale prodotta - appunto - dall'entrata in crisi irrevocabile
delle ideologie della modernità (dovendosi peraltro considerare il Post-modern
come vicenda ormai essa pure conclusa e, almeno in parte, metabolizzata).
Oltretutto, la pittura d'immagine ha la possibilità di fendere trasversalmente
la radicale contrapposizione di campo delineata da Mario Perniola ("L'arte
e la sua ombra", Einaudi, 2000) per l'arte contemporanea, tra
“celebrazione dell'apparenza” e “esperienza della realtà". Ovvero tra
un'arte che “ha focalizzato la propria attenzione sulle nozioni di distacco, di
lontananza, di sospensione e ha considerato l'attitudine estetica come un
processo di catarsi e di derealizzazione", e l'antitetica attitudine che
"ha conferito una speciale enfasi all'idea di partecipazione, di coinvolgimento,
di compromissione e ha pensato l'arte come una perturbazione, una folgorazione,
uno choc". Su questi scenari epocali così fortemente mutati, la pittura
d'immagine torna a coinvolgere, e non anziani nostalgici di scelte d'antan, ma
giovani e giovanissimi artisti, convinti che la pittura risponda ad
un'ancestrale esigenza espressiva, che ha accompagnato l'uomo in tutta la sua
vicenda, e che continua a svolgere il suo ruolo. Esigenza e ruolo che non
possono essere assolti in altro modo, e che l'abnorme inflazione degli scenari
visivi della società mediatica ha potuto modificare ma non inficiare. Anzi,
proprio tale sconfinato amalgama di immagin ripropone il ruolo ultimativo della
pittura, quale mezzo che riesce a vincere l'edacità erosiva del tempo e dell'inflazione
iconica, trasferendo l'emozione prodotta dall'attimo fugace in una dimensione
di permanenza e di validità universale. Non si tratta, beninteso, di esprimere
valutazioni sul ricorso alla fotografia, al filmato, al video, al computer e a
quant'altro possa intrigare i percorsi della creatività estetica contemporanea.
Come si diceva, nel corso di un secolo, lo spettro dei tradizionali canali
dell'espressione estetica si è dilatato in modo impressionante. Quello che
interessa è semmai puntualizzare che si tratta di linguaggi altri rispetto alla
pittura, cui dunque spetta un autonomo ambito di praticabilità; considerazione
tanto apparentemente ovvia, quanto frequentemente al momento disattesa, anche -
talvolta soprattutto - in grandi occasioni espositive pubbliche, che pure si
riterrebbero tenute istituzionalmente a garantire la pluralità dei linguaggi.
Nonostante che negli ultimi decenni il repertorio dei referenti culturali si
sia arricchito a dismisura, la pittura d'immagine resta vitalmente innestata
nel museo e nella storia dell'arte, come testimoniano in modo esplicito alcuni
dei pittori presenti in questa rassegna. In altri casi - come potrà verificare
il visitatore di questa mostra - tale ancoraggio appare problematico, se non
addirittura paradossale. In realtà, tutti abbiamo dei padri, ed è sacrosanto
coltivare le proprie radici, senza - per questo - che in esse ci si esaurisca
e/o si accetti di replicarle docilmente. E sufficiente scorrere il sintetico
spettro esemplificativo proposto da questa mostra per convincersi di come la
pittura d'immagine sia oggi innovativa e propositiva; di come essa abbia saputo
filtrare esperienze disparate, dalla sospensione metafisica al confronto con la
fotografia e il cinema; dall'assunzione di istanze concettuali, che risulta
oggi generalizzata; al caotico ma vitale melting pot mediatico in cui tutti
oggi siamo immersi; agli influssi del linguaggio pubblicitario e beninteso del
fumetto, cui va riconosciuto il ruolo di ispiratore e perfino di matrice
linguistica di molte esperienze, a livello internazionale, a cominciare
naturalmente dagli Stati Uniti e dalla Pop, da almeno un quarantennio a questa
parte…
…Adriano Nardi occupa in questa rassegna una posizione di confine, in quanto
egli opera associando pittura ed elaborazione digitale. Siamo insomma in pieno
registro di contaminazioni linguistiche. Eppure l'impressione è che in Nardi
sia ancora la pittura a mantenere il controllo, la regia dell'intervento. Non
si tratta, comunque, di una pura operazione astratta, formalistica, perché
l'artista romano introduce spesso nelle sue composizioni un forte
coinvolgimento politico. Sono comunque i volti femminili, trattati con cromia
squillante - che costituiscono il tema preferito di Nardi - a venire assunti
dall'artista romano a icona esemplare della contemporaneità…
Opere pubblicate: Straight fight (2004), Zelotalove (2003), Criss cross (2004).
LORENZO CANOVA, ”Immagini del XXI Secolo”, dal catalogo della collettiva presso
il Ministero degli Affari Esteri, Palazzo della Farnesina a Roma, tenutasi dal
giugno 2003 al luglio 2004
“...Adriano Nardi dipinge icone femminili che sembrano annunciare le coordinate
di una nuova coscienza collettiva, tramiti visivi per penetrare la
"matrice" metamorfica e fluttuante di una Sapienza nascosta...”
Opera pubblicata: Fight-line (2001).
LORENZO CANOVA, ADRIANO NARDI, scambio epistolare dal testo del catalogo della
personale “As straight as”, Galleria Maniero, Roma, aprile 2004
“Caro Lorenzo,
vorrei raccontarti qualcosa riguardo quella mia dichiarazione nell'intervista
pubblicata nel catalogo della mostra Vertical horizons del 2002:
…Preferisco l'applicazione del digitale come strumento di riorganizzazione
della comunicazione…
In questo senso i miei quadri già rimandavano al World Wide Web (ad esempio con
l'immagine di un evento dal mondo stampata sul fondo, l'ambiente in cui abita
la figura).
Una novità in questa mostra è che l'immagine da internet è diventata come una
mappa (di carta con le aste, che contiene anche una mappatura di un particolare
di pittura estratto dal piccolo ritratto e un simbolo alquanto esplicito, un
logo) su cui il quadro stesso è appoggiato fisicamente: Mapping Dora. Dora,
nome di donna e di uragano.
Nel quadro Sine direction tutti quei quadratini ripetuti sul fondo non sono
altro che la ripetizione continua di Mapping dora molto ridotta, allontanata ma
moltiplicata, un pattern ideologico, e poi vi è la fine del plotting, a
sinistra, che termina sul bianco della tela. Le donne abitanti sono ad olio.
The cut è la cesura, il laboratorio ed il silenzio. In quest'opera attraversata
da un segno cartesiano vediamo nella parte sinistra, nell'ambiente di rossi e
di lino, un accenno ad una piramide con il vertice troncato. L'abitante di
questo dramma è tratto proprio da un servizio di moda tra i più famosi
grattacieli di New York, estratto da un settimanale la cui copia digitale su
tela è inserita (alla destra delle perpendicolari) sul fondo di una tela che
presenta un flebile accenno di linea nello spazio di un volto: la copertina
porta la data della sua pubblicazione, l'11 settembre 2001.
L'opera presente in questa mostra che credo rivolge agli sviluppi successivi,
l'ho terminata nell'agosto 2003. Superficie nuda e Pittura: Hiroglif.
A Milano, dove presentavo le mie opere intuite da te come 'segnali dei volti
geometrici', distribuivo uno stampato in forma di volantino in cui vi era la
immagine-montaggio del Quinto sole, e un piccolo link alla url del mio sito
(www.adrianonardi.com). Visitandolo, dalla home si va nella pagina Quinto sole,
come anche in quella de Il manifesto di Rachel, in cui vi sono dei link verso
temi che ho trovato (e scelto, per necessità e significativa associazione)
successivamente alla realizzazione dell'opera e al concepimento dei titoli, e
quindi al loro inserimento nei motori di ricerca. Con questa operazione ancora
una volta tento di afferrare la verità della comunicazione, legata ancora una
volta ai quadri.
Nuovo sole associato al 'Nuovo sole di Ginevra', articolo su una manifestazione
in quella città durante il G8 del maggio 2003: da quel sito sono linkati tutti
i siti di informazione alternativa (Indymedia), distribuiti geograficamente in
tutto il mondo, divisi per continenti.
Il quarto sole, quel quadro il cui volto di donna porta un disegno a forma di
croce e sul braccio un logo della pace, si è subito associato ad una intervista
a Gianni Riotta sul Quarto potere e la scuola di giornalismo americano, che
descriverebbe la verità e libertà di stampa.
Quinto sole, il titolo dell'evento al Flash Art Fair a Milano, è associato ad
un articolo di Ignacio Ramonet da Le Monde Diplomatique intitolato appunto 'Il
quinto potere'. Afferma che con la accelerazione della globalizzazione
liberista il quarto potere è stato svuotato del suo significato, e quindi è
necessario un quinto potere che denunciando il superpotere dei media, dei
grandi gruppi mediatici, affermi il diritto dei cittadini ad una informazione
rigorosa e verificata esercitata da una responsabilità collettiva.
Nella pagina Il Manifesto di Rachel, dal sito si accede a due link. Il primo:
un articolo sulla tragica storia della pacifista americana Rachel Corey, che è
stata investita e uccisa con un bulldozer nel 2003 mentre tentava di interporsi
ad una azione di demolimento di una abitazione palestinese. Con il secondo link
voglio contribuire anche io a dare voce ad una delle sue ultime lettere dalla
Palestina, la quale è molto pubblicata e linkata su Internet.
Per Vasto e Milano hai scritto: "…Le donne che Nardi mette spesso al
centro delle sue opere, costituiscono dunque la chiave per entrare all'interno
della sua "matrice" visiva, per penetrare i suoi codici simbolici
rinchiusi nella veste accattivante di una raffinata eleganza formale…",
ancora una tua giusta intuizione.
Il nickname che ho scelto per il mio indirizzo di posta elettronica è proprio
xirtam, l'inversione di Matrix. L'omonimo film fu tra l'altro, credo per molti,
un raccontato luogo di riflessione su realtà e virtualità (pensiamo ad esempio
ai livelli di realtà tra loro collegate) oltre ad avere portato una estetica
innovativa nel cinema…
AS STRAIGHT AS è il titolo della mostra.
Adriano Nardi
Disegno de Il quarto sole (2003) pubblicato come sfondo della pagina.
Caro Adriano,
penso che la tua arte nasconda un fondo di ambiguità: la tua pittura è
indubbiamente basata su un’iconografia quasi patinata e avvincente, ci mostra
donne bellissime dipinte con colori lucenti e accattivanti, non disdegna di
rubare immagini e spunti dalla pubblicità e dalle riviste di moda per creare
quadri che si presentano con una forte capacità di seduzione e di attrazione.
Così mi chiedo ancora se la fascinazione che le tue opere emanano così
spudoratamente non nasconda qualcos’altro, e tu mi conforti dicendo che le tue
opere sono “impegnate”, che in quelle immagini di perfetta bellezza femminile
si nascondono precisi messaggi politici che cercano di metterci in guardia dai
pericoli del potere mediatico, che nascono come avvertimenti contro i rischi
della globalizzazione selvaggia, contro la ferocia e la logica distruttiva
delle guerre, con una serie di “corretti” riferimenti che dovrebbero riscattare
la tua “impura” compromissione col “nemico”.
Amico mio, infatti tu sai bene che usando quelle immagini ti sporchi le mani
con il mondo della moda e del mercato selvaggio che spesso fa tessere le stoffe
pregiate indossate dalle tue modelle a donne o a ragazzini sottopagati con uno
“stipendio” di pochi centesimi al giorno.
Però tu, per fortuna, non sei uno di quegli artisti che ci fanno continuamente
la morale anticapitalista per poi farsi sponsorizzare dalle stesse case di moda
che producono a bassissimo costo nel Terzo Mondo grazie ad uno sfruttamento
privo di scrupoli della manodopera locale: la tua ambiguità è differente e ben
più sottile.
Mi parli di Matrix, e io quando ho scritto di “matrice” nel testo che tu citi
ricordavo benissimo il nickname della tua posta elettronica, ma tu sai meglio
di me che il padre della sospensione tra reale e virtuale di quel film non è
altri che il nostro caro Philip Dick, lo scrittore di fantascienza a cui
abbiamo dedicato una mostra che ha avuto una grandissima “comunicazione” ma
che, in realtà (e non a caso), è rimasta soltanto “virtuale”.
Così, come nei capolavori di Dick, nelle tue opere il confine rimane sempre
incerto: non sappiamo mai se ci troviamo dalla parte giusta e, soprattutto,
dalla parte “vera”.
In questo senso le tue inquietudini sulla “comunicazione” e sull’informazione
sono più che fondate ma mi chiedo se tu non stia facendo un lavoro di
“controinformazione” ancora più raffinato portandoci a credere ai tuoi messaggi
di pace e di giustizia.
Tu sai bene che le opere più profetiche e “deliranti” di Philip Dick sono
fortemente influenzate dallo gnosticismo, da quel pensiero dove il legame tra
il Bene e il Male è indissolubile e addirittura necessario per raggiungere la
salvezza finale: così nelle realtà parallele (le “matrici”) di Ubik lo scontro
tra i due Princìpi contrapposti è destinato a protrarsi sino alla fine dei
Tempi.
Così penso che il tuo lavoro, nella sua apparenza più accattivante, non
disdegni una strizzatina d’occhio al mercato, ma che, allo stesso tempo, nella
sua radice “ultima” e profonda, nasconda anche un senso quasi platonico e
archetipo di spiritualità.
Non a caso, il cyberspazio, in cui molti individuano il territorio della
conoscenza collettiva, potrebbe essere un luogo adatto a racchiudere
l’Iperuranio della società digitale, e, del resto, anche Matrix (che ha
generato molte mode “commerciali”) è un film pieno di allusioni escatologiche e
profetiche.
Così, caro Adriano, mi chiedo se la bellezza da copertina delle tue ragazze, in
fondo, non cerchi di essere il riflesso di una bellezza “superiore”, la traccia
dipinta per un cammino visivo diretto verso il centro definitivo della
Sapienza.
A proposito, hai mai intitolato un lavoro Sophia?
Lorenzo Canova
Disegno del Terzo sole (2003) pubblicato come sfondo della pagina.
ADRIANO NARDI, “As straight as”, statement dal testo dal catalogo della personale
alla Galleria Maniero, Roma, aprile 2004
“Il quadro è il link del mondo. La pittura può essere considerata come il più
raffinato e lenticolare dei ready-made. Della pittura mi interessa la verità,
non intesa come mimesi, bensì come oggettivo avversario della menzogna, del
nascondimento, dell'occultamento. Nel corpo del linguaggio, ciò che racconta,
ciò che è letterale, nasconde. Ciò che è ambiguamente installante,
apparentemente incomprensibile, avvicina ancor più alla verità dell'oggetto, e
quindi dell'opera. Ecco che ogni soggetto che metto nel campo visivo, come
significante figurale, non è altrimenti possibile se non come meta-agente per
la emancipazione aurea del quadro. Figure dal mondo, azioni, eventi e stasi,
accompagnano il senso e il movimento dell'opera pittorica. Ecco perché la
politica non deve farci paura, non è antagonista al nostro pensiero politico
dello spettatore. Essa, la politica, i suoi stilemi, i suoi dinamici germogli,
formano non altri che il quadro. A noi è richiesta solo una misura di
attenzione per l'altro, per la pittura in se performante, per il mondo in sé
costituente.
Cosa proviene dal virtuale, cosa proviene dal reale.
Lo strumento digitale mi ha permesso il collegamento visivo tra l'infinitamente
grande e l'infinitamente piccolo. Con lo strumento del WWW è possibile ottenere
le immagini del cosmo astrale e delle persone più lontane, come quelle degli
eventi sociali, politici, scientifici, del corpo e del costume, della natura.
Con lo strumento dello scanner è possibile incontrare ed ottenere una immagine
delle cose lenticolare, una visione verso l'interno della materia, grazie alla
fotografia a mappa, punto per punto, degli oggetti che posiamo sul vetro dello
strumento. La materia appare nella sua oggettività penetrabile, membrana-porta
di un mondo più piccolo, da conoscere e rispettare. (13 marzo 2004)
Cosa è stampato, cosa è dipinto.
E' stampato lo spazio, il sistema, il dramma, l'istanza. Questi formano
l'ambiente.
E' dipinto il corpo, penetrato dalla luce, abitato dal colore.
Legante di questa mostra è forse un ponte spazio-temporale.
Tra materia e superfici, tecniche e loro senso, colore e luci di
attraversamento, ecco gli sproni della sua visibilità: un naturale movimento,
la grande onda e la lunga risacca (surf). L' immagine di questa mostra si fa
geometricamente chiara nella continuità del lavoro che va dal biennio che
precede la mostra Vertical Horizons e questa parte di lavori, realizzati nel
biennio successivo. Una andata verticale e un ritorno orizzontale. In questo
disegno cartesiano ho inevitabilmente liberato il caleidoscopio dell'anima.
Mentre dipingevo l'ultima opera (Mouse&lisa) per la personale inaugurata
nel febbraio 2002 , nel settembre 2001, si manifestava la Tragedia delle Twin
Towers.
Straight
Come la materia ha reinvaso il suo spazio, riconquistando la drammaticità del
caso reale.
Come la geometria della linea, si è fatta più cruda, più retta.
La retta, su una grande superfice, delinea una curva.
Una retta, in ogni sua più piccola porzione, è irregolare e crea delle piccole
insenature.
Il corpo (pittura libera), e l'anima (Rgb).
La materia grossa della pittura gestuale, segnica, dalle tensioni ingrandite,
forma parti di un corpo. Lo stesso corpo contiene in certe zone un'altra scala
di mìmesi lenticolare.
Zone di monocromìe idealmente semplificate ed organizzate, non prive di
micro-libertà interne, piccoli tessuti informali, trasparenze, mute superfici,
tagli, gradualità: necessarie sfumature espressive della dimensione naturale.
Nel simbolismo dell'opera, la struttura cromatica è complementare a quella
geometrica.
Destra, sinistra e centro, sono immediatamente invertibili se tale simbolismo è
esteso su un corpo. Per il corpo, la destra che vediamo, appare in modo
endogeno, a sinistra. La sinistra appare alla sua destra interna.
Le linee curve si fanno disegnare dall'esterno, dalla luce e dal cielo.
Le linee rette si fanno disegnare dall'interno, dall'ideale e dallo spirito.
Ho davanti a me un corpo che dipingerò, interpretandolo prima con linee di
disegno manuale. Quasi come per un autoritratto, ne intendo la sensazione
interiore, nella luce e nello spazio, e percepisco curve di un movimento
ambientale, eczemi del vivere sensazionale. La necessità simbolica, a volte, è
invece preponderante, e definisce linee rette, impassibili, come tatuaggi
immolatori.
La linea, dunque, si situa al centro dell'essere, del corpo rappresentato come
dell'artefice.
La preparazione della tela.
Olio di lino nel lino.
L'andatura della trama del tessuto.
Tendere la tela.
La tensione del piano visivo.
Il rispetto per la materia.
Preparo personalmente la tela su cui dipingo con l'antica ricetta: gesso di
Bologna, colla organica e olio di lino, che stendo con più mani, avvicinandomi
gradualmente all'ultimo strato più sottile e liscio, con la giusta assorbenza
per la pittura. Se uso una tela industriale, vi applico a pennello, almeno una
stesa di preparazione artigianale.
Ecco lo spazio, come il bianco della carta, con quella sua luce organica ed
assoluta.
Nel catalogo della mostra 'Luoghi comuni' (1), Gabriele Perretta sottolinea il
problema dell'impossibilità della rappresentazione, o della ragione della sua
possibilità, alla luce degli interventi nell'ambiente già operati in America a
cavallo tra gli anni '60 e '70 dai land-artisti. La questione ravvena
quell’idea sottesa nel mio lavoro recente, che era costitutiva delle piramidi
tronche, quelle strane cellule con la pittura viva all'interno, di cui le
ultime ho presentato alla personale Antipop al Museo Laboratorio della Sapienza
di Roma nel 1998. Questi oggetti organici dello spazio, organizzavano
concretamente l'idea di una porzione di natura (post-utopica e
post-performatica) rappresentata dal cotone profumato dal suo odore naturale,
che ho inamidato, disegnato e tagliato, in una forma che potesse accogliere uno
spazio di rappresentazione ed immaginazione pittorica ed allo stesso tempo
potesse apparire auto-strutturante. Generante una cellula che nello spazio si
organizzi, senza la forza invasiva di una architettura, ma con quella idea di
un equilibrio possibile, di una sopravvivenza sostenibile secondo un rispetto
della propria sostanza, da parte della sostanza dell'ambiente che la accoglie e
contiene, e che non la intacchi. Allo stesso modo in cui essa si espone ed
abita, senza colpire, ma ambientandosi, muovendosi con assorbenza di materia,
per una riflessione morbida. Cotone, amido e olio, gustosi elementi del
paesaggio; elementi di immagine che formano ipotesi visive, auto-sostanziali e
non storico-culturali. Ecco, allora, simboli radicali, naturali, geometrici
percorsi, energie percettive. Questa particolare concezione e qualità di quelle
mie opere, concentrava l'idea e la sostanza del paesaggio, come porzione della
Natura nell'Opera come organismo. Fin qui la mia interpretazione ecologica
della tecnica artigianale e dei suoi materiali. Fino all'uso delle prime stampe
digitali: da li in poi ecco l'interpretazione della nuova natura della plastica
poiesi che accetta conflittualmente, discorsivamente, poi neo-umanisticamente,
la sostanza chimica, impura-complessa-transindustriale, dell'oggetto naturale
artistico. Continuando a leggere e ancora riflettendo, penso al mio lavoro
futuro e credo (come già in anni accademici e contemporanea-mente) che l'idea,
la sfida, la visione, l'intuizione, la veggenza che anima e potrebbe animare il
fare consapevole dell'arte è attraversato dal concetto spaziale di SCALA. Sento
che l'uscita da un progresso fallimentare, debba attaccare e costituire una
estetica delle proporzioni della Materia. Ho voluto dichiarare quest'istanza
che mi ritorna ancora una volta esplicita, con l'opera che ho presentato al
XXXVI Premio Vasto dal titolo: "Il Manifesto di Basmina (Minimal Divide
Manifesto)". L’opera è accompagnata dalla stesura de: Il Manifesto di
Basmina, per un divario minimo, già pubblicato nel numero 1 di
www.eadessovediamo.org
(1) - Romberg, Latina, pubblicato in occasione della mostra di Guerrera nel
settembre 2002, pag. 22. Micropittura, SCALA di Pittura.
Pittura come porzione di storia in SCALA di riduzione
misurata alla microstruttura dei tessuti e fluida nei corpi.
Corpi di pianeti in sistemi solari.
Soli di sistemi di luce per i corpi, sui corpi, nei corpi.
Adriano Nardi ”
Opere pubblicate: - in copertina - Hiroglif (2003), - seguono all'interno -
Mapping Dora (2002), Cherub (2002), The cut (2002), Sine direction (Il seno
selvaggio) (2003), Zelotalove (2003), Nuovo sole (2003), Terzo sole (2004), Il
quarto sole (2004), Il Manifesto di Rachel Corey (2004).
GABRIELE PERRETTA, “Media.comm(unity)/comm.medium, divenire comunita oltre il
mezzo: l'opera diffusa”,Mimesis editore, collana Dogville, Milano 2004
Dal capitolo a cura di Anonima-di-chì-si-lu-son
"Anonima-di-chì-si-lu-son è una community che è nata grazie al progetto di
un collettivo artistico romano abruzzese, il quale ha pensato bene di indagare
sulla
tautologia stessa dell'anonimato, ovvero su quella riserva di dispersione
contenuta nell'idea stessa del "non so chi è, non so quale identità
ha". Lo scopo di questo laboratorio è quello di far frizionare le opere
della pittura, della fotografia e degli altri media con il senso totale di
un'immagine che appare come icona, ma che si rivendica come concetto.
Trovare un percorso possibile all'interno del mondo delle forme e delle
immagini della medialità significa orientarsi in un labirinto di linee e
contorni, di superfici e di abissi, di modelli e di metamorfosi. Qui lo scopo
dell'immagine - che si presenta come "diffusa" - è quello di rimbalzare
dalle fonti più disparate dei media e disperdere i suoi segnali in un coro di
voci dove molto spesso non è facile ricondurre autore e identità dell'opera al
singolo nome prefissato o al singolo genere. Di conseguenza lo spettatore è
portato più a riconoscere il soggetto dell'opera che non il soggetto che fa
l'opera.
La comunità di Anonima ha provato a collegare ed a flettere senza alcuna
dispersione artisti come Cascavilla, De Luca, Demelio, De Noia, De Paris,
Isaac, Nardi, Spoletini, cercando di coniugare l'esperienza e la cifra
dell'immagine mediale ormai consolidata con una forma di astrazione
coinvolgente che, pur non spostandosi dalla medialità, prova ad inventare un
moltiplicatore di segni che vada oltre l'accademismo.
Ne esce fuori quasi un quadro figurale, ma anche astratto-concettuale
dell'immagine, che si presenta ampio e sfaccettato come una infinita
riflessione sulle forme e i simulacri a venire."
Opere pubblicate: Sine direction (Il seno selvaggio) (2003), Il Manifesto di
Mahjabina (Minimal divide manifesto) (2003), Nuovo sole (2003).
GABRIELE PERRETTA, “Media.comm(unity)/comm.medium, divenire comunita oltre il
mezzo: l'opera diffusa”, comunicato stampa della mostra e convegno al Museo
d’Arte Contemporanea Masedu, Sassari, febbraio-giugno 2004
“Questa mostra ha come idea centrale la convinzione che i soggetti che
collaborano alla costruzione del materiale artistico hanno, ormai da tempo,
assunto la tendenza a mescolare diverse esperienze e diverse identità, facendo
circolare tutti i saperi, artistici e non, uno nell'altro. Da qui le comunità
latenti e le community manifeste; da qui la mente diffusa e la generalizzazione
di qualsiasi applicazione estetica. Entro i manufatti, le visioni del mondo,
dei luoghi e dello spazio, attraverso le immagini e la scrittura, gli stili, i
generi, le architetture e le tendenze, operano, si intrecciano e mutano
continuamente significato contesti e pretesti diversi. Le comunità divise e le
dispersioni a venire sono in accordo ma più spesso in contrasto le une con le
altre, si vedono insieme e si sentono distanti, si vivono provvisorie e
durature, interagiscono con loro stesse e con l'ambiente, il sapere, il senso
comune e le emozioni. È come se le tracce di un lavoro, apparentemente
individuale e totalmente filtrato dai rimbalzi dei media, declamassero: “the
most migratory things in the world”.
In effetti, mentre da più parti si fa avanti l'ipotesi di un'eclissi delle
forme di aggregazione e di una rinascita del sentimento del genio
individualista e proprietario, si può dire che nessuna questione ritorna al
centro del dibattito sul simbolico tanto quanto quello della comunità
artistica. Nel dissidio contemporaneo, quando si costruisce l'opera, la comm.
non è un contrasto da difendere ma un vuoto, un debito che ogni operatore ha
nei confronti dell'altro. Ogni segno (o di-segno) artistico sembra ormai
costituito da un'altrui potenza, un'imprescindibile alterità di noi stessi.
A partire, dunque, da alcuni esempi chiave del lavoro delle art community
internazionali , la mostra Media.comm… non vuole desacralizzare solo il
concetto di opera, né quello di artista ma, criticando il famoso slogan di M.
McLuhan il medium è il messaggio , vorrebbe dimostrare che il medium è la
comunità e l'arte, dissolvendosi nella vita quotidiana, già ai tempi di Kurt
Schwitters, aveva già superato il mezzo, scegliendo l'ambiente e la comunità
non come un'effettualità, ma come un soggetto delle cause. È la comunità stessa
nella sua fattualità che non impone più un modello linguistico o il progetto di
un'opera, ma un'operatività diffusa, che usa qualsiasi mezzo e quindi realizza
volontariamente un'opera disseminata, spesso mescolata tra gli strumenti e i
messaggi della medialità che ormai giacciono fusi nel sociale. In altri
termini, qui la sostanza delle community è presa alla lettera, essa esprime una
virtuale condivisione volontaria, una deliberata pratica di vita in comune, una
“prestazione aperta” tra individui che instaurano delle relazioni reciproche,
basate sulla condivisione di valori e sullo scambio di codici di accesso ad una
rete infinita di cognizioni tecniche e non.
In questo concetto di collettività (in questo divenire community ) rientrano
tutte le espressioni artistiche e tutte vengono completamente azzerate ma
anche, paradossalmente, potenziate: la pittura, la scultura, l'architettura,
l'installazione, la fotografia, la musica, il cinema, il video, le televisione
e la rete. Qui, ben presto si scopre che ormai già da un bel pezzo all'interno
delle pratiche comunitarie la forma della non-opera ha preso il sopravvento, è
considerata prioritaria. Ora, nella sua urgenza, anche il soggetto non appare
centro (genio) assoluto dell'operatività artistica, ma l'altissima importanza
dell'individuo e della sua identità stilistica è gestita all'interno di una
partecipazione sparsa.
Ma questa esposizione, a partire da simili presupposti, cosa riesce a proporre
al grande pubblico? Diciamo che essa offre la possibilità di ricostruire
l'evoluzione dell'opera dei gruppi artistici degli ultimi anni. Si ritorna a
riflettere sui temi dell'impresa collettiva per affidare a tali esperienze una
funzione di monitoraggio sui mutamenti dello scenario artistico internazionale.
Il rapido sviluppo tecnologico degli ultimi anni induce a imbattersi in nuovi
problemi ed a sviluppare nuove strategie per affrontarli ed interpretarli. Che
cosa è accaduto? Perché la figura dell'autore ha mutato significato. Siamo in
grado di scoprire la ragione di questo nuovo disagio, osservando l'ambiente e
il gruppo sociale in cui lavora l'artista, perché se lo sfondo in cui l'autore
agisce è in trasformazione, è in metamorfosi anche il suo ruolo. Possiamo
capire l'arte del futuro se ci addentriamo in una nuova idea dell'autore. Gli
esempi di artisti che circolano in comm.medium metteranno in guardia sui
problemi che pone la nuova condizione artistica. Infatti, l'itinerario
espositivo della art.Comm. vuole fornire un utile raggruppamento delle
questioni trattate e poni in evidenza i nuclei problematici della filosofia dei
gruppi. Infatti, seguendo la mappatura disegnata dalle sezioni di tutta la
mostra, i visitatori non solo potranno acquisire un'esperienza diretta della
gamma crescente che l'estetica delle comunità rimanda, ma anche le suggestioni
che interagiscono con essa. “
BRUNO DI MARINO “Sui Microdipinta”, testo critico pubblicato su
www.adrianonardi.com , febbraio 2004
“Quando nel XIX secolo la fotografia ha fatto la sua comparsa sulla scena delle
arti, molti pittori hanno cominciato a temere per la loro sorte. In realtà il
nuovo medium ha avuto il merito di svecchiare la pittura, affrancandola
dall'obbligo del realismo e contribuendo alla graduale affermazione
dell'astrattismo. Oggi il video e la fotografia digitali non rappresentano più
una minaccia millenaria come allora, ma – ancora una volta – una nuova
possibilità di trasformazione del linguaggio. A distanza di oltre 150 anni la
pittura è ancora viva e vegeta, anche se non può sottrarsi alla necessità della
sfida tecnologica.
Lo ha capito molto bene Adriano Nardi che, già da molti anni, esplora le
infinite combinazioni di un confronto tra pittura manuale tradizionale e stampa
digitale. Per l'artista le due tecniche, i due linguaggi, non sono affatto in
contrasto tra loro, ma concorrono semmai a rendere più complessa e affascinante
la percezione dell'immagine finale, nonché la lettura e l'interpretazione del
quadro. Nardi parte solitamente da un'icona preesistente, da una fotografia
pubblicitaria, da un ritaglio (anche molto piccolo) di giornale, trasformando
l'immagine in pittura ad olio – secondo un'estetica del prelievo che, anche
cromaticamente, si avvicina alla Pop Art – o rielaborandola al computer per poi
stamparla su tela o su supporto fotografico incollato su alluminio.
Successivamente, l'artista può dipingere ulteriori elementi (solitamente una
figura) o negli spazi lasciati in bianco della composizione digitale, o
direttamente su di essa. La texture elettronica, diventa così lo sfondo
virtuale su cui stendere pennellate reali intrise di colori vivaci. La
superficie stampata e lo strato pittorico, convivono in un intarsio
frastornante e caleidoscopico. La realtà scomposta, solarizzata, deformata,
ridotta in pixel dalle tecniche digitali, dunque resa astratta, si confonde con
la figurazione pittorica all'interno di un'unica trama, davanti alla quale lo
spettatore ha difficoltà a distinguere i due tipi di intervento, quello manuale
da quello numerico. Come la pittura elettronica simula la materia pittorica e
in alcuni casi la stampa digitale riproduce la pennellata dell'artista, così
anche i colori ad olio da lui scelti si avvicinano ai toni acidi dell'immagine
RGB televisiva o computerizzata: il rosso, il verde e il blu primari che
riuniti insieme costruiscono la varietà dello spettro catodico.
La sua nuova serie di quadri Microdipinta, rappresenta per Nardi l'inizio di
una nuova fase. Se il materiale di partenza restano – come suggerito dal titolo
della serie – riproduzioni fotografiche molto piccole, quasi tutte di volti
femminili, su cui l'artista imprime il colore con le dita o con un pennellino,
il risultato finale stavolta è unicamente il plotter digitale, ottenuto
dall'ingrandimento dell'immagine originaria ‘ritoccata’ pittoricamente. Senza
rinunciare all'orgia cromatica che contraddistingue la propria estetica, Nardi
riduce all'essenziale i termini dell'intervento. Per esempio in Microdipinta
III (2002) l'artista si limita a piccole pennellate rosse sul volto di una
donna giapponese; uno scarabocchio sulle labbra è il suo modo di negare e al
tempo stesso di appropriarsi dell'eros di tale icona. In Microdipinta II - The
Flag (2001) è l'unico caso in cui l'artista utilizza una fotografia in bianco e
nero, fortemente sfocata (l'immagine va infatti vista a un certa distanza per
godere i lineamenti del volto), che riproduce metà del volto di una donna; al
di sopra dell'occhio ecco espandersi una grossa macchia di pittura, color
sangue secco, una sorta di ferita che rende questo volto ancora più
inquietante: se non fosse per la bocca sensualmente semiaperta, la donna potrebbe
essere morta. In altri quadri della serie l'intervento pittorico è
indubbiamente maggiore, e predomina solitamente il rosso, uno dei colori che
rende di più con la stampa digitale. Per esempio Microdipinta X – Grande sole
(2002) riproduce in orizzontale un volto ravvicinato su cui l'artista ha
impresso le proprie impronte digitali impastate di rosso. Di dimensioni molto
più ridotte (41x32) sono Microdipinta XXVI (2002) o Microdipinta XXVII (2004),
dove il volto femminile è cancellato dalle pennellate o tagliato fuori dai
bordi del quadro, ma proprio per questo a dominare è lo sguardo, un occhio che
implacabile cerca lo spettatore, come un corpo umano sopravvissuto alle macerie
di un terremoto. In altre composizioni il volto femminile diventa elemento vegetale
(fiore) o animale (farfalla), grazie al colore che l'avvolge e rifluisce come
un'onda.
Nei Microdipinta la pittura non è (non fa) più materia, non sopravvive più come
elemento vivo sulla superficie stampata. E' un tocco cristallizzato,
imbalsamato, quasi sottovetro. Ri-prodotto fotografinumericamente. Nardi
riporta le due trame a un unico livello. Ma l'osservatore continua ad essere
ingannato, ad illudersi che sia la pittura a dominare, a dire l'ultima parola.
Teoricamente è la pennellata ad essere assorbita nella trama piatta della
riproduzione digitale, ma concettualmente è ancora lei a dare il senso ultimo
alla figurazione, a infondere all'immagine un'atmosfera, a donargli una
possibilità narrativa. Il volto di donna con una ferita sulla testa (Microdipinta
II) è quasi un fotogramma di film noir, un'immagine carica di attese, sospesa
tra un prima e un dopo.
Ma qual'è il prima e quale il dopo di questa pittura? Il prima è il piccolo
formato fotografico, il dopo è l'ingrandimento. Il prima è la pennellata, il
dopo è la riproduzione di essa. In mezzo c'è un processo di rielaborazione che
conduce dal fotografico al pittorico e dal pittorico nuovamente al fotografico.
Ma la pittura, nonostante diventi ontologicamente solo un segno tra i tanti
inglobato nella dimensione numerica, fa ancora la differenza. Opera ancora uno
scarto, illusorio se vogliamo, ma capace di ricordarci che la forza emotiva e
linguistica di una pennellata non viene offuscata, bensì si riverbera e si
rinnova nell'immaginario della figurazione digitale.”
ALESSANDRA MARIA SETTE, “Microdipinta”, comunicato stampa della personale al
Teatro Sala Umberto a cura di, Roma, febbraio 2004
“Artista coerente e determinato, Adriano Nardi si dedica alla pittura da
parecchi anni, esplorando le molte possibilità oggi offerteci dalle nuove
tecnologie, sempre al fine di applicarle al discorso pittorico. Con i lavori di
Nardi, la pittura torna finalmente a farsi vedere, a far parlare di sé, a
imporsi sulla serialità tipica del prodotto tecnologico attraverso un sottile
ed efficace gioco concettuale. Le micropitture, infatti, nascono da una
fotografia sulla quale l’artista introduce, anzi impone, la sua corposa e
decisa pennellata. Il tutto viene poi ingrandito con tecniche digitali, per dar
vita ad una differente scala di proporzioni, che a sua volta stimola lo
spettatore ad una riflessione più attenta. Tale modo di procedere
nell’elaborazione delle opere, da una parte ci fa chiedere con curiosità di
quale tecnica si tratti, dall’altra ribadisce la sostanziale centralità e
insostituibilità della pittura. Sotto il gioco accattivante della pittura
gestuale e sintetica si nasconde un più profondo ed importante meccanismo
concettuale: la tecnologia ha provato ad uccidere la pittura ma quest’ultima si
è fatta beffa della precedente, non ignorandola, non rifiutandola, ma
rendendola strumento sul quale imporsi nuovamente e riaffermarsi come uno dei
più sinceri linguaggi artistici. Anzi, la mutazione di scala che Nardi realizza
con i suoi lavori, e che è fondamentale per il suo discorso pittorico, è
possibile proprio attraverso le tecnologie che abbiamo oggi a disposizione.
Egli stesso afferma “…preferisco l’applicazione del digitale come strumento di
riorganizzazione della comunicazione”. Ecco dunque che, accanto al soggetto
scelto e alla composizione, anche la tecnica diviene protagonista. La
micropittura sceglie la figura femminile per concretizzarsi, donne da rotocalco
prese in prestito da riviste e foto di moda, novelle Muse, artefici e compagne
dell’ispirazione dell’artista. Ma è essa stessa, ovvero la pittura, che vuole
affermarsi, che “ri-organizza la propria visione. Ecco, dunque, la serie
MICRODIPINTA.”
LORENZO CANOVA “Occhio!”, catalogo della collettiva all’ex macello, Benevento,
dicembre 2003
“…le opere fluide e densissime di Adriano Nardi dove la cultura digitale si
salda al messaggio politico e dove la bellezza sembra divenire la dichiarazione
criptata di una nuova, possibile conoscenza collettiva …”
Opera pubblicata: Eyewall 1 (Arlene, Bret and Cindy) (2003).
CARLO FABRIZIO CARLI “Nel segno della continuità”, catalogo del II Premio
Nazionale di Pittura Ferruccio Ferrazzi, Sabaudia, dicembre 2003
“…ulteriore fattore di continuità risiede nel conservare all'iniziativa quella
formula di Premio di Pittura, che, come già rilevato nel testo che accompagnava
la prima edizione, non è formula neutrale riguardo le scelte estetiche
adottate, ma anzi comporta una elementare quanto fondamentale scelta di campo
nel quadro dei percorsi estetici della contemporaneità, per il fatto di puntare
esclusivamente sul linguaggio della pittura - e dunque prescindendo non tanto e
soltanto dalle elaborazioni plastico/tridimensionali, quanto da installazioni,
foto, video, computer/art e quant'altro -, ma operando, con ciò, un'ulteriore
opzione, quella di riconoscere nella pittura un linguaggio ancora chiaramente
identificabile come tale, non dissolto dunque da un ricorso sistematico alla
contaminazione linguistica...
...l'adozione di un tema, che era poi quello più istintivamente evocativo della
fisica ubicazione e della vocazione stessa della città di Sabaudia, vale a dire
il mare. Un tema proposto agli artisti nell'accezione più ampia e metaforica, e
quindi la più liberamente accostabile, ma che pure è venuto comunque a costituire
un ideale filo rosso, che le diverse poetiche e i differenti - spesso
diametralmente diversi - linguaggi, riconnette infine in un discorso, se non
unitario, certo quanto meno sequenziale e coordinato. Naturalmente alle diverse
poetiche e, in particolare, ai differenti linguaggi è stata chiesta un'aderenza
al tema di differente natura (se non di differente grado), che sarà quindi di
riscontro esplicito in caso di pittura d'immagine e, per quanto attiene alla
pittura non iconica, all'evocazione cromatica, di luce, di linee, di forme, con
le quali, comunque, la grande, ineliminabile fonte ispiratrice dell'artista, la
realtà fenomenica - la natura, infine - s'impone nell'opera, e questo, a ben
guardare, perfino nello stesso ambito concretista, che a tale influsso,
ideologicamente, aveva preteso di sottrarsi, aspirando all'ambito della
rigorosa elaborazione intellettuale…
…Adriano Nardi opera all'interno di quelle contaminazioni di linguaggi e di
tecniche dell'arte oggi ampiamente diffuse (ma che inizialmente costituirono
un'eredità dadaista), nel suo caso perseguite dipingendo ad olio su immagini
digitali. La tecnica, d'altronde, non è che lo strumento di una espressività
che nel caso di Nardi trova il motivo principale di interesse in un sapore
cibernetico, in un'associazione di umano e di tecnologico, di inquietantemente
metamorfico…”
Opere pubblicate: Ma(d)re degli ideali (2003).
GABRIELE PERRETTA, “Senaria – Sguardi, spazi e intenzioni dell’immagine ",
catalogo della mostra nella città di Terracina, presso la Sala Comunale M.R. de
la Blachére, Palazzo della Bonifica Pontina, Palazzo Tescola, agosto 2003
“…Il soggetto creativo, con il suo culto di imprenditorialismo rinnovato, ha
dovuto fare i conti con la fine del sistema di istruzione tradizionale e con i
nuovi sistemi di istruzione unificati ed universalistici. Nasce così una forma
sdoppiata di operatore artistico, che da una parte incarna il vecchio
"vate" e dall'altra è costretta a riprodurre la lezione del
ready-made di Duchamp: quindi dal vate passa al "water". Tutto ciò
può sembrare delittuosamente offensivo, ma invece vorrebbe dire che una parte
considerevole dei linguaggi alti cercano di assumere una porzione considerevole
dei linguaggi bassi ed a sovraccaricare il loro compito e la loro natura
poetica, trasformando letteralmente le grammatiche e le formazioni di pensiero
e di conoscenza. Il vero contenuto della società dell'informazione è tutto
dentro ai dati trasmessi da un satellite, ogni satellite, o meglio il 90% dei
dati trasmessi da essi sono l’interiors di una singola impresa.
Nei flussi transnazionali, che avvengono attraverso le reti di comunicazione,
si snodano le nuove tendenze sviluppate nelle e per le economie capitalistiche.
La storia delle singole compagnie multinazionali parlano anche la storia di
questo nuovo soggetto della comunicazione, che per un pezzo gioca a fare
l'artista alla Marsilio Ficino, e secondo il codice dell'Accademia dei Careggi,
e dall'altra si dissemina nella controfigura di questo artigiano poco ribelle e
molto integrato, che incarna I lineamenti a flusso dell'operatore della
comunicazione. Tutte e due queste figure non possono evitare di confrontarsi
con l'eclettismo post-moderno e con gli approcci demagogie! alla cultura che
impone il regime totale dell'onnimercificazione.
Alla fine di questo piccolo excursus, che vede sistemati in due poli
contrapposti l'immagine tradizionale ma moderna dell'artista borghese e la
figura controversa e combattuta del medialista - che eredita di più dalla
tradizione dell'ars medioevale che dal progetto fintamente progressista, ma
eterogeneamente religioso, dell'artista moderno e neo-platonico - tutto il
sapere dell'antichità e quello dell’Information & communication technology
si riversa nella forma di un'unica sinossi dell'immagine, ormai straboccante
dopo una quantità incredibile di manifestazioni fenomeniche e storiche.
Quest'immagine è all'origine di un ampio ventaglio di questioni che investono
categorie cognitive, estetiche, etiche, etc... L'immagine è totale e mai come
in questa ultima rivoluzione l'immagine può essere mentale e materiale, visiva
e verbale, metaforica e simbolica. In questa selva di molteplicità avviene
quindi il passaggio strutturale, il non-artista mediale, l'artigiano digitale,
l'ars opifex diviene operatore della comunicazione assoluta e, quindi, si
ritrova
immerso nel grande universo frammentato della moltitudine elaborativa che si
serve di questo flusso. Nella marea di immagini che potenzialmente esprime la
virtualità della information society, non è molto facile distinguere l'oro vero
dall'oro falso, ecco perché nasce con la morte del pittore, dell'artista, un
artigiano, un operatore, una sorta di archeologo, in grado di produrre immagini
per discernere. Chi cerca l'oro in quest'immagine non è detto che si ponga come
un suo difensore, sceglie piuttosto di lavorare nel progetto di dissoluzione
dei miti della modernità, cercando di distinguere tra le strategie di
rappresentazione. Nell'immagine si svolge la battaglia, una battaglia che non è
più fra una tecnica che si possa sentire più all'avanguardia dell'altra (forse
sono le economie, come pure imprese mediali, a trascinare in avanti o indietro
queste tecniche), ma piuttosto fra una composizione che scivola nella pura
sensazione ed una sintesi che in un certo senso è mediata dal concetto.
Quest'ultima scelta operativa, sotto certi aspetti, può essere il preambolo ad
un tentativo di approfondire ciò che è pericolosamente destinato ad entrare nel
flusso satellitare. Così talvolta può accadere che l'esteriorità si soffermi di
più verso un'Imago mente, mentre in altre circostanze, attraverso un gioco di
rimandi infinito, sia una inaccettabile e sofferta interiorità a fare o
destinare. L'immagine in questo senso, costituisce lo specchio privilegiato del
conflitto contemporaneo della vita di tutti i giorni.E nell'immagine siamo
tutti occasione di schermo. Diciamo che le tecnologie dell'immagine ci hanno
concesso una doppia strada: una è quella che ci permette di didascalizzare e
apologizzare la visione del mondo, ed uno che qualche volta potendo raggiungere
una strana complessità (estranea) ci offre la capacità di monitorarlo e
conoscerlo, mantenendo nel contempo una sorta di distacco. È come se la lotta
per l'irrappresentabile si combattesse nell'affollamento della rappresentazione
stessa per veicolare un quoziente immaginativo ed emotivo che scoppi
continuamente nel differente rispetto a ciò che abbiamo già classificato. Kevin
Robins ha tentato di proporre un paradigma critico alla tecnocultura dominante,
dimostrando che le tecnologie dell'immagine sono lo specchio di precisi
orientamenti politici e culturali che rispecchiano l'ordine sociale dominante.
L'uso archeologico di queste nuove tecnologie da parte di questo strano
proletario mentale, di questo nuovo schermatologo, tende a separare quindi,
alcune politiche culturali da alcuni territori visivi, alcuni momenti
sfavillanti da emotività che possono sovraccaricare l'informazione, è da qui
che parte una nuova sfida medialista. Sul Senso specifico di Senaria. Il sei
nella tradizione allegorica è un numero che aduna due complessi di attività
ternarie. Esso si esprime con il simbolismo grafico di sei triangoli equilateri
iscritti in un cerchio. Ogni lato di ciascun triangolo equivale al raggio del
cerchio e sei è quasi il rapporto della circonferenza con il raggio, Gli
antichi consideravano questo simbolismo un'allegoria virtuale, che oscilla
nell'incertezza e nell'insicurezza e quindi trasforma il 6 nel numero della
prova, del test, del collaudo, II numero sei è anche quello dell’hexemeron
biblico: il numero della creazione, il numero mediatore fra l'Immagine del
Principio e della Manifestazione, Sia l'arte indù, sia l'arte cinese, che
l'architettura di Vitruvio si basano su sei regole, che sarebbero i sei riflessi
dell'emanazione della natura. In Occidente, invece, il numero sei si esprime
con lo spazio senario, con l'esagono e la stella a sei punte che rappresenta il
macrocosmo, o ancora l'uomo universale del disegno di Leonardo Da Vinci.
Prendendo spunto da una vecchia incisione del 1543, depositata nella Kunsthalle
di Amburgo, con questa esposizione si insiste ancora una volta sull'immagine,
su sei modi di intenderla, passando attraverso gli sguardi e gli spoz/ che nel
contemporaneo la circondano. Perché sei modi di intenderla? Perché sei sono gli
artisti invitati in questa mostra e sei sono i modi di trattare la fotografia,
come sei sono le fonti delle immagini coinvolte, sei sono i modi di
affrontare il viaggio nelle poetiche e sei sono i riflessi che si determinano
tra percorso stilistico e pratiche discorsive. Qui, anzi, la pratica discorsiva
per eccellenza è l'Immagine stessa e le varie forme di ricerca che si
convogliano (si canalizzano, si instradano...) in Essa. Quell'immagine che
negli ultimi anni ha totalizzato il suo identico riflesso, l'immagine che non
parla più una lingua, ma parla la lingua delle lingue, la lingua del disegno e
della pubblicità. Nell'immagine si concentra lo specchio del mondo
contemporaneo: immagine come conflitto dei conflitti, immagine come materia tra
le materie, come cosa tra le cose, come economia tra le economie. Immagine come
cartina di tornasole, come uno dei test più importanti della scuola del
sospetto per capire le nostre attuali condizioni di esistenza. L'immagine come
topos del trasferimento definitivo nel mondo, nel valico dell'universo di
rappresentazione
della medialità. L'incisione a cui ci riferiamo è Piramide di sei uomini di
Juste de Juste e serve a tenere salda un'ulteriore accezione, la dedica che i
sei artisti - Andrea Neri, Luca Piovaccari, Fabrice de Noia, Giorgio
Lupattelli, Silvano Tessarollo e Adriano Nardi - presenti in Senaria si sono
adoperati a realizzare per il famoso Gruppo del Sei della musica strumentale
francese: Arthur Honegger, Daris Milhaud, Francis Poulenc, George Auric,
Germaine Taillefarre e Louis Durey. Il motivo per cui artisti così giovani
hanno scelto di indirizzare questa esposizione ad un gruppo così inconsueto di
musicisti è presto detto, I sei artigiani dell'immagine, pur adoperando
tecniche e linguaggi fisici così aggiornati, e che in prevalenza scorrono
attraverso la fotografia, vogliono comunicare in maniera raffinata il loro
dissenso per una moda, banale quanto globale e volgarmente corrente, che nel
presente è quella di associare le nuove culture del visivo alla musica rock ed
alle tendenze dei videoclip, ormai segnate dalla noia dell'industria culturale,
dall'effimero adattamento al genere e al suo portato spettacolare. La mostra è
rivolta sia a quelli che sono a digiuno di arte contemporanea, sia a quelli che
sono degli appassionati fruitori.
Lo scopo dell'iniziativa tende a propagare l'esigenza di raccogliere, in pochi
exempla, concetti, proposte, intenzioni e ricerche sull'immagine mediale, che
possano rappresentare il modus del "fare artistico odierno". La
mostra, che svolge il ruolo di ouverture a possibilità future, si propone di
fornire al lettore una verifica pratica su quell'espressione che convoglia
pittura e fotografia e che spesso fa di questo connubio, con tutti i derivati
tecnici possibili, l'antro delle sinergie e del laboratorio della
post-produzione.
In altri termini, un'economia della tecnica che eroga artigianalità: una summa
in cui confluiscono ibridamente new-media, estetica della post-produzione,
grafica digitale e tecniche ritenute più tradizionali. Tale excursus,
sintetizzato nel lavoro e nell'esposizione di questi sei artisti italiani, ha
l'intento di portare l'occhio del visitatore nel cuore dell'immagine,
accompagnandolo attraverso il lento processo di gestazione e di elaborazione
della cosa: progetto, ideazione. scelta del soggetto e dei mezzi, adozione
delle tecniche e dei materiali più adeguati a tradurre l'immagine secondo le
intenzioni dell'artista e le occasioni di una buona attività post-produttiva.”
Opere pubblicate: Hurricane Alicia (North Texas 1983) (2002), Shine talker
(2003).
ADRIANO NARDI, "Il manifesto di Basmina, per un divario minimo",
Ottobre 2003, manifesto pubblicato sul sito www.eadessovediamo.org
“Il manifesto di Basmina (Minimal Divide Manifesto) è un’opera dal titolo a tre
livelli: uno dentro al quadro, relativo alla sua struttura interna e alla sua
statura nel mondo; il secondo intitola la rappresentazione, l'immagine che
vediamo e un terzo titolo nella lingua della comunicazione e linguaggio
globale, l'inglese del divario digitale, ma anche l'inglese dell'Arte
Contemporanea:
óntos mikròs
Propizia al minimo divario percettivo
Sensibilità e attenzione rispetto le scale ambientali e umane.
il manifesto di Basmina
Propizia al minimo divario sociale mondiale
Sensibilità politica alle differenze culturali e all’ingiustizia economica
formale.
minimal divide manifesto
Propizia al minimo divario linguistico
Sensibilità alle differenze stilistiche e contenutistiche della forma artistica
data come assoluto personale: verso una unione delle differenze.
(Adriano Nardi, pittore, luglio 2003)
"Il manifesto di Basmina (Minimal Divide Manifesto)"
2003, olio su lino e stampa laser, cm 177 x 128
acquistato dalla Pinacoteca dei Musei Civici di Palazzo d’Avalos, Vasto”
LORENZO CANOVA, "Nel corpo dell'immagine", Luglio-Ottobre 2003,
catalogo del XXXVI Premio Vasto
“…Metamorfosi
II periodo storico che stiano vivendo, dominato dai problemi della clonazione,
delle biotecnologie e degli organismi geneticamente modificati, sembra
rappresentare una misteriosa rappresentazione dei miti archetipi e delle più
sfrenate fantasie di quegli antichi scrittori che avevano messo in versi le
metamorfosi di uomini in delfini, di Dafne in alloro, o di Atteone in cervo,
immaginate con una fantasia degna di un regista horror o di uno scienziato
visionario. Del resto, molte opere antiche rappresentano proprio i momenti in
cui quelle mutazioni terribili si verificavano sui corpi delle vittime terrorizzate,
e non a caso molto spesso l'arte ha dato forma a strani esseri
"compositi" metamorfici: dalle grottesche del Rinascimento fino alla
Metafisica di de Chirico, Savinio e Fabrizio Clerici, con i loro esseri di
forma umana costituiti da frammenti di marmi antichi, o da uomini e donne sui
cui colli appaiono delle misteriose teste di animali. Dunque la strana
situazione di "ibridazione" che sembra dominare il mondo attuale non
appare poi così assurda a chi ha una qualche consuetudine con le arti passate e
presenti, e molti artisti contemporanei stanno lavorando su queste tematiche
creando lavori dove la fantascienza, la coscienza sociale sui problemi
dell'ecologia e della bioetica e l'immaginario si fondono con misteriosa e
spiazzante forza visiva…
…Con la rigorosa qualità della sua pittura, Adriano Nardi costruisce immagini
fluide e densissime dove la cultura digitale si salda al messaggio politico e
dove la bellezza femminile sembra annunciare le coordinate di una nuova,
possibile conoscenza collettiva. Le donne che Nardi mette spesso al centro
delle sue opere, costituiscono dunque la chiave per entrare all'interno della
sua "matrice" visiva, per penetrare i suoi codici simbolici rinchiusi
nella veste accattivante di una raffinata eleganza formale. I volti delle
ragazze del pittore si trasformano così nelle dichiarazioni criptate di una
lotta e di una resistenza, nei messaggi cifrati di uno scontro imminente. Nardi
riesce così a coniugare l'attenzione per il sociale e la denuncia dei drammi
dell'umanità ad una costruzione metamorfica e fluttuante dell'immagine che
viene scomposta, analizzata e parcellizzata con strumenti digitali per poi
essere trasferita sul supporto della pittura e divenire una sorta di labirinto
visivo, un meandro decorativo e squillante al cui interno, come nuclei centrali
e radianti, sorgono gli enigmatici e rigorosi messaggi delle figure
rappresentate.’
Opere pubblicate: Il manifesto di Basmina (Minimal Divide Manifesto) (2003) e
Science fighter (2003).
GABRIELE PERRETTA, "Imago Mentis", comunicato stampa della mostra
presso La Giarina Arte Contemporanea, aprile 2003
"...Oggetto di questa collettiva è la doppia valenza dell'immagine:
memoria e concetto, forse un omaggio indiretto all'intuizione di Apollinaire
sulla peinture conceptuelle. Per usare un'espressione di A.Warburg, pensiamo
l'iconografìa come denkbilder. Si tratta - comunque - di un linguaggio non per
iniziati, ma che contiene contemporaneamente tutte le derealizzazioni
dell'imago e tutte le derive della mentis. Dunque, lo scopo di
quest'esposizione è quello di far incontrare sul campo della "memoria
segnica" e della "concettualità visiva" chi produce e chi
guarda. Perché non pensare che l'immagine nella sua totalità si presenta come
la nuova recta ratio agibilium? È qui che si incontrano i lavori del maniscalco
e del retore, l'artìfex e il poeta, l'affrescatore e il tecnologo, il
pellegrino del viaggio e l'artigiano. Il riflesso della mente nell'immagine è
ciò che è riuscito a superare i confini tra le tecniche di riproduzione ed è
spesso ciò che si pone all'altezza dello spettatore, all'altezza di chi
"vede". È da lì che ogni singola figura di fruitore viene coinvolta
nella scoperta dell'imago e nell'evoluzione sociale della bonus operis. Imago
mentis tenta di superare tutte le differenze e le discriminazioni che l'ultimo
giornalismo d'arte - con molta retorica - ha contrapposto tra l'immagine
grafica, fotografica, videografica, pittorica ecc..., considerando viceversa
l'estensione della virtus operativa, come l'unico orizzonte d'attesa di se
stessa della sua arétes, della sua vorago..."
GIOVANNA COPPA, "L'amante del collezionista", comunicato stampa,
Dicembre 2002, Chieti
"...afferrare l'astrazione di Adriano Nardi, resa concreta in sostanza
pittorica come bellezza di donna dal nome di donna ma con potenzialita'
extraumane suggerite dal colorito illogico, forza ingovernabile della natura.
HEIDA SANCHEZ, ”La Cartografia e il volo”, catalogo della mostra a cura del
Centro Informazioni Geotopografiche Aeronautiche di Pratica di Mare, Roma,
settembre 2002
“La cartografia moderna sotto lo sguardo dell’arte contemporanea.
…Nardi, riflettendo sulle tempeste che periodicamente sconvolgono l'umanità
sottolinea quanto sia importante che ad esse facciano seguito delle missioni di
pace, in un continuo sforzo di progresso. In una striscia diagonale due simboli
della pace sembrano sorvolare come aerei un territorio sconosciuto. Sullo
sfondo un giovane ucciso, uno dei tanti, in uno dei numerosi scontri
dell'umanità. Poi, osservando attentamente, ci si rende conto che il territorio
sconosciuto altri non è che un particolare fortemente ingrandito di Dora, il
bei volto femminile che campeggia nella tela. Ma Dora è il nome di uno dei 30
uragani più potenti che siano mai stati registrati e a cui l'artista ha
volutamente dato un volto di donna. Un uragano come allusione alla guerra, alla
violenza, agli "uragani" che sconvolgono troppo spesso l'umanità e
alla distruzione che ne consegue. Da ciò scaturisce il senso di una missione di
pace su un territorio straniero…
…In Nardi l'idea della mappatura, come esplorazione della superficie del
colore, c'è sempre stata. Ma, soprattutto in un'opera come "Mapping
Dora" il lavoro esplica la ricerca nella dimensione microscopica della
pittura, nel dettaglio strutturale della materia. La base di partenza resta la
pittura ad olio, eseguita già pensando all'ingrandimento successivo, ma anche
una pittura dai colori vivaci che scompone uno splendido volto femminile nel
tecnologico RGB del monitor, colorando il volto con larghe fasce dei tré colori
primari. Poi scansisce esaltando a dismisura un dettaglio per lui
particolarmente significativo e lo esplora, quasi fosse un paesaggio di un
mondo sconosciuto, dove la materia pittorica forma colline e montagne, le
pennellate vallate e pianure.
Lo sfondo, in questa come in molte altre opere (Dizzy horizons, Searching
wanted, Movimento nudo), contiene anche un'immagine presa da Intemet (un
manifestante ucciso a Buenos Aires), finestra tecnologica che da la possibilità
di essere ovunque, di dialogare con chiunque, uno strumento che, in sintesi
contribuisce ancora di più a ridurre le dimensioni del mondo ad un villaggio
globale. La realtà quotidianamente si riversa nella nostra vita attraverso i
molteplici canali dei media: dalla TV, ai giornali, a Intemet. E Nardi osserva
e analizza il mondo guardandolo dal suo monitor-finestra, pesca immagini e ne
fa oggetto di riflessione, inserendole in forma di stampe digitali nelle sue
composizioni, magari ripetute (come lo sono in fin dei conti le vicende umane)
come frattali, fino a comporre trame suggestive.
Punto focale di ogni composizione rimane un volto o l'immagine di una ragazza
in RGB, un'idea astratta di donna più che un ritratto, dipinta, perché,
l'artista afferma che una stampa, anche la più bella e raffinata, da sola è
povera: ci deve essere un elemento materico, pittorico, tradizionale, che dia
uno scatto diverso, una continuità, con cui la stampa moderna interagisca. La
figura femminile focalizza l'attenzione e proietta l'immagine in una dimensione
atemporale, in cui la riflessione assume valenze positive, ottimistiche…
Opere pubblicate: Dora (2002), Mapping Dora (2002).
GIOVANNA COPPA, SABRINA VEDOVOTTO, ANTONELLO RUBINI, testi in catalogo della
mostra "L'isola del tesoro" Miglianico (Chieti)
"...altrettanto sospeso, ma nello spazio, il teorema Earth Loam di Adriano
Nardi illustra l'umanità plasmata dalla terra, sorgente dalla combinazione di
elementi primari. Con l'aggiunta di potenzialità ulteriori - il verde delle
labbra - che ne fanno un misterioso complesso sensitivo-espressivo..." G.
Coppa
"...L' opera di Adriano nardi si rivela invece in tutta la sua
apocalittica tragicità. Non si può indugiare oltre su aspetti positivi e
ludici, ma con un'attenta analisi introspettiva ricondurre il proprio ego verso
eventi di maggiore impeto. Cosa fanno le persone protagoniste di questo lavoro
insieme? Cosa le unisce? E le unisce poi qualcosa? Una situazione agli estremi
della comprensione, nella quale si inserisce anche una figura ambigua scura
senza volto ossessiva, della quale non riusciamo a comprendere neanche i
connotati. Ed infine, ma sicuramente protagonista di tutto, un volto di donna
che dall'alto osserva ogni cosa, ogni singolo movimento, senza però giudicare, ma
rimanendo fuori dall'ambientazione spazio-temporale nella quale invece sono
collocati gli altri..." S.Vedovotto
"...una testa e un mondo (Earth Loam). Il primo elemento grava
pesantemente sul secondo ovalizzandolo pericolosamente. A mio avviso è una denuncia
verso una popolazione che sfrutta volentieri negativamente le risorse della
terra, non preoccupandosi delle conseguenze verificabili... un richiamo
all'unione delle civiltà nelle differenze di colore riscontrabili nel
viso..." A.Rubini
Opere pubblicate: Earth Loam (2002) e Kamikaze Love (2001).
AUTORI VARI, “Misura unica per una collezione, pittura del secondo Novecento
della collezione Fiocchi nel cantiere di Palazzo Tiranni Castracane”, catalogo
a cura del Comune di Cagli e della provincia di Pesaro e Urbino, contenente i
seguenti testi: "Misure uniche ed irreversibili" di Arnaldo Romani
Brizzi, "Collezionare segni del proprio tempo" di Roberta Ridolfi,
"La rivoluzione delle immagini" di Alessandro Riva, 2002
Opera pubblicata: Orientata (2002)
ALESSIA
MURONI,
recensione della personale Vertical Horizons pubblicata su Arte e Critica,
aprile-settembre 2002
"La Galleria Maniero ha presentato Vertical Horizons, personale di Adriano
Nardi, giovane artista che ha fatto dell'interazione fra plotter painting e
pittura ad olio il mezzo veicolante di un discorso di riflessione sul potere
sociale dell'immagine quale ridefinita dal World Wide Web. Nel gioco ossimorico
fra l'elusività del mondo digitale e la concretezza storicizzata della pittura,
l'artista si propone di portare il discorso sulle implicazioni esperienziali e
conoscitive dell'immagine. Le algide icone femminili di Nardi, così glamourous
ma così stranamente disincarnate e ascetiche, spostano il discorso
sull'immagine da patrimonio comune e totalizzante a scelta individuale etica ed
eretica; navigando controcorrente nel grande alveo della medialità
imposta."
LUDOVICO PRATESI, COSTANTINO D'ORAZIO, “Close up, ultima arte italiana”,
catalogo a cura della Art Gallery Banchi Nuovi,edizioni Joyce s.r.l, Roma,
marzo 2002
"...Close up nasce dall'idea che abbiamo elaborato sulla base
dell'osservazione dell'opera di Marco De Luca, Adriano Nardi, Marco Raparelli e
Luca Suelzu. Sono quattro visioni diverse della realtà contemporanea,
concettualmente lontane tra di loro, ma realizzate secondo una metodologia
simile, che assimila l'occhio di questi quattro artisti all'obiettivo di una
telecamera. Una telecamera, appunto, non una cinepresa. Lo strumento che i
reporter utilizzano per raccontare la realtà e restituirne l'atmosfera
attraverso la cronaca di momenti significativi e la raccolta di immagini forti.
Il distacco dalla realtà che appare da questi racconti in pittura è la cifra
della nuova generazione di artisti italiani, che si sono fortemente allontanati
dalla "partecipazione" che sosteneva il lavoro degli artisti del
passato, nei tardi anni Sessanta e Settanta. L'artista oggi osserva e dipinge,
con l'obiettivo di evocare l'azione, che sta raccontando, ma senza elaborare un
giudizio e senza chiedere all'osservatore di parteciparvi. I dipinti in close
up sono finestre sulla realtà dai vetri chiusi, che il pubblico può aprire o
ammirare in superficie. E' il gioco dell'arte contemporanea, che in questi
quattro artisti si ammanta di una notevole suggestione, grazie al fascino di
una pittura attenta ai dettagli dell'immagine...
...Nella medesima cornice storica ci accompagnano le "Naviganti" di
Adriano Nardi, l'artista più committed dei quattro, giunto alla formalizzazione
pittorica di una lunga riflessione sull'evoluzione e sul decadimento della
nostra società contemporanea. "Nel 1992, dipingendo, ho simbolicamente
troncato il vertice di una piramide. In quel momento la mia attenzione era
rivolta al disastro umano ed ecologico operato dal conflitto..." Come De
Luca, anche Nardi punta il suo obiettivo su fatti storici contemporanei dalla
grande intensità, che contrasta con le algide figure che in primo piano
rappresentano la soglia da attraversare, per entrare nello scorrere del tempo.
Sono figure femminili impossibili da ricondurre ad un ritratto, sono idee della
donna, forme astratte che Nardi compone attraverso l'uso del verde-rosso-blu
televisivo, come diaframmi di una telecamera che guarda gli elementi di
resistenza alla decomposizione del tessuto sociale e civile occidentale. Non a
caso, recentemente l'artista ha iniziato a dipingere su tele che riportano
scene degli scontri di Genova, degli scaffali colmi di merce nei nostri
supermercati, stampate in digitale da Internet. Conservano la definizione di
un'immagine televisiva, a volte sgranata dal ravvicinamento della macchina
fotografica o della telecamera del reporter, che ha inconsapevolmente
realizzato uno sfondo, un paesaggio animato e veloce, cui si sovrappongono,
senza integrarsi, le figure delle "Naviganti" dai nomi esotici come
quelli dei film di fantascienza degli anni '70. Sono venute a riportare ordine
nel nostro mondo senza esprimere giudizi, ma attraverso la sovrapposizione, la
copertura di parti di realtà, l'affissione come fossero marchi di infamia e
severo giudizio nei confronti del nostro scarso buonsenso. Immagine digitale e
corpo dipinto costituiscono due contesti diversi che si uniscono e dialogano,
come succede nei dipinti di David Salle o nelle visioni oniriche di Stanley
Kubrick "
Opere pubblicate: X-Food (2000), Seattle (2000), The Cell (Mother) (2001),
Logo(‘)s Eater (2001).
LUDOVICO PRATESI, "Qualche appunto sulla pittura di Adriano Nardi",
catalogo della personale “Vertical horizons” edizione Galleria Maniero,
febbraio/marzo 2002
" Amazonas
Ho incontrato per la prima volta la pittura di Adriano Nardi nel 1998, in
occasione della sua prima personale al Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea
dell’Università La Sapienza, intitolata “Antipop” e presentata da Stefano
Colonna. Ricordo che la mostra era incentrata su un’installazione complessa e
scenografica, che con le sue diverse parti occupava quasi per intero la sala
del museo. Dopo aver osservato a lungo il lavoro, la mia attenzione venne
attirata da un quadro molto piccolo , che dominava solitario un’intera parete
con i suoi colori luminosi. Da lontano non era facile decifrarne il soggetto,
ma dopo essermi avvicinato il volto della giovane india apparve in tutta la sua
bellezza, evidenziato dall’apparente incongruenza dei suoi colori, acidi e
brillanti: l’azzurro dei capelli, il verde del volto e la sua ombra rossa. Fu
un attimo, o forse un “coup de foudre”: ora il viso di “Amazonas”, primitivo e
ipertecnologico allo stesso tempo, dominava lo spazio, testimonianza di una
pittura che non rinuncia all’estetica per appartenere alla più stretta
contemporaneità.
Vertical Horizons
Sono passati ormai tre anni, e la strada aperta da “Amazonas” è diventata il
fulcro della ricerca di Nardi, come si evince chiaramente dalle opere presenti
nella mostra “Vertical Horizons” alla galleria Maniero. Una ricerca che in
questo lasso di tempo si è fatta più forte ma soprattutto più consapevole,
attraverso una delicato e sapiente equilibrio tra la manualità della pittura e
la fredda oggettività della tecnologia informatica. Oggi l’artista ci propone
un “itinerario per immagini” che possiede tutte le caratteristiche di una acuta
e spietata riflessione sulle contraddizioni del nostro tempo, ormai dominato
dall’incertezza del presente, che appare sempre più foriero di minacce
incontrollabili capaci di minare per sempre le fondamenta del “villaggio
globale” al quale tutti credono di appartenere con gli stessi diritti, in
realtà garantiti ad una minoranza sempre più esigua.
Le Naviganti
La guida che ci conduce a scoprire le diverse tappe di questo itinerario è una
figura femminile intrigante e sensuale, una sorta di Arianna del Duemila che
compare , presenza erotica ma al contempo rassicurante, in tutte le opere di
Nardi esposte in mostra. Una donna che ci è ormai familiare, abituati come
siamo a vederla comparire in quell’uragano di immagini che travolge il nostro
sguardo ogni giorno. E’ sempre lei, che ci invita a gustare yogurt dietetici o
succhi di frutta tropicali, esibisce audaci capi di biancheria intima o
tee-shirt alla moda, perenne e pervicace simbolo di una femminilità tanto
diretta quanto anonima , come lo sguardo assente delle modelle che popolano con
i loro corpi immobili le performance di Vanessa Beecroft. Corpi e volti di
quelle che Adriano Nardi ha voluto chiamare “le naviganti”, la cui bellezza
forzata ed eccessiva viene sapientemente esaltata dall’artista attraverso l’uso
dei tre colori primari, che sottolinea ulteriormente la gelida sensualità dei
loro sguardi di ghiaccio.Una bellezza algida e distante che mi ricorda
l’aspetto fresco e invitante che avevano i fiori del “frozen garden” di Marc
Quinn, mantenuto in vita artificialmente ad una temperatura polare e presentato
allo spazio Prada di Milano qualche tempo fa.
Per un’arte più etica
Del resto, l’aspetto tecnologico delle figure femminili che dominano i dipinti
di Nardi rimanda alle immagini digitali che occupano l’intera superficie
dell’opera, scaricate direttamente da siti Internet e manipolate in maniera da
non risultare immediatamente riconoscibili e sviluppare così una struttura
narrativa ambigua ed enigmatica. Così da un dettaglio della superficie del
pianeta Marte emerge il profilo di una ragazza dallo sguardo magnetico (“Green
eyes on Mars”,2000) , mentre la figura di una bella donna in bikini si staglia
al centro di un dittico di immagini “close up” che mostrano il sole e un fiore
delle stesse dimensioni, quasi a voler suggerire due aspetti di una natura in
agonia (“Fight-line”, 2001). In altre opere , come “Searching wanted” (2001) e
“Movimento nudo” (2001) il corto circuito è ancora più marcato: in questi due
casi le immagini del fondo appartengono a momenti di violenza nell’ambito di
manifestazioni legate al movimento “no global”, che costituiscono
un’espressione dell’ “ideale ecologico” in cui l’artista si riconosce. Come ha
giustamente sottolineato Sabrina Vedovotto, si tratta di “un richiamo etico
contro la manipolazione della natura e per la difesa degli unici, veri,
possibili aspetti sacri della vita dell’uomo, il suo essere natura non
manipolabile”.E’ proprio questa valenza di carattere etico che costituisce un
aspetto originale del lavoro di Nardi, uno dei pochi artisti italiani che si
preoccupa di conferire alla propria ricerca un impegno sociale definito.
Tra pennello e computer: i vampiri dell’immagine
Attraverso la compresenza nella stessa opera di figure dipinte ad olio su
immagini digitali Nardi prosegue una tradizione basata sul concetto di
sovrapposizione di immagini legate a contesti e significati diversi che ha
attraversato tutta l’arte del Ventesimo Secolo, a cominciare dalle
“trasparenze” realizzate dal pittore francese Francis Picabia , protagonista di
primo piano prima del dadaismo e poi del surrealismo. Un percorso che conduce
fino ai dipinti di David Salle, esponente della “new painting” americana degli
anni Ottanta, che sovrappone scenette umoristiche tratte da cartoni animati per
bambini ad immagini pornografiche “hard-core”. Del resto, al giorno d’oggi la
necessità di elaborare opere non effimere ma durature e in grado di esprimere
la complessità del nostro presente ha costretto gli artisti delle ultime
generazioni a rapportarsi con le nuove tecnologie informatiche , e li ha
trasformati, come ha rilevato di recente Lorenzo Canova, in veri e propri “vampiri
dell’immagine”, che si nutrono di sollecitazioni visive provenienti dalle fonti
più disparate , che vanno dalla pubblicità alla televisione, dal cinema al
fumetto fino agli orizzonti infiniti di Internet. All’interno di questo folto
gruppo , i pittori italiani si contano sulla punta delle dita, e mi sembra che
Adriano Nardi abbia tutte le carte in regola come “new entry” in un gruppo che
annovera già personalità di rilievo come Cristiano Pintaldi, Andrea Salvino e
Fabrice De Nola"
Opere affiancate al testo in questa prima parte del catalogo:
Nova (2000), Nova Borderlands (2001), Green eyes on Mars (2001), Fight-line(sun
son) (2001).
GABRIELE PERRETTA, "Dizzy Horizons", catalogo della personale
“Vertical horizons” edizione Galleria Maniero, febbraio/marzo 2002
"Secondo la tradizione moderna, quando si parla di konkrete kunst, ci si
riferisce a quella definizione introdotta per la prima volta da Theo van
Doesburg nel 1930, che in genere saldava le opere non figurative ad un
dizionario visivo interno alla loro stessa funzione. La pittura e la scultura
concreta si basavano su ciò che era otticamente percepibile: colore, spazio,
luce, movimento. Fu Max Bill che diede una caratterizzazione definitiva di
questa visione, ma soprattutto ne fece uno statement con il Nastro senza fine
realizzato intorno al 1936. Con la maturazione dei processi tecnologici, che
alla fine del secolo scorso hanno influenzato tutte le forme di elaborazione
dell’immagine, minando alla base anche nozioni fondamentali per il moderno -
come concretezza in opposizione ad astrazione - l’indagine sulla pittura
iconografica ha trasformato il senso della sue categorie non mostrando più come
contrapposto ciò che può apparire staccato, ritagliato dal reale, da ciò che
autenticamente si manifesta nella totalità delle sue determinazioni. In una
sola parola, il virtuale con la sua massiccia introduzione nelle case della
gente ha rimescolato le carte rispetto alla nostra cognizione di tempo reale,
di spazio reale e, quindi, di concretezza stessa della spazialità. Esso ha
offerto la possibilità di guardare l’ambiente circostante, e poi anche la
pittura, con un occhio diverso rispetto al passato, introducendo una tensione
maggiore tra l’idea di immagine naturale e di immagine artificiale.
Partendo da questi presupposti, e con l’intento di agire direttamente
all’interno di una forma che convoca concretamente il mondo elettronico - senza
adeguarsi all’ipotesi di Max Bill che per diventare il rappresentante più
autorevole della Konkrete kunst si opponeva radicalmente ai presupposti
alchemici, simbolici ed esoterici della pittura – Nardi, servendosi
simultaneamente della riproduzione digitale e del pennello, tenta di
rimescolare ancora una volta le carte sul problema dell’immagine. La sfida è
ostica e gli obiettivi sono ambiziosi, il territorio dell’immagine si presenta
del tutto minato, sia nel campo della pittura che in quello delle nuove
attitudini digitali. L’arte della pittura all’inizio di questo secolo effimero,
e dittatorialmente guidato dal nichilismo del Capitale, si presenta come un
campo disciplinare oltremodo consunto; essa appare come il simbolo di un’arte
che è totalmente inscenata e fictionalizzata, assolutamente relittuosa e
finemente ingannatrice. Anche il quadro non appare più possibile sia nella sua
forma di orchestrazione che nella sua profetica capacità di sintesi. Il quadro
è stato rotto dall’esperienza Novecentista del montaggio e non è più
acquisibile ad un universo che si circoscriva ad una tela o ad una tavola
eseguibili su un cavalletto.
Attualmente l’immagine lavorata al computer non può mostrarsi come l’apologia
della tempera dipinta con stile accademico, per essere offerta agli occhi dei
nuovi e-salon. Se un tempo il quadro era un sistema chiuso, una specie di
piccola boite optique, oggi tale formulazione è improponibile. Chi pensa ad un
quadro rinnovato nel contemporaneo dagli scherzi del digitale, è un imbonitore
che vende fumo e aspira ad affermare dei principi che non hanno niente di
fondato. È assolutamente aberrante pensare ad un quadro come alla composizione
di un file. Un file non è il contenitore di un’immagine, ma potenzialmente
rappresenta uno dei tasselli di un mosaico che può comporre delle immagini
infinite e super-riproducibili. A partire da ciò il quadro potenzialmente non
esiste più e, parallelamente, non esiste più la sua struttura né la possibilità
visivamente circoscritta di dichiarare la sagoma di un’icona. Diciamo che il
confronto tra una pittura composta su tavola e il decorso di un file, che si
orienta al risultato espanso di una tavolozza, si percepisce come una grande
baggianata. Il file sappiamo tutti che è una raccolta significativa di
informazioni dotata di un nome; esso può essere un programma oppure un
documento creato da un utente. Se un file permette di distinguere i set
d’informazione, come è possibile pensare che la sua potenzialità si possa
ridurre all’immagine di un quadro?
Nel computer, proprio perché si distinguono una memoria centrale ed una memoria
di massa, ogni immagine si specchia nella propria capacità di essere una copia
di se stessa e, quindi, una copia infinita della sua specularità. Nelle
funzioni del computer vi sono inoltre i file server (dispositivo di
memorizzazione accessibile a tutti gli utenti), i disk server (unità remota),
vi sono i buffer (immagazzinamento temporaneo). In sostanza, il linguaggio del
computer è dotato di una versatilità fortemente espandibile, che non è
configurabile alla luce del concetto di quadro. L’immagine del quadro non è
diminuibile, non è dilatabile, non è sezionabile, non è stratificabile, quella
dell’elaborazione digitale, invece, può essere tutto questo insieme. Sul
computer da un microrganismo può sfogliarsi una famiglia infinita di immagini.
La fotografia digitale è potenzialmente versatile, perché con un dettaglio
possiamo riempire ed emulsionare centinaia di chilometri di tela, con tre
tubetti di colore ad olio al massimo riusciamo a fare una tavola 120x130.
Inoltre, il file è una copia, è un back up infinito di quella intuizione che
abbiamo avuto. Il file ha in sé la potenza dello scriba Ezra che copiava i
testi sacri (Codex Amiatinus –700/716 ca.-), esso risente del tratto
illimitatamente riproducibile e su questo tratto divide la sua spinta
orizzontale e verticale. Da una parte condanna la pittura ad essere
infinitamente se stessa e dall’altra sanziona la copia della tavola miniata
come l’eterna copia, lo scriba altro da se stesso. È così che si muove il
grande universo mediale, è così che il mondo feticistico che ci circonda
rasenta la follia parossistica. Ma nonostante la grande disponibilità del
digitale ad espandersi, esso non può essere tradotto nei tempi tecnici della
pittura. Fra il digitale e la pittura vi è la rottura del riproducibile che si
alimenta tramite una sequenza infinita di immagini, forme che alla manualità
sono state offerte solo con l’introduzione della nozione di montaggio. Ecco che
la pittura è oltre la macchina perché in essa si ricompone il senso concettuale
di superamento della tecnologia per la tecnologia. In questa grande fiera delle
banalità, la storia della pittura, e soprattutto di quella figurativa e
realistica, si presenta come una battaglia tra ghostbusters, tra morti viventi
che si impauriscono e si dilettano a spaventarsi tra loro, la battaglia di chi
vuole affermare con un sottile inframince (il riferimento è alla nozione
duchampiana) il disperato senso di una tecnica, ormai in grado di agire
liberamente e senza nessun legame all’attualità, perché è passata all’infinito
archivio della memoria.
Per ripercorrere la storia senza dare l’impressione di essere degli epigoni di
qualcosa che non si riuscirà più a risollevare dalle ceneri, bisogna agire
rimescolando le carte in maniera giocosa, tentando di dare spazio al Carnevale
di M. Bachtin, di cui il linguista russo parlava negli anni trenta/quaranta del
‘900. A futura memoria, accompagnato da un atteggiamento ironico e
contemporaneamente politico, e soprattutto senza l’incanto di dover eseguire la
pittura per riversare sulla superficie un qualsiasi panegirico, Adriano Nardi
ci prova. Egli cerca di farci capire che anche nel mondo dell’immagine che si
muove tra il richiamo parallelo ai media tecnologici e il mondo della pittura
sintetica (Ducotone Valley) vi è la possibilità di rispettare e di attraversare
l’universo e la nuova nozione di konkrete, rimanendo però nell’ambito del
figurativo e nel territorio affascinante dell’iconografico. Sì perché, fallito
il progetto dell’avanguardia e il suo pedissequo rapporto con la spazialità del
colore, della forma minimale e dell’esperienza della geometria, tra i giovani
artisti contemporanei corre voce che si può ritrovare la concretezza facendo
riferimento quasi “realisticamente” al consunto mondo circostante, al riflesso
della sfera iconologica che tutti i giorni occupa la nostra esistenza. Grazie
al filtro che noi abbiamo scoperto nel contrastarci e nel conflittualizzarci
con la pesante coltre della cyber-sfera, siamo finiti in un territorio vago,
che si trova oltre la visione informale. Senza l’idea di fare di una filosofia
del concreto un’intrinseca tendenza a sforare nella didattica, e senza voler
autoritariamente pensare di dialogare con le purezze e i significanti più
astrusi del segno, senza dare compositivamente una risoluzione alle linee ed
agli spazi vuoti ed alla geometria piana, Nardi tenta di affiancare il
significato di concreto al mondo fictionale dello schermo in tutte le sue
coniugazioni (cinema, computer, televisione, etc…).
Concreto (concretezza) nello spazio tridimensionale dell’immagine (“elusa ed illusa”)
significa giocato tra il doppio senso della realtà e della finzione continua.
L’immagine - dato che contiene in sé la doppia verità dell’illusione e della
rappresentazione, dato che si sposta sull’evidenza dell’idea, quindi su di una
concretezza che può assorbire l’astratto, il corporeo, il palpabile, il
tangibile e parallelamente il suo contrario, il pratico, il concettuale,
l’ideale, l’autentico e poi nella sua finzione l’accertato, il feticistico, il
salto nell’apparente, nel fantasioso, etc… - piegata alla manipolazione totale
nel laboratorio della tecnica, si presta ad essere lo specchio totale della sua
apparenza, si piega definitivamente al paradosso del concreto.
Max Bill ed i suoi seguaci (vedi Maldonado) hanno costruito un’immagine della concretezza
che passava attraverso gli interventi su scala urbana; la pittura mediale,
dalla quale provengono il discorso e la ricerca di Nardi, passa attraverso la
riconsiderazione della metafora visiva, o meglio della nozione di konkrete che
agisce all’interno dell’immagine della grafica computerizzata. Sì, perché i
programmi di grafica al computer, l’uso popolare della fotografia digitale e
via di seguito sono degli addentellati della grande costellazione mediale. Il
medialismo, nella sua fattispecie, sin dall’inizio degli anni ’90, ha fatto
scuola ed ha prodotto una varietà immensa di soluzioni e di spinte per la
ricerca sull’immagine ed una di queste è senza alcun dubbio quella di Nardi. Il
suo lavoro, sia nell’uso della pittura che in quello dell’elaborazione
digitale, è assai più maturo di molte altre aberrazioni che vorrebbero essere
infelicemente ricondotte ad una sorta di école du regard - tutta papalina - che
usa la grafica elettronica così come i vecchi lustrascarpe usavano la cromatina
per chaussures à semelle de cuir già forzosamente lucide.
In sostanza, l’immagine digitale si muove rispetto alle sorprese del
rinnovamento come un oxymoros. Essa ci sottolinea il fatto di non essere più
un’immagine. La sua particolarità è quella di sottrarsi all’evidenza ed alla
concretezza della superficie. Quindi, la pittura che Nardi aggiunge al lavoro
automatico della plotter painting serve per ravvisare e farci riconoscere una
concretezza. L’immagine digitale è una sorta di antitesi della pittura, essa
introduce una specie di contraddizione in termini sull’immagine pittorica. La
pittura più tradizionale serve dunque a fare da macina, ad assorbire questo
contesto ed a recitare il suo ruolo storico, ovvero quello di modellare nel
contesto della sua forma i dati di colore, di luce, di effettualità della
materia. Il digitale appare invece come l’apologia della sparizione,
l’introduzione definitiva della nozione di sfuggente, di fuggevole, di
riproducibile fino al parossismo. Il digitale non è l’ampliamento definitivo o
nuovo della forma del quadro, ma se mai è la morte definitiva del quadro.
Quanti file di quel file esistono? E quanti icone di quell’icona esistono nelle
memorie del World Wide Web? L’immagine, sfondando il “di per sé”, non riesce ad
avere più la consistenza di un’immagine concreta. L’immagine di un file appare
come un lembo d’asfalto, è un fazzoletto di territorio colorato. Esso è
assolutamente calpestabile, è la continuazione elettronica della pittura
industriale di Pinot Gallizio, è il mondo della rinuncia definitiva a qualsiasi
idea di soggettività, di verità, di concretezza. Ecco che alla possibilità di
stendere all’infinito le pannellature dell’immagine offertaci dalla veloce
elaborazione digitale, il pittore ha bisogno di aggiungere la marca, un’elaborazione
individuale, una figura di donna, un corpo ipercolorato che pur provenendo
dalla stessa elaborazione digitale sfugge dalla ripetizione inautentica e sia
testimone di un gesto che si mostra più vicino ad una forma vaga di
individuazione. È come se la pittura calcasse l’istanza della poesia narrativa
e facesse il gioco del poema allegorico rispetto all’estremo realismo della
tecnologia.
Nardi si accinge a navigare tra la pittura intesa come corpi, pigmento steso
sulla superficie e come elaborazione digitale. Egli usa il supporto digitale
come una sorta di sfondo e di pattumiera multicolorata dove si affastellano “i
caos” dell’informazione. Alla schermatura piatta ed omologata proveniente
dall’elaborazione digitale – quasi per provocazione – aggiunge poi la sfida
pittorica, tentando di sostenere che l’esercizio della pittura appaia come
un’etica della comunicazione in grado di controllare ancora la faciloneria del
supporto digitale. Da queste immagini iperstratificate vengono fuori degli
schermi veri e propri, in cui le sovrapposizioni si addensano e il corpo della
tecnologia più attuale slitta in una situazione di compressione. Lo sfondo
spesso richiama immagini digitalmente scelte, elaborate e stampate, provenienti
dagli spazi praticati dai movimenti globali, dai simboli della ricerca
scientifica, dalle mappe ambientali o ecologiche, da forme di ingrandimenti
vertiginosi che spingono lungo il desiderio di farsi oggetti, cose, strutture
fortemente bloccate, inevitabilmente collassate nel vuoto dello spazio acustico
dell’infosfera. Naturalmente anche qui, in primo piano ricorre l’immagine della
donna, così come nei lavori pittorici dei Dormice, la donna è quasi sempre sul
proscenio della boite optique. Essa si solidifica come una materia gassosa, come
un corpo tra i corpi in grado di attrarre l’attenzione sulla sua prevalenza e
sulla sua capacità di apparire una rappresentazione di primo piano. Nardi la
definisce la donna “Microdipinta”, perché ci vorrebbe dire che la sua figura è
curata al micron. Essa è composta da una ritmica interna che, anche se si
presenta leggera, apparentemente venata, delicata, fisionomizzata, semplificata
dai tratti caratteristici della sua avvenenza, mostra una mimesi curata nel
dettaglio, nel tratto più sottile della sua caratterizzazione. Così come per i
Dormice, in Nardi si tratta sempre di una donna da rotocalco, con la differenza
che, rispetto alle pin up della pop art, la venere dei Dizzy Horizons nasconde
una fascinosità differente, quasi come se ci trovassimo dentro alle pagine di
qualche web-comics. Nelle geometrie tonali che si espandono nel suo corpo, la
pittura agisce come una mise en abîme. La figura e la controfigura di se stessa
fungono come una matrioska, così come nel sistema dell’araldica la
raffigurazione di uno scudo contiene e sottende un altro emblema. Nell’immagine
popolare la figura femminile, la Gioconda, è un cliché ma è anche un sintagma,
un fatto espressivo che volontariamente richiama all’eloquenza del banale (alla
retorica della storia della pittura); infatti, sia per la frequenza del suo
impiego, sia per la parossia della sua intrinseca derisione, nonché per la sua
referenzialità memoriale e per la sua forma espressiva così diffusa e nota, la
donna raccoglie il segreto della Sfinge. Il pittore interpreta il luogo comune
che la società dello spettacolo offre della donna, un topos che diventa
stereotipo facendosi scivolare da dosso ogni rilevanza ed esibendosi
nell’automatizzazione come se fosse un pezzo della descrizione di Bebuquin oder
Die Dilettanten des Wunder (1912) di Carl Einstein. Si tratta, però, anche di
una figura-tandem che agisce, con un suo fascino irresistibile, per
disumanizzare la moltiplicazione di forme automatiche che ispirano e alitano
sullo sfondo.
Potremmo sperare che la pittura sia ancora viva, se essa riuscisse a denigrare
se stessa, se continuasse a prendersi gioco della sua stessa identità. Per
troppo tempo (soprattutto negli anni Ottanta e negli anni Novanta) c’è stato un
tentativo di considerarla come qualcosa di molto serio, qualcosa che con il
ritorno alle forme fosse veicolo di una seriosità quasi alienata dal corso
della storia presente. Anche la pittura mediale è stata vista come una
minaccia, perché la si voleva ricondurre alla serietà del gesto umanizzante
della tecnica, dello scarto deviato che essa dovrebbe rappresentare. Invece la
pittura dei Cascavilla, Santolo de Luca e così via non ha niente di tutto
questo; essa è piuttosto l’introduzione volontaria, l’immersione quasi a corpo
nudo nell’universo simbolico della finzione, dove non c’è niente di serio e di
vero, tutto è abilmente s/natura, tutto è filtrato dall’immagine del finto,
dell’inespressivo. Una pittura dichiaratamente fumettistica che concettualmente
gioca contro se stessa; essa vuole apparire finta e falsa, tanto quanto può
essere falso un oggetto sociale in disuso come un orinatoio o uno
scolabottiglie. È la prima volta che la pittura, dopo un periodo buio e
sconfitto dal nichilismo della restaurazione, ha cominciato a parlare un
linguaggio impossibile a se stesso, il linguaggio della tecnologia e della sua
stessa morte. Abbiamo quindi a che fare con una pittura che sul filo di questa
impossibilità ritorna ad essere assolutamente concettuale. L’immagine delle
veline che si vedono sui lavori di Nardi ci fanno chiedere sempre la stessa
questione: è carne da macello così come si vede sui calendari, oppure si tratta
di icone politicamente accattivanti? Ma è possibile ancora chiedersi, davanti
al velo di una società che ha fondato tutta la sua politica dello sguardo sulla
prassi del voyeurismo, se la questione importante sia legata ai veli? Le
immagini che usa Nardi, le icone che usano i Dormice, sono effettivamente le
testimonianze dirette dell’oggettualità femminile, ma esse rimangono anche il
motivo per cui la pittura mostra con questa trascrizione l’aspetto più consunto
di un fenomeno sociale e di una tradizione stessa della tecnica. Le veline in
tutte le loro movenze accattivanti e seducenti, in tutto il loro essere
“movimento nudo”, appaiono come un dato reale di qualcosa che descrive alla
lettera il parossismo della società dell’immagine in cui viviamo. Naturalmente,
il pittore non ha altra scelta: egli può mostrare soltanto il difetto che
ognuno di noi ha nel desiderio sublimato del mons veneris. Il voyeurismo è una
malattia diffusa, esso è l’altra faccia del calendarismo, è un piacere per la
merce perché, come dice Freud, “le nevrosi sono forme sostitutive delle normali
espressioni dell’erotismo”[4][1].
Curioso quel lavoro di Nardi, dove il pittore mette al centro di un vero e
proprio scontro sociale l’immagine di una donna: ai quattro lati della testa
essa porta quattro guerriglieri della strada e quattro simboli dell’anarchia
che disegnano la simmetria facciale della sirena, quasi come se fossero una griglia
politica sottoposta all’esibizione della donna in prima fila. Attraente anche
Nova, che ricorda vagamente uno dei più bei romanzi di William Burroughs. Ma il
lavoro che rispecchia di più l’idea sofisticata della micropittura di cui ci
parla Nardi, è sicuramente Mouse&Lisa, che incastra benissimo la
versatilità dell’olio e della plotter painting. Il primo piano della donna
risulta sorprendentemente carico: il corpo di una ragazza, che potrebbe
pubblicizzare una lavanda o una saponetta dal profumo delicato, si trasforma
immancabilmente nel topos della nuova storia dell’arte, quella che è scritta a
colpi di logo e di possenti regole economiche. Qui più che la novità del colore
acido, o della resa cromatica che peculiarizza le potenzialità della plotter painting,
è la filosofia del montaggio che sfoga un sottile senso di originalità. Il
montaggio viene da molto lontano, ce lo insegna lo stesso Walter Benjamin,
quando nel 1929 rifletteva su quel bel romanzo di Alfred Doblin che è Berlin
AlexanderPlatz. Egli sostiene che il principio stilistico di esso è il
montaggio, perché nel testo compaiono stampe piccolo borghesi, storie
scandalistiche, casi sfortunati, canti popolari, inserzioni ecc…[5][2]. Da
questa analisi oggi noi possiamo dedurre che la tecnica digitale non aggiunge
niente di nuovo al versante della pittura iniziata con il dadaismo. Azzardiamo
pure che il Novecento potrebbe essere considerato il secolo del montaggio e che
l’aiuto del digitale non fa altro che continuare questo grande ampliamento della
tecnica verso confini in cui la pittura si pone in continua metamorfosi,
cercando di trasfigurare se stessa e ponendo la sua mutazione come un rinnovato
traguardo per fronteggiare l’idealismo tecnologico degli imbecilli."
Opere
affiancate al testo in questa seconda parte del catalogo:
Dizzy horizons (2001), Searching wanted (2001), Movimento nudo(2001),
Mouse&Lisa (2001), Ducotone Valley (2001).
CARLO FABRIZIO CARLI, “Una scelta di pittura”, catalogo 1° Premio nazionale di
pittura Ferruccio Ferrazzi, Sabaudia (LT) agosto 2001
"... Se, dunque - si diceva - gli obbiettivi dell'iniziativa pontina
appaiono di immediata evidenza, forse è proprio sulla formula del "premio
di pittura" che converrà invece spendere qualche considerazione. Già il
parlare oggi di pittura, in un clima diffuso di contaminazione di tecniche e di
linguaggi, presuppone una scelta di "ideologia" dell'arte, per cui
tale contaminazione non è data per scontata, almeno non è accettata fino al
punto di dissolvere interamente la riconoscibilità dell'oggetto estetico nella
veste tradizionale ("il quadro"). Anzi, la questione si presenta da
parte di non pochi "addetti ai lavori" in forma ancora più radicale/
riguardando la stessa praticabilità attuale della pittura, e così analogamente
della scultura. Basta visitare la Biennale tuttora in corso a Venezia, per
rendersi conto come alla pittura (come, del resto, alla scultura) siano
riservati ambiti marginali rispetto ai video, ai filmati, alle fotografìe, alle
istallazioni. D'altro canto, il progetto espositivo messo a punto da Harald
Szeemann non è certo in dissonanza con la maggior parte delle grandi rassegne
internazionali di arte contemporanea. Anche il Leone d'Oro alla carriera
assegnato a Venezia a Cy Twombly, non fa - in fondo - che confermare questa
prospettiva: non è che si neghi l'importanza e il ruolo "storici"
della pittura; se ne nega la praticabilità nel contesto della creatività
estetica contemporanea, quasi un linguaggio irrimediabilmente logorato, non più
utilmente impiegabile. Consapevole dei propri limiti ma anche delle ragioni
della propria scelta, il "Premio Sabaudia - Ferruccio Ferrazzi", e la
mostra che ne consegue, ha scelto l'insegna della pittura, anche se - come il
visitatore interessato avrà modo di constatare -, specie nella sezione
d'impronta segnico-concettuale, si è cercato, mediante proposte assai
diversificate e talvolta perfino problematiche, in quanto a tecniche e
materiali, di offrire un marcato ampliamento dell'accezione tradizionale della
pittura. E di mostrare, a costo di operare sul filo del rasoio (dove finisce,
in certi casi, il dominio della pittura, dove comincia quello della scultura?),
l'ardua separabilità dei due linguaggi.
II. II progetto della mostra si è dunque articolato, a scopo strettamente operativo,
in un ideale "dittico", l'uno incentrato sulla Persistenza della
figura, l'altro su Percorsi di segno e di concetto, annoveranti ciascuno una
ventina di artisti invitati; ad esso si affianca una seconda sezione di artisti
selezionati, dove tecniche e linguaggi sono, naturalmente, disparati.
In Persistenza della figura si è voluto presentare, pur nella fatale
incompletezza, un diorama ampio e attendibile dell'importante fenomeno del
rinnovato vigore della pittura di figura, che fa da significativo contraltare
alla presunta obliterazione della pittura stessa, cui si è fatto sopra cenno…
… III. E' nell'ordine logico della situazione attuale dell'arte, che questa
seconda sezione della mostra, attestata su uno spettro di registri linguistici
che spaziano dal segno alla concettualità, si configuri più problematica e
articolata, in una parola, più "aperta". In questo contesto la
tradizionale accezione della pittura manifesta spesso la sua fragilità,
abdicando ali' (apparente) univocità connotativa del suo fisico manifestarsi…
… IV. La presenza degli artisti selezionati, in assenza di indicazioni
stilistiche e/o tematiche, offre naturalmente un diorama oltremodo
differenziato…
…Di particolare interesse, per la sperimentazione di nuovi linguaggi e il relativo
ampliamento dell'ambito tradizionale della pittura (l'associazione dell'olio ai
nuovi procedimenti di stampa digitale), ma anche per le sue valenze di
carattere concettuale, appare il lavoro di Adriano Nardi…”
Opera pubblicata: No fear (2000)
GIORGIA MUSIELLO, “La mia prima volta”, catalogo ed. Ass. cult. Futuro,
collettiva di giugno 2001
"... No Fear fa parte di un gruppo di opere che Adriano Nardi ha
realizzato dopo gli avvenimenti di Seattle, che nel ’99 hanno visto nascere
l’opposizione spontanea contro gli organismi internazionali che, come il WTO,
si riuniscono per decidere su questioni vitali per il futuro del pianeta, come
l’ambiente, le coltivazioni transgeniche, l’equilibrio fra gli Stati, la
globalizzazione dell’economia. Una foto degli scontri tra attivisti e polizia,
presa da Internet, viene sdoppiata e specchiata; le direttrici dei palazzi,
così moltiplicate, dirigono la prospettiva dal fondo verso un punto esterno
alla tela, e l’immagine sembra divenire un cuneo puntato verso lo spettatore.
Al centro, come se provenisse dal suo interno, compare il volto di una strana
creatura, con le labbra socchiuse. Il gesto della sua mano ripete quello di un
dimostrante alla polizia: non avere paura di noi, noi chiediamo solo PUBLIC
VOICE, e lo stesso gesto, di pace, si rivolge a chi guarda, per dire non avere
paura di… quello che vedi dietro di me. E’ un richiamo etico contro la
manipolazione della natura e per la difesa degli unici, veri, possibili aspetti
sacri della vita dell’uomo, il suo essere natura non manipolabile. L’essere
umano deve restare al centro delle scelte, e la tecnica del quadro partecipa al
contenuto: il pittore si riappropria di un’immagine digitale attraverso la sua
combinazione con la pittura a olio. Forse è la pittura stessa che parla, qui,
nel simbolo, e attraverso la storia: è un’immagine interamente pittorica, con
la costruzione dello spazio simmetrico centralizzato, l’uso del colore, in una
ricerca di equilibrio e unità “classici”.”
Opera pubblicata: No fear (2000)
SABRINA VEDOVOTTO, “Mercato globale”, testo dal catalogo ed. Ass. cult. Futuro,
stampato in occasione della collettiva 'Arte al mercato a Piazza Vittorio', dal
24 Maggio al 24 Giugno 2000
"... il mercato di Piazza Vittorio si è vestito in questa circostanza con
abiti nuovi, tirati a lucido per una occasione dawero speciale, nuova ed
originale: una mostra d'arte contemporanea all'interno di un mercato. Ma non è
tutto: il mercato è infatti quello di piazza Vittorio, centro nevralgico di una
realtà in cui le varie etnie presenti nella città di Roma convivono da almeno
un decennio, con colori e sapori differenti. I dieci artisti che partecipano
alla mostra hanno voluto tributare un omaggio, ognuno con il proprio
linguaggio, a questo luogo così denso di significati...
... Il tema tragico della realtà in cui viviamo ci viene però prontamente
riproposto da Adriano Nardi. Artista giovane romano, da diverso tempo si
interessa, attraverso i suoi lavori, del problema della natura, delle sue
trasformazioni, del suoi stravolgimenti. Anche in questo caso ci propone una
giovane attivista giapponese che segnala del prodotti geneticamente manipolati.
Qui, come nell'opera di Alecci e in quella di Pletroniro, vi è un chiaro e
manifesto segno di ribellione nei con-
fronti della nuova economia che spinge a manipolare, cambiare ogni cosa, per
renderla apparentemente perfetta, ma non più naturale.”
Opera pubblicata: X-Food (2000)
AUTORI VARI a cura di A.BACCILIERI, “Figure del ‘900, 2”, libro-catalogo LaLit
edizioni d’arte,AABB Bologna, maggio 2001
EMANUELA NOBILE MINO, “Guida agli artisti contemporanei, Roma#1”, libro
catalogo ed. Nuova Anterem, dicembre 2000
"... La sua ricerca artistica si fonda sull’interazione di diversi media e
campi di indagine. La pittura classica viene associata a quella digitale per
sovrapposizione e bilanciamento cromatico, la moda e l’arte si fondono in
funzione di una narrazione che, partendo dal ritratto sviluppa tematiche
relative ai rapporti sociali odierni e ai grandi temi della contestazione politica
internazionale.”
Opera pubblicata: Sophìa (1999)
Arnaldo Romani Brizzi, “Straordinari cortili”, catalogo ed. Associazione Dimore
Storiche Italiane , Roma, 27-28 maggio 2000
" Per il secondo anno consecutivo l'Associazione delle Dimore Storiche, Sezione
Lazio, ospita nei cortili di numerosi palazzi romani una rassegna d'arte
contemporanea... ...questa volta, con Ludovico Pratesi, si è inteso
perfezionare il meccanismo espositivo della manifestazione precedente, che fu
messa in piedi in poco tempo e con inviti non del tutto mirati. Si è, infatti,
ritenuto opportuno invitare artisti conosciuti e che hanno già avuto modo di
farsi conoscere in importanti manifestazioni in Italia e non solo, anche se la
loro arte può essere presa in considerazione specialmente per l'attualità dei
linguaggi. A ogni artista è stato quindi "assegnato" un cortile con
il quale fosse possibile stabilire un dialogo tra il luogo dato, appunto, e la
loro particolare linea espressiva. Ecco che opere appositamente realizzate, o
altre che già esistevano ma che avevano tutte le caratteristiche necessario
all'incontro di cui sopra si è detto, costituiscono il "tesoro" che
ogni visitatore andrà a scoprire, cortile dopo cortile, nell'itinerario scritto
dagli organizzatori delle Dimore Storiche. Gli artisti di questa sezione sono,
in rigoroso ordine alfabetico: Giovanni Albanese, Roberto Almagno, Andrea
Aquilanti, Stefania Fabrizi, Felice Levini, H.H. Lim, Giuliano Marin, Adriano
Nardi, Marina Paris, Simone Racheli, Maurizio Savini, Adrian Tranquilli...
...Una grande storia - di architettura di alcuni dei più bei palazzi al mondo e
delle famiglie patrizie che li commissionarono, abbellendoli nel corso del
tempo - che non intende rammaricarsi per un passato che non è più, ma che si fa
spirito attivo di una continuità, attraverso la presentazione di alcuni aspetti
dell'intelligente e colta, anche se a volte difficile, arte del
presente..."
Opera
pubblicata: Biquinis (1999)
A. PIPERNO, “Pigneto Gallery”, La Repubblica, Roma, 14 aprile 2000
MARIA KATIA Ficociello, SABRINA Vedovotto, “Invito al Pigneto”, catalogo ed.
Ass. cult. Futuro , Roma, aprile 2000
"...in vetrina questa volta sono finite le opere di artisti contemporanei
invitati a partecipare non solo ad una mostra, ma anche e soprattutto ad
un'idea. Coinvolgere il pubblico in modo diretto e rendere partecipi gli
abitanti del quartiere era lo scopo e quale migliore occasione se non portare
quadri, fotografie e sculture
nei negozi, nei posti che quotidianamente vengono frequentati nella zona? Così
sono stati scelti artisti che si confrontano con mezzi espressivi diversi e di
varie generazioni per offrire una panoramica quanto mai vasta sull'arte,
cercando un dialogo tra il luogo ospitante e le tematiche indagate dalle
ricerche artistiche...
...in un negozio di ottica, dove dalle tele di Adriano Nardi catturano la
nostra attenzione gli occhi penetranti delle sua ipnotiche donne, creando un
gioco di sguardi...
...II suo percorso pittorico è piuttosto complesso: da una semplice immagine
quotidiana, spesso ricavata da immagini prese da internet, ne desume una forma
quasi indistinta, che utilizza come "sfondo" dove poi dipingere
straordinari volti algidi..."
Opera pubblicata:Desert fox (1999)
SABRINA VEDOVOTTO,”Le Naviganti”, testo per la personale all’Ass.cult.Futuro,
Roma, marzo 2000
"... lo “spazio visivo”, come lo intende l’artista, vive sempre una realtà
con il volto dipinto… ... ognuno è memoria del tempo in cui vive ed è ricordo,
immagine di un evento… …i temi affrontati rivolgono spesso la loro attenzione
al problema dell’ecologia, o meglio come dice Nardi “nell’ideale ecologico”, a
lui molto caro. Il tema sociale è, infatti, sempre presente; nella produzione
di ogni sua opera c’è un messaggio molto forte… …messaggio che proviene anche
dalle contaminazioni degli strumenti che utilizza: dalle immagini scaricate
dalla rete, ai volti rubati alle riviste, decontestualizzati e quindi
ricontestualizzati, alle scansioni di pittura ingrandite… … queste naviganti,
la cui bellezza apparente può distrarre per un attimo l’attenzione, sono dunque
messaggere di un mondo carico di contraddizioni…"
FRANCESCA LAMANNA, “Gli artisti e l’università”, libro catalogo Ed.Università
La Sapienza di Roma, 1999
Opere pubblicate: Videofiliazione antioraria (1996), Videomuti (1996).
STEFANO
COLONNA, “L'Antipop, comunicazione individuale nella società di massa”,
catalogo della personale, Edizioni Università La Sapienza di Roma, 1998
" Premessa
Nardi
presenta un laboratorio sperimentale del difficile ruolo della pittura nella
società di massa rivolgendosi a quel pubblico distratto dalla semplificazione
ed usura delle immagini e dei loro significati operata quotidianamente dai
media. L'artista elabora una strategia di comunicazione basata sulla visione
individuale e sulla "buona pittura"; richiede allo spettatore di
pensare la propria visione delle opere in un contesto complessivo attuando una
serie di riferimenti dialettici incrociati con le altre opere esposte;
esperimenta inoltre una sua nuova estetica, modellata sulle rinnovate esigenze
della società dell'informazione e della comunicazione, evidentemente più
complessa della cosiddetta società di massa. La nuova estetica e una sottile
lettura semiotica sono poi a loro volta incapsulate in un'inedita dimensione
meta-pittorica, che si identifica con la pittura stessa di Nardi. Surrealismo,
Metafisica e Pop Art convivono all'insegna di questo esperimento, di cui
Amazonas potrebbe essere il primo risultato concreto.
Video muti
Nelle opere presentate in mostra la piramide tronca ha un forte valore
simbolico. Per comprendere chiaramente tale valore bisogna partire da Video
muti, dove il taglio sistematico delle piramidi permette l'ingresso nella
macchina della comunicazione.
Una volta penetrato all'intemo della macchina, lo spettatore può finalmente
vedere gli schermi dei video presenti sulle basi delle piramidi. Il processo di
comunicazione avviene su entrambi gli assi lineari e su quelli radiali, che
convergono verso un centro virtuale che è l'individuo: il punto di convergenza
dei vertici mancanti delle piramidi. Le piramidi permettono invece la relazione
stessa tra gli schermi, cioè il rapporto interpersonale tra gli individui.
Se infatti, le piramidi avessero tutti i vertici, sarebbe impossibile entrare
all'intemo di Video muti. La troncatura delle piramidi rappresenta quindi
l'attuazione della comunicazione che compensa il potere, anche politico;
viceversa, la realizzazione piena ed autoreferenziale del potere, rappresentata
dalla piramide intera, impedisce la comunicazione.
Video muti non è un'installazione; non richiede l'intervento creativo del
pubblico; non è nemmeno una scultura: è la "macchina di
presentazione" della pittura di Nardi, quando con pittura si intende
l’idea della pittura e quindi l'estetica stessa della pittura.
Video-filiazione
La macchina di Nardi viene letteralmente aperta e resa bidimensionale in Video
filiazione, dove si narra con tono epico il grande tema della comunicazione
sociale. Come in Video muti, le piramidi tronche contengono schermi dipinti con
una ricca serie di citazioni retrospettive, ispirate dall'esperienza della
"lente percettiva" del pittore. Ma, a differenza di Video muti, il
processo di comunicazione si articola in un caos, che è però solo apparente.
L'insieme delle piramidi tronche disegna infatti una complessa geometria
trattale tesa ad abbracciare una dimensione cosmica. La grandezza dei video e
delle piramidi è mutevole, ma non casuale: il lato corto dell'uno coincide con
quello lungo dell'altra, e così via in un susseguirsi quasi organico di forme
vitali.
Si ha l'impressione di assistere ad uno spettacolo imponente, ad una nuova
rappresentazione della società di massa, dove un insieme di individui, una
miriade di monadi, dialogano attraverso reti di comunicazione. Il riferimento
immediato è ad Internet, dove una serie virtualmente infinita di nodi si
interseca in un sistema complesso regolato e sviluppato secondo precise regole
matematiche, ma anche organizzato secondo nuclei di casualità tipici della geometria
frattale, alla quale Nardi si è consapevolmente ispirato per la realizzazione
dell'opera.
Video filiazione può essere letto come una metafora della comunicazione
individuale interpersonale nella società di massa, in cui il video rappresenta
il modo di pensare di un individuo, ma anche il concetto stesso di
individualità.
Déjà vu, oppure una nuova estetica?
Nardi adopera evidentemente strumenti già noti che appaiono "vecchi"
soltanto in una lettura estetico-formalistica. La novità dell'artista si apprezza
invece quando si riesce a cogliere la sua intensa metodologia di lavoro, che sa
cogliere con un nuovo codice estetico-semiotico le linee di tendenza emergenti
dalle turbolenze della civiltà contemporanea.
Quando Nardi presenta Video filiazione con il titolo Video filiazione
antioraria, dimostra un'intenzionale vocazione retrospettiva in cui la
citazione del repertorio figurativo del ventesimo secolo è un'operazione
culturale esplicita e non certo una disattenzione.
Sua Riflessione
Sua Riflessione, da me ribattezzata scherzosamente Sua Emittenza (in onore al
Video, perno dialettico della mostra), presenta per la prima volta caratteri di
figurazione, anche se smorzata in un'atmosfera di Surrealismo o
"metafisica" saviniana. Citazioni della piramide ricorrono di fronte
alla maestosa ed inquietante presenza della Riflessione della pittura su se
stessa all'alba della conoscenza.
L'AntiPop
La Pittura di Nardi è, nell'accezione estetico-semiotica, il "principio
della diversità" (non-identità), cioè dell'irripetibilità dell'opera
d'arte ovvero della sua individualità, in opposizione alla cultura del
consumismo. E in difesa della supremazia della nuova sinergia arte e
tecnologia, che si rivolge non più alla collettività per renderla oggetto della
comunicazione di massa, ma all'individuo-protagonista nel processo della
comunicazione artistica.
Infatti, a differenza della Pop Art, che per definire il principio di unità del
processo di comunicazione, usava la qualità fìsica del mezzo utilizzato,
l'AntiPop utilizza il codice, ovvero una convenzione semiotica tra
video-fruitori, che definisce il principio di identità dell'opera d'arte nella
priorità del soggetto fruitore sull'oggetto inesteticamente
"consumato".
Nella fattispecie, la pittura di Nardi a livello materico corrisponde al mezzo
utilizzato (p.es. pittura ad olio, immagine elettronica), a livello concettuale
la parola pittura corrisponde al codice semiotico del principio d'identità
dell'opera d'arte.
Riassumendo, nel caso di Nardi, la materia della pittura è segno di "non
ripetibilità" e, a sua volta, la "non ripetibilità" della
pittura è strumento di comunicazione individuale interpersonale e torna ad
essere segno di espressione individuale anche a livello semiotico.
Quest'approccio stratificato evidente nelle opere di Nardi esposte in Mostra,
lungi dall'essere gratuita esercitazione intellettualistica, si impone come
un'esigenza profondamente connessa alla complessità dei rapporti di
comunicazione interpersonale e di gruppo che caratterizzano la moderna società
dell'informazione.
AntiPop, quindi, significa morte della tecnologia, intesa però non come ritorno
all'edenica e rousseauiana età del buon selvaggio. La morte della vecchia
tecnologia della società di massa prelude infatti alla nascita della nuova
comunicazione individuale nella società dell'informazione.
Il metapittore: conosci la Natura RGB
Finalmente la serie degli Sparapittore porta alla luce con nitida chiarezza gli
elementi nuovi di un fìgurativo-colto vicino alle esperienze degli anni
Sessanta, ma con intenzioni critiche ed esiti opposti, tanto che, in risposta
all'evento Mostra-Laboratorio di Nardi, è stato coniato il termine AntiPop per
definire questo rapporto di reciprocità ed opposizione che l'Arte di Nardi
assume di fronte alla Pop Art.
Poche ed elementari equazioni definiscono l'ambiente di sviluppo del figurativo
di Nardi: nel caos vi è la perfezione della natura, mentre viceversa la
semplificazione corrisponde all'imperfezione, ad uno stadio non concluso di
crescita, che viene rappresentato dalla serialità e dalla tecnologia espresse
dall'RGB, cioè Red Green Blue, i tre colori del segnale video. Conosci la
Natura è un motto per richiamare l'uomo e l'artista, cioè il pittore, alla
consapevolezza ed accettazione della complessità, che, inquietante, ricorre
nella prima tela come una fastidiosa macchia nera a ricordarci che non si
tratta di schermi televisivi, pronti a fornire pubblicità su prodotti di largo
consumo, ma di pitture singole, individuali, irripetibili.
Amazonas
Lo scontro finale tra Arte e Natura si compie nell'ultima e più accattivante
pittura della mostra. Il ritratto di una donna bellissima è fascinoso richiamo
al "sex appeal dell'inorganico" (Perniola), dove l'elemento
mitologico riesce a prevalere su quello tecnologico soltanto grazie alla
presenza nascosta del meta-pittore, il quale, evidentemente, stanco di
assistere alla Morte dell'Arte, decide di ribaltare i termini della questione a
proprio favore, utilizzando un geniale quanto elementare artificio. Il principio
freddamente tecnologico dell'RGB viene addomesticato e "sconfitto"
dall'ombra delicatamente segnata sul viso della fanciulla. L'RGB ricorre nei
capelli azzurri, nel volto verde e nell'ombra rossa, non più come simbolo della
serialità della società di massa. Così la Natura riacquista se stessa
attraverso l'Arte, la buona pittura, che utilizza l'ombra propria in modo
naturalistico figurativo e rende immediatamente accettabile e gradita al
fruitore l'opera d'arte e il suo messaggio.
Nota sull'allestimento: Nardi ha curato personalmente l'integrazione con gli
spazi del Museo collocando Sua riflessione in uno spazio mediano tra la serie
dei Video e la serie degli Sparapittore RGB. L'illuminazione di Video muti è
assicurata da una lampadina al tungsteno che ricorda una luce calda e casalinga
e filtra attraverso la trama naturale della tela.”
Opere pubblicate: Sua Riflessione (1996), Videomuti (1996), Videofiliazione
antioraria (1996), Videobotto (1996), Sparapittore RGB (1997), Conosci la
natura RGB (1997), El Niño (1998), Amazonas (1998)
AUTORI VARI; “L'Arte contemporanea a Bologna”, Prima Biennale, catalogo della
mostra, Palazzo Re Enzo, Bologna, 1993
Opera pubblicata: Trepiramide (1993).
ROBERTO DAOLIO, catalogo della collettiva al Centro culturale Edison, Parma,
1991
“In un'altra occasione, a proposito di alcuni artisti presenti in questa
mostra, ho avuto modo di parlare di "pelle" e di "cuore".
In un certo senso di interno e di esterno, di qualità sensibili estese e
allargate a comprendere dimensioni sempre più sfumate, ma non per questo
distanti lontane da un sentimento di partecipazione completo. O, quantomeno,
dotato di tensioni attive nel confrontarsi con la contradditoria dinamica
"ipercontemporanea" degli eventi dell'arte. Tutto ciò non tanto per
continuare ad evocare giustificazioni e garanzie di "lateralità",
quanto piuttosto per mirare nuovamente al centro (al cuore) attraverso
superfici periferiche e di contatto mediato. Tale percorso si avvale e si serve
di direttrici e di indicazioni multiple variegate. Non insistesu di un unico
schemapreordinato o sui solchi tracciati da passaggi precedenti. Per questo le
difficoltà esplorative possono essere confuse con variazioni di ordine tematico
o, ancora, con riflessi di perifrasi con iterazioni di procedure in ritardato e
misconosciuto esaurimento.
Le funzioni e i passaggi paralleli degli artisti inglobati in questa tappa di
percorso, si avvicinano a modificare un'attitudine di corrispondenze al di
fuori di qualsiasi emblema o spirito di gruppo. Rimane vigile e costante
un'attenzione estrema ad istituire ugualmente uno scarto nella produzione di
immagini, di oggetti o di eventi nei confronti della
"rappresentazione" e dell'artificio "reale".
L'equilibrio, le relazioni tra le parti, tra il pieno e il vuoto, tra i
rapporti di superficie con spessore cromatico e l'ordine geometrico codificato
in strutture apparentemente arcaiche di Germano Attolini, ridisegnano le
qualità dei materiali classici (come il legno) nella ambivalenza di
un'oggettività seriale ma non standardizzata. L'immersione in un'aperta
circolazione dei segni plastici evocanti un forte senso pittorico, si trova a
definire una spazialità contratta e modulata nell'alternanza delle scansioni e
dei ritmi quasi indistinti e mimetici. L'organizzazione delle immagini
codificate dal linguaggio, dall'abitudine percettiva e dell'omologazione
orizzontale di ciò che rappresenta la diffusa esteticità pubblicitaria o il
concentrato narrativo di una pulsione sentimentale del "bello"
patinato e levigato, trova nella riproduzione - della - riproduzione di
Francesco Bernardi un precipitato oggettuale (in alternanza tra hard e soft)
dell'originalità non soggettiva a cui dare corpo e dimensione
"critica". Per presentare simultaneamente il vero e il falso di una
appropriazione "immateriale" e al tempo stesso tangibile e
plasmabile. Se la realizzazione di formule e di impianti di gioco dalla
necessità interattiva svolge ormai unasorta di funzione sostitutiva del reale,
Nadia Filippini reinventa in alternativa simbolica un linguaggio di segni e di
ideogrammi mobili, frementi e pulsanti a sorpresa, per un percorso di figure
intrecciato con le regole libere di una fantasia leggera e aerea come un
ectoplasma. Modularità e disegno spaziale delimitano e circoscrivano un campo
d'azione di elementi cellulari dalla meccanica e dalla sonorità inquietanti. Un
certo "ordine" delle cose, intese nella serialità della produzione
industriale e nella forzata standardizzazione numerica, riflette una perdita di
senso globale della funzione e degli oggetti al difuori del loro uso specifico.
Eva Marisaldi riapre la catena dei rimandi significativi direzionando la logica
seriale nella rarefatta dimensione di un possibile "decoro" isolato
dalla esclusiva dimensione linguistica. Il "nuovo" ordine degli
oggetti più anonimi si ricompone in strutture visive e plastiche che rivelano
l'adesione ad un progetto forte e sempre più definito. Nel riaffermare una
volontà esclusivamente pittorica Adriano Nardi sollecita e propone una
disposizione simbolica dei rapporti di superficie. Dove l'immagine si frantuma
e si organizza nella spazialità concentrata dei settori e dove la suddivisione
risponde ad esigenze numericamente preordinate. La valenza epifanica del numero
da la possibilità di condensare e di infrangere le qualità fenomeniche delle
forme e dei colori. Duplicazionie moltiplicazioni innestano un processo di
spazialità dilatata in senso temporale e immergono l'immagine nella
"profondità" della superficie. Lo sconfinamento di luogo e i passaggi
continui da una dimensione all'altra di Alessandro Pessoli sottintendono
l'urgenza di un attraversamento dell'esperienza. E, al al tempo stesso, di una
dinamica espressiva non vincolata ad un esclusivo concetto operativo. I disegni
"riprodotti" e conservati nell'integrità di una doppia esposizione e
gli oggetti assunti al massimo grado di concentrazione e di esplosione
simbolica e pragmatica, riflettono una forma di radicale partecipazione
all'analisi critica della realtà. Un'altra pratica operativa, in equilibrio tra
la rappresentazione di un universo iper-naturale filtrato da un'abile
"grafia" pittorica e la dimensione esoterica di un microcosmo
inquieto da plasmare e da scavare con perizia chirurgica, definisce la
determinazione di Leonardo Pivi. A superare dall'interno le dimensioni più
contrastate di un rapporto con il modo in chiave di memoria ancestrale e di
spiritualità "fisicizzata".”
Opera pubblicata: Ecotopia (1991).
ROBERTO DAOLIO, catalogo della collettiva "3°
Laboratorio” alla galleria S. Fedele, Milano, 1990
“Giunge più che mai opportuna, quest'anno, la manifestazione che il centro
culturale San Fedele dedica alle Accademie di Belle Arti. Visto l'attuale e
perdurante stato di agitazione degli studenti e di gran parte del corpo docente
per l'ormai insopportabile stato di precarietà, di anacronismo e di ambiguità,
in cui versano da decenni queste storiche istituzioni. L'urgenza e la necessità
di una riforma non dovrebbero e non potrebbero più essere rimandate se solo si
pensasse realmente (e non a parole) all'approssimarsi di scadenze inderogabili
come l'ingombrante "1992" o il più "mitico" e simbolico
avvento dell'anno 2000. Ciò nonostante, nel rendere conto di questa mostre di
studenti e di diplomati" dell'Accademia di Bologna, non posso fare a meno
di rilevare come la qualità e l'intensità delle idee e delle "cose"
dell'arte qui espresse non possono e non potranno mai sottostare o soggiacere
all'ottusità di chi regola e scandisce l'esistente in modo serio e cieco.
In perfetta sintonia con i tempi, quasi a sottolineare la caduta e il
frantumarsi di molte certezze e di altrettante classificazioni, modelli e
programmi, i giovani artisti invitati, ciascuno a suo modo (e non potrebbe
essere diversamente), dimostrano come e nonostante tutto sia possibile
avvantaggiarsi e trame profitto dalle pieghe di una situazione di crisi,
trasformata di fatto in "status". E in questo modo che le
individualità di caratterizzano e convisono ben oltre i limiti caparbi di una
separazione o di una specializzazione. Pittura, scultura, installazione,
fotografia, disegno e nuove tecnologie ricreano differenze all'interno di un
continuo rapporto di relazioni e di riflessioni sul trasformismmo e sulla
mutevolezza del reale. Se non è facile distinguere una linea di lavoro o un
tratto dominante di ricerca, immediatamente affidabile ad esempi e ad
accadimenti già registrati, è perché è mutato l'atteggiamento e il modo di
procedere. Il disincanto e la consapevolezza di una marginalità nei confronti
dell'universo produttivo, valutato come sistema compatto e monolitico, consente
e favorisce la rielaborazione di attitudini coltivate e "disperse"
nel tempo stesso. Una condizione disorganica e frantumata si pone come
passaggio al riconoscimento della complessità dei saperi (e, del sapere
artistico) nella simultanea conservazione di un rituale debole ma non ancora
sostituito. La maggior parte di questi lavori appare inevitabilmente tesa a
codificare, nelle differenze e nei tratti distintivi dell'entità materiale
scelta, una sorte di identità transculturale. Dove la pittura stessa, nelle
varianti qualitative o stilistiche di un impegno espressivo consumato, alimenta
uno sradicamento di sensibilità e di ideazione nei confronti del
"passato-presente".
In particolare, il materico neo-espressionismo di Gianfranco Beghi, asciugato e
costruito in una messa a fuoco di "racconti" senza narrazione
raffredda il ritmo ossessivo di una proliferazione di figure e di immagini
affioranti dal buio senza tempo del fondo. Mentre l'azione modulare di un rapporto
tra superficie dipinta e frammento-sostegno di un materiale "altro"
affida ad Adriano Nardi il rigore modulato di una anatomia del segno, da
cadenzare secondo ripartizioni precise e numericamente preordinate. Per
Leonardo Pivi pittura e disegno sono un concentrato di rapidi e raffinati
appunti cromatici da disperdere in una infinita serie di piccoli
"frammenti", perfettamente conclusi ma destinati a comporsi sul volto
della parete secondo un ordine libero e variato per logica associazione o per
pura pulsazione interna. La storia e la memoria recitano per Michele Bertolini
un ruolo di efficace quanto riproponibile luogo di differenze, da rinverdire e
da galvanizzare non solo sulle tracce riciclate di un accento new-dada, quanto
sull'evenienza di una considerazione estetico-ecologica non priva di riscatto
ironico e surreale. Nadia Filippini viene a sollevare invece un'esigenza di
accattivanti disposizioni per meccanismi lucidi, programmata cineticamente a
dare vita e sonorità a "Teatrini" pittorici, dove elementi biomorfi,
o più infantilmente oggettuali, ampiano ed amplificano la percezione allo
stupore e alla sorpresa del movimento colorato. Anche Pier Paolo Campanini è
attratto dalla dimensione del gioco, più aperta forse alla contaminazione degli
"effetti speciali" della tecnologia e dei nuovi materiali, abbinati e
mescolati alle antiche tecniche artigianali, per attirare un abile metadiscorso
tra vero e falso, tra reale e artificiale, tra ideale e "progetto".
Per Vasco Geminiani le forme e le figure ritagliate e accampate nello spazio,
nascono da inespressi giochi associativi tra stereotipate immagini mentali e la
loro proiezione conica in un "espressimento" e in una plasticità
semantica ricca di slittamenti e di sottili ambiguità dimensionali e linguistiche.
Roberto Mainardi coniuga, in piena maturità, il più lontano afflato arcaico di
emblemi, di trofei, di aguzzi e puntuti giavellotti, con la più attuale e
raffinata essenzialità neo-minimale: rovesciando tuttavia i canoni di un
impatto percettivo che vorrebbe l'azzeramento di senso e di significato, altera
e modifica i rapporti tra i termini e tra i materiali di una
"scultura" in corto circuito tra passato e futuro. Anche le immagini
e le scritture più formalizzate e analizzate della stereotipia delle
riproduzioni e dei caratteri tipografici possono rientrare, a buon diritto, nel
canone della rilevanza estetica, se il sistema che le accoglie è filtrato
dall'artista e dalla totalità del suo aspetto concettuale, come succede per
Francesco Bernardi e per le sue "simulazioni" in fotocopia ormai
assunte ad un implacabile ed etereo effetto "sublime". Alessandro
Pessoli riesce a monovrare i fili dello stordimento fisico sulle varianti di un
atteggiamento globalizzante che nell'ostentare la diversità e l'alterità
dell'arte, sovverte la riconoscibilità delle tecniche, delle forme e degli
oggetti, al massimo dell'estensione e della "realtà". Per Eva
Marisaldi il concetto di spazio e di ambiente è misurabile e abitabile solo
attraverso la riproposta di oggetti, di situazioni e di eventi, tradotti in
sottile rilettura plastica e formale con l'ausilio di mussole, di garze, di
tele e di cotoni grezzi o raffinati. Idee ed oggetti di uso comune e quotidiano
riaffiorano misteriosamente ed impassibili a cadenzare , a rendere soft o ad
annullare l'impatto fisico con le rigide dimensioni spaziali.”
Opera pubblicata:Transgredior (1989).
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