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ADRIANO NARDI

TESTI CRITICI

 

 

PIENICOLA MARIA DI IORIO, “Un anno drammatico! Violenza di genere e l’impatto del coronavirus”, catalogo mostra collettiva Womahr. Women Art Human Rights for Peace, Gangemi editore, novembre 2020. ISBN 978-88-492-3974-4  Opere pubblicate: Babysh (1999), Oil carpet (2002).

 

“... Adriano Nardi, con un'opera emersa dalla sua riflessione pittorica dedicata al movimento di Seattle, rivoluzione culturale degli inizi degli anni 2000 in cui rappresenta una texture ricca di una folla furiosa, carica di rivalsa e determinata dalla voglia di reagire ad un mondo che l'artista non condivide, esausto di una saturazione ambientale e idealistica viene posta sotto l'aura di una visione, quasi una illuminazione che disgrega la violenza a favore della nuova riflessione ecologista e protagonista di un futuro più equilibrato ...”

LORENZO CANOVA, "Gli intrecci di Womhar. Arte contemporanea per l’agenda donne, pace e sicurezza",  catalogo mostra collettiva Womhar. Women Art Human Rights for Peace, idem come sopra.

“... Babysh (1999) di Adriano Nardi presenta un volto di bambina dipinto su una texture che, osservata con attenzione, si rivela come una folla di manifestanti, immagine visionaria e utopica di speranza per un futuro che superi gli scontri e possa diventare finalmente pacifico, in particolare grazie al contributO attivo delle donne e alla loro presenza sempre più forte nel contesto politico mondiale…”

BIAGIO FEDELE, "Racconti di un collezionista", Monopoli (Ba) Luglio 2020.

   "... Nel 2007 ho subito un delicato intervento al nervo acustico che mi ha tenuto per un pò lontano da tutti gli artisti e dalla mia amata galleria, ma per fortuna la mia ripresa ed il fatto di aver ampliato gli spazi espositivi con il trasferimento della galleria nel mio vecchio studio da imprenditore edile in Via Mazzini, mi hanno consentito di rimettermi in gioco ricontattando i "miei artisti" e di ricominciare a coltivare la mia grande passione. Dopo lo stop forzato, uno dei primi contatti con il mondo dell'arte fu certamente l'augurio di prontissima guarigione pervenutomi nell'Aprile del 2007 insieme ad alcuni cataloghi da parte di un grande artista come Adriano Nardi e dalla sua gentilissima signora Sabrina. Ricordo ancora l'episodio con molto piacere e ci penso ogni volta che ammiro le sue splendide opere facenti parte della mia collezione. ..."

 

CARLO FABRIZIO CARLI, "Il Premio Vasto nel quadro dei premi pittorici italiani" testo in catalogo della mostra Premio Vasto 2020. Le opere della collezione, Agosto 2020. ISBN 978-88-6497-110-0 Opere pubblicate: Il Manifesto di Basmina (Minimal Divide Manifesto) (2003).

 

" ... La circostanza che le giurie del Vasto fossero ripetutamente presiedute da un critico di gusto assai fine, di tendenza conservatrice, come Virgilio Guzzi, mi sembra accreditare un generico ma sostanziale inserimento del Premio nell'ambito degli indirizzi di stile e gusto impressi alla Quadriennale da Fortunato Bellonzi, durante la sua lunga, ultratrentennale conduzione dell'istituzione romana. In effetti nella raccolta del Premio Vasto si può constatare una notevole presenza di pittori partecipanti alle Quadriennali (in particolare dalla V edizione alla XI, esperienza magari replicata più volte: Alessandro Algardi, Guido Biasi, Carlo Caroli, Angelo Maria Crepet, Gioxe De Micheli, Antonio Di Fabrizio, Marcello Ercole, Alberto Gianquinto, Piero Manai, Neno Mori, Marcello Muccini, Ennio Pozzi, Guido Prayer, Massimo Quaglino, Oreste Zuccoli, possono costituire una conferma di questo discorso e la testimonianza di come i giurati del Vasto ancorassero le loro scelte a meccanismi selettivi, per l'epoca, qualitativamente ben fondati).

Occorre poi sottolineare il ruolo fondamentale assolto, nel Premio Vasto, da un nucleo di giovani che alla Quadriennale avrebbe partecipato in una stagione più recente: Matteo Basile, Paolo Consorti, Alberto Di Fabio, Stefania Fabrizi, Adriano Nardi, Marco Verrelli, Dany Vescovi. E fu forse questo, per il Vasto da un tale punto di vista, il periodo più stimolante.

Ciò sempre chiedendo venia per qualche involontaria omissione, e ringraziando Daniela Madonna e Debora De Gregorio per la loro preziosa pubblica-zione // Libro del Premio Vasto. Indagini, traguardi, prospettive (Vasto, 2007), gremita di notizie e di immagini utilissime, e recante i nomi dei curatori, dei partecipanti, dei premiati, dei giurati.

Suffragati da un così puntuale repertorio, si resta stupefatti constatando il gran numero, e soprattutto la qualità, di artisti che hanno esposto nelle sale del Premio (concretamente: prima ['Istituto "Carlo Della Penna", poi il Palazzo delle Esposizioni, ancora ['Istituto "Filippo Palizzi", infine Palazzo d'Avalos e le Scuderie di Palazzo Aragona), come pure dei critici richiamati in città in occasione del Premio.

Ancor più della già accennata trascuratezza verso l'area linguistica dell'astrazione, sorprende la ridotta presenza di opere afferenti a una poetica di realismo esistenziale e a tematiche di carattere sociale che pure, negli anni Cinquanta e Sessanta, erano ampiamente praticate in Italia, anche a motivo del coinvolgimento politico, che, invece, dovette penalizzare la loro presenza alle edizioni del Premio Vasto. Tra le rare eccezioni a questa constatazione si possono rammentare Giannetto Fieschi e un artista peligno, dal percorso tutto sommato solitario ma stimolante, qual è stato Italo Picini. Altra presenza anomala La luna e la scala di Alberto Gianquinto, che è, comunque, un dipinto alquanto insolito nella poetica dell'artista, appartenente al versante più lirico,

intimistico e meno ideologico.

Giunge qui l'occasione di segnalare un gruppo storico di artisti abruzzesi dal respiro e dal riconoscimento talvolta anche internazionale, tutti in piena adesione alla pittura d'immagine: Gabriella Albertini, Carlo D'Aloisio da Vasto, Gigino Falconi, Giuseppe Fiducia, Leopoldo Marciani, Gaetano Memmo.

La raccolta del Premio Vasto, come si è avuto modo di constatare, ha osservato coordinate culturali tutte italiane: unica, parziale eccezione, la presenza di un

pittore statunitense, però saldamente italianizzato: Robert Carroll. Ancora: se il  Vasto  -  quanto  meno  nell'aspetto  che  al  momento  più  ci  interessa,  ovvero  il regesto delle opere acquisite ..."

 

LORENZO CANOVA, "Un lungo viaggio nell'arte. La collezione del Premio Vasto." (paragrafo: Nuova immagine italiana), ibidem.

 

" ... 3. Nuova immagine italiana

Dopo una lunga pausa, dovuta alla fine della formula dei premi acquisto, il Premio Vasto ha ricominciato poj ad arricchire le sue collezioni grazie alla lungimiranza di Roberto Bontempo, che, a partire dall'edizione del 2003, è riuscito a fare delle acquisizioni mirate di opere di artisti italiani delle ultime generazioni, anche con la parallela realizzazione del progetto IncontrArti dedicato ai giovani autori legati al territorio nazionale.

Nella collezione sono entrati così lavori di pittura, scultura, fotografia e arte digitale che hanno sviluppato il precedente filone iconico del Premio, in ricerche che hanno attinto fecondamente non solo al linguaggio dei media e alle nuove tecnologie, ma anche al ricchissimo repertorio dell'arte del passato, una sorta di codice genetico vissuto come un'immensa fonte di stimoli e di suggestioni da

elaborare con vocaboli nuovi.

Le raccolte del Vasto si sono così dotate della presenza di alcuni tra i più interessanti interpreti della nuova arte italiana, in un attraversamento che ha documentato molti aspetti significativi del primo decennio del nuovo secolo. La forza dell'arte italiana di quegli anni è stata infatti quella di essere composta da molte particolarità destinate a completarsi in un quadro d'insieme molto vitale, dove le differenti possibilità espressive si sono integrate in un panorama di grande varietà e di feconda ricchezza.

Il  nuovo  dialogo  tra  le  diverse  forme  espressive  ha  del  resto  arricchito  anche la fotografia, le tecnologie digitali e il video, mescolando le tecniche di rappresentazione in una fusione dove le diverse visioni hanno dialogato e scambiato spunti, soluzioni e iconografie.

Nella Collezione troviamo così le opere digitali e fotografiche di Matteo Basile, con il suo sincretismo di culti e di suggestioni intellettuali, di Alberto Di Fabio, con la sua metamorfosi subacquea fatta di rimandi classici e di mutazioni biotecnologiche, di Alessandro Grisoni con le sue architetture contemporanee dilatate dal grandangolo, di Fabrizio Sclocchini con omaggi a Duchamp composti dagli ingranaggi di macchine inutili e abbandonate, di Nicola Vinci, con la teatralità spettrale e gotica dei suoi personaggi teatrali e misteriosi.

Come si è visto, nel rispetto della tradizione del Premio, anche la pittura e scultura iconiche sono molto ben rappresentate in questa seconda parte della Collezione, con la visionaria immagine di inquietanti ed enigmatici danzatori tra le fiamme di Stefania Fabrizi, la fusione di colore a olio e digitale nel volto di Basmina del quadro di Adriano Nardi, i viadotti silenziosi e i manichini metafisicamente futuribili delle opere di Marco Verrelli, le accese scansioni artificiali della natura tecnologizzata di Dany Vescovi, le trame decorative della ragazza senza volto di Andrea Buglisi, il caos primigenio dei paesaggi con figure di Paolo Consorti, la ruggine e gli smalti delle strutture industriali di Alessandro Busci, le figure drammatiche e monocrome di Andrea Mariconti, le anatomie plastiche e michelangiolesche di Matteo Pugliese. …".

 

 

ROBERTO BORGHI, "Classici scambi", testo in catalogo mostra "Scambi tra scene. Teatro e arti visive (e viceversa)", edizione I quaderni di Hesperia - 3, Origgio (Va), Novembre 2019. ISBN: 978-88-943980-3-8

 

Le arti visive catturano sempre più spesso l'attenzione della drammaturgia contemporanea. Questa, perlomeno, è la sensazione che si ricava da uno sguardo complessivo sulla scena teatrale milanese. Negli ultimi anni i cartelloni dei palcoscenici ambrosiani hanno proposto spettacoli dedicati alle vicende biografiche, alle intuizioni estetiche, ai tormenti creativi di Mark Rothko, VincentVan Gogh, Frida Kahlo, Alberto Giacometti, Edward Hopper. L'esistenza di Amedeo Modigliani, nei cui snodi gioca un ruolo non secondario il rapporto con uno spregiudicato gallerista, è stata al centro persino di un temerario e appassionato musical andato in scena al Teatro Leonardo tre anni fa1. La più recente piece di Fausto Paravidino, rappresentata ad aprile 2019 all'Elfo Puccini2, inizia in una galleria trendy di Londra e si conclude in un museo d'arte contemporanea di Berlino.

Tra i fattori che possono motivare quest’attenzione o, forse meglio, questa curiosità, c’è la crescente attitudine dell’arte contemporanea a “fare notizia”: per le cifre spropositate raggiunte dalle aste, per la sbrigativa mitizzazione di cui sono oggetto molti artisti, per le elucubrazioni e le provocazioni a meri fini mediatici sottese a troppe opere di successo. Ma c’è anche la progressiva importanza che l’elemento visivo - anzi, specificamente cromatico - ha acquisito nella costruzione degli spettacoli, elitari o nazionalpopolari che siano.

La curiosità però non sembra essere reciproca: oggi il teatro è una dimensione pressoché ignorata dagli artisti, e non solo dai più giovani. A costo di apparire nostalgici, va detto che la situazione non è sempre stata questa. Dalla fine degli anni Settanta, lungo tutti gli Ottanta e sino all'inizio dei Novanta - cioè in tempi in cui la memoria delle avanguardie era ancora viva - la scena artistica sperimentale si è contaminata senza eccessiva diffidenza con il teatro di ricerca. A Milano in particolare le sale dell'Out Off e del CRT hanno ospitato con una certa frequenza le creazioni di artisti e performer attivi in gallerie e spazi alternativi. La copertina di questo catalogo riporta una foto delle sculture realizzate nel 1991 da Milo Sacchi per l'Erodiade di Giovanni Testori, allestita con la regia di Antonio Syxty proprio all'Out Off: "uno stilizzato trono barbarico, una grande croce obliqua tempestata di teschi", come ha scritto Giovanni Raboni, che si innestano nel "severo, disadorno, scostante evento rituale" predisposto dal regista seguendo dei "propositi di algida, raccapricciante linearità liturgico-feticistica"3.

Ernesto Jannini, Adriano Nardi, Maurizio Calza, Clara Brasca, Giacomo Spazio, Antonio Syxty - gli artisti presenti con le loro opere nelle stanze di Villa Borletti - hanno conosciuto questa stagione di scambi fecondi fra teatro e ricerche visive. Alcuni tra loro hanno calcato la scena in qualità di perfomer o attori, altri collaborano tuttora con storici palcoscenici italiani come registi o scenografi, altri ancora hanno indagato attraverso i loro lavori la dimensione del tragico, ovvero il nucleo di concezioni da cui ha avuto inizio la storia del teatro occidentale. Tutti, in fondo, hanno la consapevolezza che la scena intesa nella sua accezione più trasversale, ovvero come spazio emblematico della creazione artistica, è il luogo della rappresentazione, ma nel valore etimologico del termine. Il verbo latino repraesentare scaturisce dal montaggio delle particelle re-ad-prae-(s)ens, in una composizione quasi sinfonica di significati che rimanda al gesto di riportare qualcosa alla presenza di qualcuno, però rivelando anche il senso di quel qualcosa4. Nella rappresentazione artistica la vita, una volta trascorsa e consegnata alla memoria, ritorna in scena con l'aggiunta del suo senso, o perlomeno dovrebbe. La storia delle arti del

Novecento è attraversata da una costante e tormentata verifica del modello rappresentativo, dalla quale scaturisce l'oscillazione continua tra contestazione e canonizzazione, tra sabotaggio e ritorno all'ordine. Strattonati dalle avanguardie, il teatro e le arti visive sono stati gli ambiti espressivi in cui questo modello è stato maggiormente messo in crisi, soprattutto a causa dello scarto, della distanza non solo temporale, tra la vita e la sua riproposta sulla scena, tra il dato esistenziale e la sua   riformulazione nell'opera. A metà strada tra spettacolo e tableau vivant - inteso come traslazione corporea di un'immagine pittorica -, la performance è stata il genere che, nel passaggio tra moderno e postmoderno, ha accomunato la scena alternativa dell'arte e quella del teatro off. Ideatori e attori di performance sono stati, in modi specularmente opposti, Giacomo Spazio e Antonio Syxty. Tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, le loro azioni si sono collocate su crinali agli antipodi: all'esaltazione della casualità, del vediamo come va a finire, di Spazio, ha fatto da contraltare la progettualità minuziosa, quasi asfittica di Syxty. La vita, nelle performance di Spazio, è qualcosa che, invece di essere rappresentata, si presenta, si affaccia sulla scena per rivendicare la sua natura accidentale, la sua imprendibilità. Nelle azioni sceniche di Syxty, la vita è un meccanismo arcano; è un meccanismo, quindi ha un tragitto preordinato che, in questo specifico caso, segue un andamento circolare, tautologico; ma è arcano, inesplorabile nelle sue più profonde logiche di funzionamento: è al massimo ripetibile, ma anche la ripetizione può avvenire soltanto in un clima ermetico che, persino quando sembra virare al parodistico, ha un tono intrinsecamente minaccioso. Detto altrimenti: la vita, per Spazio, è irrappresentabile perché si situa in un presente continuo del quale l'arte può dare al massimo testimonianza; per Syxty non è rappresentabile perché segue uno schema che avvertiamo come perennemente identico e oracolare allo stesso tempo. Non sorprende quindi che la pittura di entrambi, più che astratto, sia a-rappresentativa, sia fondata su sedimentazioni di materiali e immagini preesistenti che, nei lavori di Spazio, vengono mescolati e lacerati sino a diventare percettivamente inafferrabili, nei dipinti di Syxty, si mutano in alfabeti di segni impenetrabili, trascrizioni di un inconscio che si esprime per vaticini.

A-rappresentativa, e pregna di suggestioni oracolari, è anche la pittura di Maurizio Calza. Mi ostino a chiamarla pittura, sebbene consista in opere dal vistoso assetto scultoreo, perché al suo interno scorgo rimandi a quella tradizione di pensiero che si è interrogata sullo statuto della rappresentazione proprio attraverso le immagini pittoriche. Forse, più che a-rappresentativa, l'arte di Calza è pre-rappresentativa: si situa in un'ipotetica fase della storia dell'umanità in cui il rito ha ancora il sopravvento sulla rappresentazione, e in particolare su quella teatrale. È risaputo d'altra parte che nell'Atene del V secolo B.C., quando le tragedie vengono per la prima volta messe in scena nell'ambito delle feste dedicate a Dioniso, il teatro è "situato ai piedi dell'Acropoli adiacente al tempio" del dio notturno ed è "fornito di un altare al centro dell'area di azione"5. L'Altare esposto a Villa Borletti però non è nemmeno dedicato a Dioniso, ma a un dio misconosciuto: la poetica di Calza fa riferimento a un senso del tragico arcaico, preclassico, antecedente quindi alla sua formalizzazione in genere teatrale avvenuta nel corso del periodo classico della storia greca. Il tragico come percezione ancestrale del sacro, come timore atavico, come energia primaria destabilizzante che scompiglia le geometrie, le conduce a una pericolante instabilità, e adultera i colori della natura insinuando delle tonalità acide, disturbanti. Al contrario, la pittura di Clara Brasca è pienamente classica, come dimostra lo sguardo che essa posa proprio sulla tragedia. Nei volti istoriati delle eroine tragiche, il senso di enigmatica inquietudine sembra quasi rapprendersi in presenza di un'idea di classicità "alla quale – scrive Salvatore Settis - continuiamo nonostante tutto a connettere valori ritenuti universali, come la perfezione, la misura, l'equilibrio, la grazia, l'intensità e la naturalezza dell'espressione"6. Universale equivale ad atemporale? Il classico deve essere inteso come qualcosa di "inalterabile e perpetuo"7, come un'entità a-storica, iperuranica, immobile? Una possibile risposta a questo interrogativo sta in opere come Pennellata: la Venere che traccia una pennellata lichtensteiniana allude a un'origine inevitabile - quanto può essere classicheggiante persino la Pop - e insieme a un possibile orizzonte verso cui tendere; ma è soprattutto la manifestazione di un cortocircuito della storia, che in modo più o meno opportuno abbiamo chiamato postmoderno, in virtù del quale il classico si  rivela come il desiderio  proibito  delle avanguardie, e la tragedia risalta in quanto genere per antonomasia della sperimentazione teatrale.

 

Il binomio immaginario classico - iconografia pop può esserci d'aiuto per accostare il lavoro di Adriano Nardi. Le figure femminili che compaiono in parecchie delle sue opere provengono da pubblicità e riviste di moda, cioè dalla fonte primaria dell'impetuosa ondata neo-pop che ha travolto l'arte degli ultimi decenni. Eppure la sua prima personale era intitolata Antipop, e in effetti tutto il suo percorso creativo si contrappone alle logiche di consumo dell'immagine prescritte dal sistema della comunicazione. Per giunta la sua riflessione teorica ruota attorno all'impossibilità - o forse a una sorta di possibilità condizionata - della rappresentazione nell'era digitale. Mi sembra però che al fondo di questo artista così sfaccettato, capace di spaziare dalle scenografie per i grandi teatri della Capitale a visionarie operazioni concettuali, vi sia un sentimento tragico del mondo che orienta tutto il suo agire: che lo spinge, per esempio, a raffigurare un teatro in macerie - quello distrutto dai bombardamenti nella regione siriana di Ghouta - nel modo allo stesso tempo più solenne e conturbante possibile; e che lo porta a evocare un macroscopico paesaggio permeato di allusioni somatiche, quasi fosse un corpo sofferente, con organi ancora in via di formazione. Uno sentimento tragico che sembra richiamarsi a un'intuizione paradossale del classico: un classico selvaggio.

 

L'allestimento della mostra nelle stanze di Villa Borletti prevede che le opere di Nardi fronteggino quelle di Ernesto Jannini. La scelta non è solo dettata dalle vaste dimensioni dei lavori di entrambi, ma ancora una volta da un'antitetica percezione di che cos'è, e di come si manifesta, il classico.  Jannini, come scrive Viana Conti, "ha calcato per anni le scene teatrali" e, "da attore partenopeo qual è stato", risulta "inconfutabilmente segnato dalla classicità greca, insita nel suo DNA"8. Nelle opere recenti – come Pulcinella robotico, del 2017, e il coevo, ma non esposto, Gran Torneo - si fa evidente anche l'interesse per i movimenti netti e sincopati dei robot ma, soprattutto, dei loro antenati, vale a dire le marionette.

Se la formula non fosse davvero abusata, oltre che filologicamente scorretta, sarei tentato di dire che nel caso di Jannini il classico ha tratti apollinei, e lineamenti dionisiaci in quello di Nardi. Alla base della ricerca dell'artista napoletano mi è sempre parso di avvertire qualcosa di congelato ma incredibilmente non freddo: qualcosa che ha la rigida solidità conferita da un processo di congelamento – e se dovesse muoversi, lo farebbe con gesti a scatti, come i robot e le marionette – ma è comunque caldo, nel senso che possiede un'intensità sensoriale e si manifesta in modo spettacolare. Questa stessa paradossalità percettiva, insieme con uno spiccato senso dell'arcaico - nell'accezione etimologica dell'arkè, dell'origine delle cose - mi sembra caratterizzi la grande installazione a parete intitolata Cantico delle creature in cui assistiamo, come scrive Luigi Meneghelli nel catalogo della mostra Theatrum, a "un diluvio di immagini che si allargano sino a comprendere orizzonti sempre più vasti, combinando tra loro fantasie figurali e favole pitagoriche". Persino le "cerniere in acciaio che sostengono l'intera opera portano istoriati numeri oracolari e lettere ipnotiche che sembrano rinviare a un sapere dei primordi"9.  La Sala della Musica di Villa Borletti ospita invece una sezione della mostra focalizzata sulla Scala: il teatro per antonomasia in cui, in passato, si sono contaminate la scena delle arti visive e quella della drammaturgia musicale. Però, appunto, in passato: le collaborazioni con i grandi pittori italiani nella realizzazione di scenografie operistiche si sono concluse con la fine del Novecento. Verso la fine del XX secolo i palchi della Scala sono stati l'eccezionale sede di una mostra fotografica dedicata alle persone che avevano lavorato perlopiù dietro le quinte - tecnici di scena, musicisti in pensione - assieme ad alcuni grandi direttori d'orchestra, celebri tenori e danzatrici. Quelle immagini scattate in un rigoroso bianco e nero da Paola Bobba e Anna Rosa Faina Gavazzi, sono state poi raccolte in un libro stampato da Valentina Edizioni nel 2000. Il titolo di quel volume, La Scala. Racconti dal palcoscenico, dice molto delle immagini esposte a Villa Borletti, che sono appunto delle biografie narrate attraverso dei ritratti fotografici, eleganti almeno quanto stranianti, che sembrano richiamarsi alla ritrattistica pittorica ottocentesca. Accanto a queste foto, nella Sala della Musica è presente una serie di lavori su carta di Bruno Gianesi, artista che ha a lungo ricoperto il ruolo di direttore creativo della maison Versace, ispirati a coreografie di Maurice Béjart e William Forsythe. Insieme con Gianni Versace, Gianesi ha ideato i costumi indossati dai danzatori per celebri balletti andati in scena alla Scala, oltre che in numerosi altri palcoscenici internazionali. La Sala della Musica ospita numerosi disegni che riproducono fedelmente i progetti degli abiti e alcune libere rielaborazioni delle atmosfere delle coreografie, oltre che del peculiare clima creativo che contraddistingueva il marchio di moda.

Per una significativa coincidenza, anche queste opere su carta risultano in fondo degli omaggi all'immaginario classico, rivisto alla luce di un gusto espressionista. In apertura del percorso espositivo della mostra sono presenti alcuni fondali degli anni Trenta appartenuti alla compagnia di Domenico Rame – il padre di Franca Rame - poi entrati a far parte di un vasto archivio di materiali teatrali curato da Antonio Zanoletti: esempi di una pittura apparentemente naif, ma in realtà con risvolti di inattesa raffinatezza, che rimanda a quelle situazioni metafisiche di cui era pregna l'arte tra le due guerre.

 

1 Modì - L'ultimo inverno di Amedeo Modigliani, libretto, testi, musiche di Gipo Gurrado, una produzione Odemà/Tiktalik andata in scena al Teatro

Leonardo di Milano nell'aprile 2016.

2 Il senso della vita di Emma, testo e regia di Fausto Paravidino, una produzione del Teatro Stabile di Bolzano andata in scena all'Elfo Puccini di Milano nell'aprile 2019.

3 Giovanni Raboni, Quella testa mozzata "parla" con Erodiade in "Corriere della Sera", 28 novembre 1991, p.38.

4 Sulle sfumature semantiche del concetto di rappresentazione andrebbe letto un bellissimo saggio di Virgilio Melchiorre, Sul senso della rappresentazione in "Comunicazioni sociali", (2) 1979, poi in

Id., Essere e parola, Vita e Pensiero, Milano 1993.

5 Glynne Wickham, Storia del teatro, il Mulino, Bologna 1988, p, 85.

6 Salvatore Settis, Futuro del classico, Einaudi, Torino 2004, p.103.

7 Cit., p. 92.

8 Viana Conti, testo introduttivo a Gran Mercato, personale di Ernesto Jannini presso la galleria Silvy Bassanese, Biella, marzo-aprile 2010.

9 Luigi Meneghelli, testo introduttivo al catalogo della mostra Theatrum, galleria La Giarina, Verona, 2018, p. 9. In questa mostra erano presenti alcune delle opere esposte a Villa Borletti.

 

Opere pubblicate: Paesaggio interno (2019), Paesaggio interno esterno (2012), Teatro di guerra (2018), Headdtrance in Yarmouk, Syria (2015-2018).

 

 

 

LUIGI MENEGHELLI, "Theatrum", testo in catalogo, edizione galleria La Giarina Arte Contemporanea, Verona, Giugno 2018.

 

"Il momento  in  cui  parlo è già lontano da me. J. L. Borges, Atlante

    — Questa è solo la cornice materiale del teatro, il suo apparato esteriore, la sua struttura convenzionale. In realtà il teatro è un "non-luogo" o una "dimensione mistica" che unisce lo spazio fisico alla metafisicità della rappresentazione. Direbbe Carmelo Bene: "È quando si spegno la luce [...]. È parlare parole incomprensibili perché la gente non deve andare a teatro a riconoscersi": casomai a perdersi, ad essere risucchiata dall'altrove.

    Tuttavia, quella che in uno parola possiamo chiamare scenografia (o apparato teatrale) non è qualcosa di statico, una semplice organizzazione o un arredo dello spazio scenico, è un elemento vivo: sono oggetti che vanno, che vengono, si muovono. Certo non prevalgono sullo spettacolo, ma ne condividono la capacità di "far vedere" l'invisibile, di costruire "l'altro mondo". Sono come echi del rapporto (spesso drammatico) tra i personaggi, capaci di svelare l'inconscio del testo e dell'azione. Di più: la scenografia porta in sé anche una sorta di componente rituale simile a quella di un altare: su di essa (o attraverso di essa)  l’attore celebra la sua recita, la sua "messa in scena". E quando egli ha terminato la sua "performance" e il sipario si è chiuso, la sala rivela ancora un'atmosfera sacrale, misteriosa, ultramondana. E’ un sogno non finito e pronto a riprendere in ogni momento la sua azione visionaria. Forse è il fascino di questa vita potenziale, l'esplorazione di possibili altri modi di esistere ad aver sedotto grandi artisti contemporanei, come Burri, Calder, Paladino, De Maria, Kentridge, a mettere le loro firme a famose scenografie. Essi hanno trovato nel teatro l'occasione di proiettare il loro linguaggio fuori da se stesso, dando corpo patente alle simulazioni, agli sdoppiamenti, alle "verità d'ombra".

    Ebbene, i tre artisti in mostra (Clara Brasca, Adriano Nardi, Ernesto Jannini) presentano lavori che sembrano venire dopo (o a latere) e porsi come commenti e analisi di ciò che accade davvero a teatro. In questo caso, non potendo fruire dello prova del fuoco del palcoscenico, essi realizzano immagini che sono riflessioni sul senso dell'inganno, del "vedere doppio" o del "vedere un doppio". Non hanno macchine sceniche da costruire, per cui non possono che ricorrere a giochi allusivi e illusivi. Solo che le loro illusioni sono paradossalmente più depistanti di quelle che s'inverano in scena. Hanno la malizia del tromp-l'oeil, che aggiunge al fascino formale dello pittura il fascino spirituale dell'inganno visivo, della mistificazione dei sensi.

ATTO I

— È così con i "ritratti ideali" che dipinge la milanese Clara Brasca su carte di grandi dimensioni: carte che toccano terra o si avvolgono su se stesse come antichi rotoli ...

...

ATTO II

Diversa è l’attenzione che richiede il grande sipario di Adriano Nardi (Teatro di guerra, 2018), dove l'artista romano cerca di dar corpo a un'immagine tormentata della distruzione della città di Goutha in Siria. Nel suo caso, solo la distanza mette a fuoco la totalità della scena, l'immenso rovina che si manifesta sulla tela.

Da vicino invece si coglie una pericolosa avventura di liquefazione, di disgregazione luminosa della pittura: sono gesti anarchici, slanci fermati in volo, ritmi sincopati. È inutile cercare un appiglio, un aggancio in questo spazio tentacolare e smagliato. Qui non si da inizio o conclusione, ma solo incroci, crocevia, inabissamenti, e anche  ascese, riti cerimoniali della superficie e della profondità. Ed è come se qualcosa del tempo, del

consumo del corpo, della respirazione s'inscrivesse sulla tela. Del resto, non diceva Delacroix: "Quando sono nel mio atelier entro in scena"? Ma la pittura di Nardi appare anche eretta, alzata, parietale: è movente, apparente-scomparente, per eccessi, per crisi, per danze, una pittura "soffiata" come se fosse fatta da un attore. E che l'artista pensi costantemente al teatro lo attestano anche le piccole foto ritoccate della serie Headdtrance in Yarmouk (2018), dove delle figure femminili fanno da introibo alla scena, come avveniva nelle recite di un tempo o quel "patchwork" di frammenti di tela dipinta (Against all violence, 2017) che rimanda allo spazio intessuto di inesauribili e indicibili relazioni che è il palcoscenico.

 

ATTO III

— Infine, nelle installazioni e nei dipinti dell'artista di origini napoletane Ernesto Jannini si possono trovare le infinite tracce di possibilità visiva che il teatro ha costruito nel corso del tempo e nel fondo del nostro immaginario ...

...

— Così la galleria più che un luogo teatrale, ri-crea un'atmosfera teatrale. Mostra enigmi, rebus visivi, simulazioni, capricci. Chi passa davanti alle opere può provare la vertigine barocca del non finito, del differito, della meraviglia. Non interessa svelare la macchina scenica, mostrare gli ingranaggi, i materiali, i funzionamento, ma sorprendere il teatro come "mondo a parte". Si dice che nessun testo, nessuna regia, nessuna scenografia possa sostituire la presenza fisica dell'attore o anche che "il corpo è l'essenza del teatro". Qui in apparenza non ci sono danze o recite, almeno visibili, ma solo

perché il movimento si cela nelle immagini: è una presenza inferiore, è un pensiero in atto. Con l'aggiunta inattesa che lo stesso spettatore, in fondo, può diventare attore, personaggio di una scena alternativa. In altre parole si è tolto quel velo di complicità (o di banalità) che di solito ci offusca la vista quando si parla di teatro: si è voluto mettere in scena il puro atto di guardare, facendone problema."

 

Opere pubblicate: Teatro di guerra (2018) Headdtrance in Yarmouk, Syria (2015-2017), Trancesuicide (2015), Against all violence (swastika) (2017), Headdtrance in Yarmouk, Syria (carte 2015-2018).

 

 

GABRIELE PERRETTA, ”Suicide painting”, Segno 261, p. 55, recensioni e documentazione attività espositive, Febbraio/Marzo 2017.

 

 "Nel mondo d'oggi ci sono sempre meno artisticità dominanti e culture dell'arte. Le immagini e i principi generali d'ordine seduttivo marciano più celermente di quelli politici. Gli scambi sul piano mediale si servono  di strumenti di comunicazione estremamente agili, per i quali le barriere della distanza sono irrilevanti. Molte sono state - dagli inizi degli anni Ottanta del XX sec. - le suggestioni che in qualche modo hanno toccato l'arte italiana: basti ricordare l'influenza esercitata, fino all'ultima generazione della pittura e dell'immagine mediale, dai fotografi e dai rotocalchi. Oggi (e non da oggi soltanto) questo prestigioso mito si è centuplicato. Esso era in un certo modo legato ad un culto un poco astratto, ad una nozione accentuata e quasi esclusiva dell'idea di digitale. Il suo successo non ha coinciso soltanto con la scomparsa dei grandi protagonisti del pop dei primi anni '60 d'oltralpe ma con quella ripresa della coscienza mediatica che ha saputo animare i pittori e gli illustratori, soprattutto a cominciare dagli anni '90. Con quella data comincia il vero viaggio oltre i confini della pittura d'immagine e del nostro schieramento mediale, un po' onnicomprensivo fino ad allora, a varcare perfino la dogana della contaminazione totale. Tra i maggiori istigatori di questo ampliamento di orizzonte va ricordato soprattutto Adriano Nardi. Tuttavia, ora che la situazione appare più navigata, che cosa persiste di quei motivi mediali sui quali Nardi ed altri fecero leva per rompere il provincialismo e l'estetismo che riducevano se non mortificavano la dimensione popolare (che oggi forse viene scambiata per populista! sic!) delle nostre immagini internaute? In un'ampia ed acuta mostra personale all'Aratro Nardi sottolinea i due moventi principali che fece scattare all'inizio l'azione della sua pittura e della sua poetica. Per la mediamorfosi del Suicide Painting, il mito donna e il mito immagine ebbe ed ha un significato provocatorio. La pittura da Nardi proposta a modello d'ordine interiore era ed è l'icona del flusso mediatico assecondata dal Sunset Strip del sex appeal dell'inorganico (come direbbe Walter Benjamin). In questa grande tessitura cromatica, lunga più di otto metri ed esposta all'Aratro, Nardi conferma l'unione tra l'assemblaggio in patchwork di frammenti di stoffa con una sorta di mosaico o di ricamo, che raccoglie, come in un palinsesto, suggestioni e riferimenti tratti da luoghi, framing e slade diversi. L'immediatezza delle icone sessuate, la particolare cura nel gioco della pittura digitale, la pennellata rapida e discontinua - a sottolineare la necessità di rendere la rappresentazione il più pubblicitaria possibile, e, se vogliamo videografica possibile - sono, in sintesi, i punti principali del gioco di Nardi. Le opere in mostra all'Aratro, ed in particolare nella large installation, bene illustrano i nuovi approdi dell'autore, che pur essendo coetaneo dei pittori mediali, come molti della sua generazione, ricomincia dai rotocalchi, ed è attratto dal flusso, dalla frammentazione, dal movimento, dall'oltraggio montante e tissurale di icone rubate all'auto-annientamento mediatico: queste ed altre immagini l'hanno portato ad una sorta di mediamorfosi visiva e immaginaria e, allo stesso tempo, di straordinaria attualità, un'attualità da suicidio! Egli costruisce collage di reticoli montati con immagini rubate all'illusione di realtà, creando simulacri onirici in bilico tra reportage e castrazione. In effetti non c'è sentimento nell'immagine mediale, non ci sono scene drammatiche. Ma proprio lasciando fuori tutto ciò, la simulazione della pittura da vita ad un altro tipo di strategia scettica: è come creare il silenzio all'interno di un'immagine assurda; producendo un senso di straniamento. Così si impone allo sguardo il suicide painting, figura metaforica che in the great tapestry trasmuta; seguendo un montaggio di tappeti-memoria, qui Nardi prosegue la sua ricerca sull'immagine femminile legata ai mass media e ai social network, unendo le figure di modelle celebri, come Kate Moss, a quelle delle Suicide Giris a cui è legato il nome dell'intero lavoro, ragazze che (come scrive lo stesso artista) "non mirano alla morte, ma ad una bellezza self-made, antivelina, che nega il silicone e il ritocco". Il tatuaggio rappresenta in questo nuovo sentire, il traslato concreto che passa dall'analisi mediale della luce dell'immagine digitale - l'RGB della micropittura - alla concretizzazione della linea come taglio e sutura critica."

 

 

LORENZO CANOVA, ”Suicide painting”, Pieghevole della mostra Suicide painting, Edizione UNIMOL/Aratro, Campobasso, Dicembre 2016.

"
L’ARATRO inaugura una mostra personale di Adriano Nardi, una grande installazione che raccoglie un ciclo di lavori recentissimi montati in una struttura speciale, realizzata appositamente per questa occasione.

In questa grande opera, lunga più di otto metri, Nardi unisce la pittura all’assemblaggio in patchwork di frammenti di stoffa, in una sorta di enorme mosaico o di tessuto ricamato per immagini, che raccoglie, come in un palinsesto contemporaneo, suggestioni e riferimenti tratti da luoghi, contesti e tempi diversi.

In questa opera, Nardi prosegue la sua ricerca sull’immagine femminile legata ai mass media e ai social network, unendo le figure di modelle celebri come Kate Moss a quelle delle Suicide Girls a cui è legato il nome dell’intero lavoro, ragazze che (come scrive lo stesso artista) “non mirano alla morte, ma ad una bellezza self-made, antivelina, che nega il silicone e il ritocco, un po’ dall’anima made in Japan, un po’ punk anni settanta. Corpi che osano e provocano con piercing e tatuaggi, che si auto affermano scegliendo il proprio look, rifiutando norme comportamentali ed estetiche convenzionali. Si mostrano al mondo grazie a fotografi e stylist indipendenti, non allineandosi ai trend, ai dogmi della bellezza tipici delle riviste di moda. Il tatuaggio rappresenta in questo mio nuovo sentire estetico e pittorico, il traslato concreto che passa dalla analisi mediale cromatica della luce costituente l’immagine catodica e digitale – l’RGB della micropittura - alla concretizzazione della linea come taglio e sutura (nelle opere “cucite” o con le stoffe ritagliate e incollate) o come disegno inserito ‘sottopelle’ - in cui sarebbe concretamente evidente un paradosso se non fosse inteso che come desiderio della donna di scriversi o disegnarsi addosso - in quanto qui è descritto, inchiostrato nella superficie intesa come pelle della pittura”.

Nardi compone così un ciclo di immagini sospese tra dimensione virtuale e fisicità, tra immaterialità e tattilità, un grande complesso iconico costruito attraverso un pullulante pulviscolo di frammenti dove le memorie personali e le foto del web, i centri commerciali e i musei, le icone dello star system e i volti anonimi si fondono nella tessitura di un grande arazzo che riprende le narrazioni per immagini degli antichi ricami ad ago, componendo un gigantesco racconto sincronico che ci parla del nostro presente affondando le radici nel passato e aprendo le sue profezie verso il futuro."

Opere pubblicate: Venom black bird (2014) copertina, Swingeing London (2014), Primark (2014), Suicide sustainable landscape (2014), Suicide wall (2013-14).

 

 

VITTORIA COEN, ”Figurazione in movimento”, Catalogo della mostra Salone della pittura bolognese dall’Ottocento al contemporaneo, Edizione Galleria d'arte Fondantico, Bologna, Marzo  2015.

"...
Quasi tutti gli artisti qui rappresentati hanno fatto una scelta precisa, quella di seguire la propria individualità creativa. Artisti come Morandi, ma anche Saetti, per aspetti molto diversi, Ilario Rossi, Borgonzoni, e più recentemente Adriano Nardi, hanno sentito certo l’aria del tempo, molti di loro hanno viaggiato per il mondo, e vengono in mente parole come Sublime, Cubismo, Realismo…

La figurazione assume qui il compito della narrazione perenne, quella che continua a stupirci a distanza nel tempo. "

Opera pubblicata: Pittura nuda (2008)
 

 

ROBERTO LACARBONARA, testo e comunicato stampa della mostra Visioni allo Studio d'Arte Fedele, Monopoli, aprile 2014.

" Visioni è un progetto espositivo sul tema del “non-visibile”. La visione è, per definizione, un’esperienza sensibile elaborata nel cortocircuito di immagine e immaginazione, nell’esubero percettivo con cui lo sguardo – e, con massima intensità, lo sguardo di un artista – traduce il vedere nel plus-vedere dell’opera e, così facendo, assume l’ottica precaria del “visionario”. Visione dunque come dubbio, come tradimento del visibile, ovvero scarto tra il reale e la rappresentazione.

La collettiva di pittura proposta dallo Studio d’Arte Fedele definisce una sintesi tra le esperienze figurative di storici artisti della galleria ... Operazione inversa per Adriano Nardi mediante una moltiplicazione dei piani cromatici che insistono sul profilo femminile. ... In ognuno di questi casi la pittura sembra consumare il reale, filtrare le superfici insinuando un senso nuovo, silenzioso. Visioni è pertanto un meccanismo di inversione del sistema della rappresentazione: non esiste alcuna verità nella realtà, tutto quanto è solo il dubbio di qualcosa che non è."

 


A.A.V.V., ”Nardi Adriano”, Catalogo dell'Arte Moderna, numero 44, Editoriale Giorgio Mondadori, Cairo Publishing Milano, Giugno 2008.

“ (NOTA CRITICO-BIOGRAFICA) Formazione: dopo il Liceo Artistico, si è diplomato all'Accademia di Belle Arti di Bologna. Soggetti: il soggetto femminile è sempre presente nelle opere degli ultimi anni, come figura metalinguistica di una concezione non figurativa quanto concettualmente simbolica. Tecniche: olio su tela preparata dall'artista, per raggiungere la caratteristica coloritura "povera"; tecniche digitali su cui interviene a olio".

Opera pubblicata: Paesaggio nudo (2007)



LORENZO CANOVA, ”Visione romana. Percorsi incrociati nell'arte del novecento”, Edizioni ETS, Pisa, Luglio 2008.

“ (capitolo 5 - Gli approdi dell'argonauta) Una memoria metafisica rieccheggia così nell'opera di molti artisti romani delle ultime generazioni... ... Adriano Nardi usa analogamente prelievi dai mass media, inseriti in un profondo tragitto percettivo dove la pittura assume un corpo dalla presenza lievemente materica, o si smaterializza nei fluidi rivoli dei pixel, per sviare le sicurezze del nostro sguardo in un mistero sfuggente celato nello spazio incerto che lega l'occhio e il pensiero..."

Opera pubblicata: Senza titolo (Bue squartato) (2005)



LORENZO CANOVA, ”Oblio e rinascita dell'arte italiana”, testo critico dal catalogo della XV QUADRIENNALE D'ARTE DI ROMA, Marsilio editore, Venezia, Giugno 2008.

“ Al bivio tra oblio e rinascita, in uno spazio incerto posto tra il gorgo oscuro della sparizione e un nuovo dinamismo creativo, l'arte italiana si trova oggi di fronte a un singolare paradosso che la vede troppo spesso dimenticata dalle grandi manifestazioni internazionali pur esprimendo una vitalità forte e diffusa. L'arte italiana, infatti, nonostante le sue note debolezze strutturali e di sistema, possiede ancora il valore oggettivo di una molteplicità di visioni e di linguaggi, in un panorama composito che va valorizzato nella sua essenza plurale. La Quadriennale del 2008 rappresenta così un'occasione importante per riflettere su questo particolare momento e sulle diverse personalità che formano il mosaico articolato dell'arte delle ultime generazioni in Italia. Con uno sguardo assolutamente non provinciale e aperto a un necessario e attivo dialogo internazionale, l'arte italiana conserva anche alcune caratteristiche territoriali che in un certo senso costituiscono un'eredità della grande tradizione storica, legata ai diversi volti del genius loci del nostro Paese. Questo elemento, visto owiamente in modo negativo da chi, sulla scia di un'idea errata di globalizzazione, preferisce linguaggi omologati e mondializzati, costituisce invece un segnale importante della biodiversità dei nostri ecosistemi culturali che merita di essere maggiormente sostenuta e difesa. In quest'ottica, le generazioni di artisti presenti nella quindicesima Quadriennale appaiono come il conseguente sviluppo di un percorso storico che le vede conservare alcuni tratti basilari della loro identità italiana senza trascurare però l'importanza di scambi e rapporti ormai estesi su scala planetaria. Questo cammino potrebbe pertanto partire dal Futurismo, con le sue intuizioni innovative e con la sua relazione consapevole e propositiva con i media, per trovare importanti rispondenze, in seguito, nelle ricerche extrapittoriche sui nuovi materiali e nelle tendenze che già negli anni Sessanta e Settanta hanno saputo rinnovare la pittura e la scultura. Non va inoltre trascurato il fatto che dal Futurismo di Balla e Depero discende anche quello sguardo ironicamente lucido e giocoso che ha trovato significativi riscontri, ad esempio, in Pascali e Boetti, e che è ancora ben presente negli artisti delle ultime generazioni. Una simile visione è presente, in un certo senso, anche nella Metafisica (e particolarmente in de Chirico), il cui messaggio multiforme è proseguito fino alle nuove ricerche degli anni Sessanta, alle riflessioni pittoriche e concettuali di un'arte che guarda se stessa allo specchio e al ritorno alla pittura in chiave più barbarica, colta o elettronica degli anni Ottanta. Così si può notare come molti artisti presenti in questa mostra si servano dei linguaggi antichi del disegno, della pittura e della scultura rinnovandoli con l'immensa quantità di stimoli non soltanto visivi provenienti dal mondo contemporaneo, ma sempre con un elemento mentale che fonda la coscienza di un lavoro che non vuole avere esiti puramente "retinici", naturalistici o narrativi, ma che cerca di sviluppare quella severa capacità di riflessione che ci parla del presente e, molto spesso, del futuro con una visionaria e potente capacità metaforica di intuizione e anticipazione. Quindi, il lavoro di questi autori, appare una degna realizzazione del pensiero di Pier Paolo Pasolini che ha scritto della necessità di un nuovo confronto con la grande tradizione artistica italiana per creare immagini nuove e potenti, senza cadere in tentazioni illustrative o in sterili nostalgie, ma parlando in forme perenni del presente attraverso la "forza del passato". Si segnala dunque, in questo contesto, l'opera di artisti attivi con la pittura, la scultura, la fotografia e le nuove tecnologie che partono da un nucleo progettuale fondato sull'antico e "mentale" denominatore comune del disegno. Non a caso, ad esempio, si può notare come sempre più spesso la pittura e la scultura confinino con un video di animazione e con ricerche digitali in 3D, allargate al territorio dilatato e mondiale della rete, costruite attraverso una serrata elaborazione "pittorica" dove ogni fotogramma è "dipinto" o meglio composto da un disegno preparatorio. Forse proprio l'elemento grafico può rappresentare il termine di congiunzione che unisce allora le differenti forme espressive, il territorio di confine dove il progetto e le tecniche si toccano rendendo possibile un ipotetico legame tra la dimensione prettamente manuale del disegno e la dimensione "tattile" dei media elettronici teorizzata da Marshall McLuhan, ribadita da Derrick de Kerckhove e profeticamente anticipata da Filippo Tommaso Marinetti. In questa dinamica "tattile" che vede il corpo dell'artista coinvolto direttamente nel dialogo con la carta o con un ambiente elettronico, il disegno rappresenta il territorio dove si compie il rapporto tra il pensiero e l'azione: tra l'arto, il progetto, e un'opera che nasce grazie all'interfaccia di una matita o di un mouse che riescono ancora a dare un senso alla memoria condensata nelle tracce della grafite o nei bit immateriali dei segni elettronici. È del resto vero che la pittura e la scultura possano non soltanto dialogare, scambiare informazioni e spunti creativi con le nuove tecnologie, ma che possano anche costituire il sostrato tecnico e concettuale di un nuovo modo di concepire il video e l'animazione d'artista. La pittura e la scultura si trovano, infatti, in un particolare momento di trasformazione, che appare legato al parallelo sviluppo delle tecnologie informatiche, un campo sempre più ampio offerto dalle nuove possibilità del digitale che permettono intrecci di immagini e di ambientazioni, il collage e la manipolazione dei prelievi fotografici rielaborati in un progetto che viene poi traslato nella finale dimensione pittorica o scultorea. È interessante notare come gli artisti, non di rado, si pongano allora in una posizione differente, in una relazione consapevole con i media, senza dimenticare quella che può essere vista come una visione contemporanea della qualità pittorica accresciuta dai diversi codici lasciati in eredità dalle sperimentazioni del XX secolo. L'arte italiana, non casualmente, si muove spesso in una direzione analitica dove la pittura e la scultura rappresentano uno strumento di indagine che dialoga con le molte possibilità offerte dagli intrecci iconici contemporanei, dal fumetto all'illustrazione, fino al cinema e al videoclip. Si mostra così la forza della pittura e della scultura intese come media "densi", capaci di comprendere carichi stratificati di informazioni, tramiti fondamentali per una ricreazione più ampia della "realtà" nella sua essenza complessa. Si tratta infine di ricerche che si collocano in una posizione che segna la sua diversità rispetto a parallele esperienze italiane e internazionali, dove il rapporto delle arti visive con la dimensione dei media elettronici assume un valore particolare, in un paradosso che vede corrispondere all'alta risoluzione della tecnologia una bassa risoluzione del video, della fotografia, della pittura e del disegno, in una concezione spinta spesso fino al polo estremo di una manifesta esibizione di infantilismo e di azzeramento totale della tecnica. Gli artisti italiani che qui vengono presi in considerazione, hanno compreso il pericolo di arresto causato dalla dialettica tra queste posizioni e hanno reagito rafforzando le potenzialità creative e comunicative del loro lavoro, facendo, ad esempio, sconfinare la pittura nel dialogo con il video, ribadendo e intensificando l'apertura "ambientale" della scultura verso l'installazione, servendosi del disegno come base per un progetto digitale di allargamento nell'oceano del web, o, nello stesso momento, concependo la fotografia in senso pittorico e ancora di più disegnativo, in un colloquio fecondo con l'eredità della storia dell'arte. Alcuni dei migliori artisti italiani si muovono difatti in questo campo con una visione attiva, dove tutti i dati sono vagliati e ricomposti con una densità di stile e di pensiero che comprende elementi di riflessione e di intuizione uniti a una visione acuta ed enigmatica che formano il composito tessuto simbolico delle opere. In questo modo va notato come molti nostri artisti siano capaci di interpretare criticamente le grandi emergenze del presente e di parlarci delle possibili dinamiche del futuro. Molti di loro guardano lucidamente all'oggi ma con una posizione capace di avvertire crisi, tensioni e contrasti in un modo metaforico e allusivo che non evita però di analizzare le drammatiche dialettiche dei nostri giorni e dell'avvenire. È un panorama che denuncia una visione non tranquillizzante, la quale da vita a creazioni dominate da un senso di sospensione minacciosa, di allarme o di mistero. Non a caso, molti artisti avvertono, ad esempio, il pericolo corso dagli ecosistemi e dalla natura ma cercano di andare oltre la semplice denuncia, con immagini che sono ancora capaci di divenire forme simboliche...

...Un altro artista che parte da immagini massificate e pubblicitarie è Adriano Nardi, che scompone e riordina concettualmente la bellezza femminile delle riviste patinate con uno studio rigoroso della percezione condotto in pittura, strumento analitico volutamente diretto a una lentezza simbolica dialetticamente contrapposta alle velocità dei media...

Opera pubblicata: Pittura nuda (2008)



PAOLA BONANI, scheda critica dal catalogo della XV QUADRIENNALE D'ARTE DI ROMA, Marsilio editore, Venezia, Giugno 2008.

“ Il titolo della prima personale di Adriano Nardi nel 1998 è Antipop, un termine che rivela subito i debiti ma anche le distanze prese dall'artista nei confronti della Pop Art. Nardi, infatti, inserisce nei suoi quadri immagini prelevate dai massmedia e usa i colori artificiali (Rgb) delle trasmissioni di immagini digitali. Tuttavia la sua pittura conserva un tratto unico che si traduce in una intensa manualità. Tra il 1999 e il 2000 ritrae le prime donne "da copertina", da allora soggetto centrale di ogni suo lavoro. L'artista le inserisce su sfondi in cui si alternano pittura astratta e immagini tratte da internet, spesso violente, che creano un forte contrasto tra i diversi piani dei quadro, tra le algide figure dipinte a olio e gli sfondi realizzati con la stampa digitale {Seattle, 2000). Nelle opere recenti, i corpi femminili sono stesi e trasformati in luoghi da percorrere, disseminati di forme geometriche dai colori accesi e irregolari trame di segni dalle tinte terrose ( Paesaggio Nudo, 2007).”

Pubblicato un ritratto fotografico di Adriano Nardi.



LORENZO CANOVA, ”Tra corpo e paesaggio”, testo del catalogo della personale alla Galleria La Giarina di Verona, dal 2 febbraio al 5 aprile 2008

"Adriano Nardi coniuga l’attenzione per la qualità pittorica all’indagine dedicata ai meccanismi comunicativi e percettivi mescolando elementi differenti inseriti tuttavia in un discorso rigoroso e unitario sulla pittura e sulle sue possibilità di rinnovamento nel contesto attuale dell’arte contemporanea. L’artista ha scelto in questo modo di indirizzare la sua opera verso una direzione dove la tecnica si trasforma in uno strumento di indagine linguistica in dialogo con gli spunti provenienti dalle comunicazioni di massa. In questo senso si spiega anche la sua volontà di porre concettualmente le opere su un versante dove la pittura spesso resta sospesa in un apparente “non finito” e dove l’elaborazione si manifesta attraverso una raffinata macchina della finzione. L’autore, infatti, non di rado conduce la sua ricerca attraverso un binario doppio, in cui la pittura è vista talvolta come il medium di una comunicazione visiva “calda”, deliberatamente ricca di informazioni, segnata da una stratificazione di riferimenti, sollecitazioni e prelievi iconici. Allo stesso tempo, però, in diverse occasioni, l’autore sposta la sua pittura in una direzione più “fredda”, dove l’opera incontra pause di vuoto e di silenzio comunicativo che servono però a dare sostegno alle parti più complesse e complementari, in un discorso dove la riduzione amplifica i messaggi visivi attraverso codici sintetici e minimali. L’artista gioca allora con il demone della precisione che si manifesta costantemente nel suo percorso, mettendolo però in crisi attraverso il suo stesso sistema costruttivo, utilizza un procedimento rigoroso per comporre una sorta di opera aperta dove le mutazioni modificano l’assunto di partenza. Le variazioni sul tema iniziale si collocano in bilico tra il rigore matematico e l’aspirazione a scoprire la necessità formale del disordine che corregge le asperità del progetto, il senso di un caos controllato che trasforma l’esito finale dell’opera. Questo intento è sviluppato proprio attraverso il progetto che mescola il disegno manuale con l’intervento costruito al computer, una modalità che denuncia la sua natura duplice, utilizzata per dare forma a un’opera dove l’occhio è condotto in un labirinto fittizio dove spesso non riesce a distinguere il preesistente assunto digitale dall’intervento pittorico anche quando la presunta corposità del colore farebbe immaginare una particolare presenza tattile in quella zona del quadro. Il concetto di tattilità del resto concorre alla riuscita di queste opere, data la sua ambivalenza legata al contatto tra la mano e i sensi dell’artista e dello spettatore sospesi tra il flusso fisico del pennello sul supporto e il coinvolgimento sensoriale degli ambienti elettronici e in particolare digitali, fondato proprio su una relazione tattile. [1] Non a caso, nel suo recentissimo ciclo, Adriano Nardi, ha approfondito il suo lungo e complesso lavoro sulle immagini, attraverso opere che sviluppano proprio il rapporto tra pittura e digitale e divengono il tramite per una meditazione sull’ordine e gli inganni dello sguardo. La dimensione analitica dell’opera di Nardi viene qui condotta su un binario sospeso dove il corpo femminile può paradossalmente trasformarsi nelle forme di un paesaggio mentale, sfidando le nostre certezze e raggiungendo un territorio di indagine concettuale dove la bellezza viene scomposta e riordinata attraverso un metodo rigoroso di studio della visione e delle sue coordinate. Nardi riflette pertanto sulle possibilità offerte dal recupero dell’illusionismo pittorico per trovare un nuovo senso alla sopravvivenza della pittura, basato sulla possibilità che la ponderatezza di questo medium offre nel contraddire e talora nel sovvertire la velocità che fonda la potenza espressiva delle comunicazioni di massa. Nardi, di conseguenza, si serve di prelievi dai mass media, rielaborati, trasformati e inseriti però in una temporalità parallela e rallentata dove i meccanismi di persuasione sono scoperti e dove l’artista può aiutare lo spettatore a percorrere un più profondo tragitto percettivo. La pittura assume quindi consistenze differenti, si trasforma in un’epidermide rugosa o in un corpo dalla presenza lievemente materica, si smaterializza nei fluidi rivoli dei pixel e ritorna per sviare le sicurezze del nostro sguardo. Le opere di Nardi evitano tuttavia il rischio di uno sterile interesse formale e si scoprono dotate di un mistero sfuggente, si arricchiscono di un enigma celato negli interstizi che si creano tra lo sguardo e il pensiero, nella tensione stilistica di una rappresentazione che sembra tendere al suo stesso annullamento. Sospinti tuttavia da un dinamismo che agisce come un vento rinfrescante, i colori e le forme si animano di una nuova vitalità, la pittura vibra di una nuova leggerezza mentale e stilistica e le figure annunciano un rinnovamento aurorale che sorge dalle ombre geometriche della meditazione e del rigore. La figura femminile ritrova così la forza per occupare lo spazio dell’immagine attraverso il sistema paradossale della sua apparente dissoluzione, mediante lo smembramento, la scomposizione e la ricostruzione, dialetticamente risolti nelle metamorfosi di una struttura che scopre con chiarezza il valore della sua presenza fisica e simbolica.

1[1] Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano 1967 (ed. orig. Understanding Media, 1964), p. 334; Cfr. anche D. de Kerckhove, La pelle della cultura. Indagine sulla nuova realtà elettronica (ed. orig. The Skin of Culture, 1995), pp. 54-56.

Opere pubblicate: Hagal (2005), Pittura nuda nel paesaggio (2006), Pittura nuda nel paesaggio (2006), Paesaggio di Violetta (2006), Pittura oggetto (2007), Pittura oggetto 2 (2007), Os Fa Piramide (2006), Paesaggio nudo 1 (2007), Paesaggio nudo 4 (2007), Dama romana (2007), Angelo caduto (2007), Rigenerazione (2007).



ALESSANDRA MARIA SETTE, ”Diana, Atteone e altre storie”, catalogo della personale "Onda di Diana", novembre 2007, realizzato da Galleria Maniero, Roma

“Ciò che amavo di più nei pittori era l’audacia”, Leo Castelli


Nuovo ciclo pittorico per il prolifico Adriano Nardi, pittore giovane ma già di grande esperienza. Coerente con la sua ricerca, l’artista continua ad esplorare le molte possibili combinazioni e contaminazioni tra pittura e stampa digitale. Non si tratta ovviamente di un’operazione formale, ma di un percorso cognitivo che parte da lontano, dalla nascita della fotografia nel XIX secolo, attraversa nuovi esiti pittorici stimolati da questa tecnica, percorre le avanguardie di primo Novecento, l’astrazione, la pop art, il concettuale, gli anni Settanta, i linguaggi digitali, e arriva dritto al profondo rinnovamento della pittura al quale in questi ultimi tempi – fortunatamente – stiamo assistendo.

In un’intervista del 2002, Nardi afferma “la stampa… mi dà la possibilità, paradossalmente, di concentrare la ricerca sul colore, sulla pittura intesa in senso più alto”. Dunque, da un lato, il supporto tecnologico è, per l’artista, strumento di approfondimento e conoscenza. Dall’altro lato, per lo spettatore, la sintesi dei due linguaggi ha l’effetto di rendere le immagini più complesse e al tempo stesso più intriganti. Molti sono, infatti, i piani di lettura che si offrono contemporaneamente: i colori, sempre vivaci, utilizzati in modo inaspettato; la geometria delle forme, che vanno componendosi senza però arrivare a negare il modello reale dal quale l’artista è partito; i simboli che spesso emergono sulla tela; le texture stampate che vanno a ricongiungersi con le pennellate concrete, talvolta a fondersi con queste. Infine, il corpo femminile, che Nardi pone sempre al centro delle sue opere. Volti, mani, gambe, ma anche figure intere, vengono trasfigurati da geometrie e colori che – senza rispetto alcuno per le regole del reale – scandiscono, tagliano, attraversano gli spazi della tela. E’ un’onda, questa pittura, che viene spinta con tutta la forza del mare. Non conosce ostacoli, non si ferma finché non si afferma, stabilisce nuove regole spaziali, cromatiche, formali. Sintetizza decenni di linguaggi e ricerche artistiche. Racconta, con orgoglio, che, nonostante tutto, lei è ancora lì, più viva che mai. “Dipingo cercando la rivelazione concreta della pittura” dice ancora Nardi… Poi l’onda passa via, lasciando non la traccia, non il segno, ma il solco del suo passaggio.

Queste donne, icone di un universo di conoscenza, strumenti di comunicazione ampia ma alta, si fanno guardare dallo spettatore ma, nello stesso tempo, sono loro a guardarlo, ammiccando, interrogando, talvolta provocando. Nardi non fa misteri: queste immagini sono tratte da magazine di moda, book fotografici, siti web voyeuristici. Sono donne bellissime, volutamente conturbanti, consapevoli del fascino che esercitano. Sono però distanti, trasfigurate sino ad abbandonare completamente la realtà per diventare simbolo della pittura stessa. Corpi sensuali e colori sintetici, migliaia di pixel e pittura ad olio, si va così realizzando il rinnovamento della figurazione, reso possibile grazie alla grande capacità di trasformazione della pittura, linguaggio evidentemente molto più flessibile verso i cambiamenti di quanto non si pensasse.

In questa serie di opere, l’artista compie un ulteriore passo nell’ambito dello studio delle possibilità comunicative della pittura. Il lavoro è stato ispirato dalla lettura del mito di Diana nell’analisi di Pierre Klossowski (“Il bagno di Diana”, Silva Editore, Milano 1962, prima ed. italiana). Nardi non intende dare una lettura per immagini a questo racconto, ma piuttosto “riflettere”, attraverso i mezzi “fisici” della pittura, le implicazioni emotive della vicenda di Diana e Atteone. Sempre con il doppio registro digitale-pittorico, l’artista privilegia in questo caso una dimensione molto vicina all’astrazione. Alcuni lavori di questa serie portano il titolo di “Paesaggio nudo”, accompagnato da una numerazione progressiva. Tutte le tele, inoltre, recano sul retro un timbro che indica la posizione in cui il dipinto deve essere collocato. Stiamo entrando, evidentemente, in una dimensione concettuale sempre più lucida, maturata in anni di ricerche.

Ma il concettuale è un obiettivo predeterminato o una naturale evoluzione della ricerca di alcuni artisti? E’ una seduzione o una necessità? E’ un’attrazione fatale o un esito inevitabile?

I titoli di alcune mostre che negli anni Nardi ha proposto al pubblico fanno riflettere. “Antipop” (1998), “Le naviganti” (2000), “Vertical horizons” (2002), “Microdipinta” (2004), “Pittura nuda” (2006), e questa ultima, sono chiare indicazioni di un percorso orientato verso gli esiti forse più estremi della pittura, un’esplorazione delle possibilità e dei limiti di questo linguaggio, ovviamente oltre il confine della rispondenza al vero.

I “paesaggi” ora creati da Nardi sono ancora figure femminili, qui più provocanti che mai, attraversate dall’onda impetuosa della pittura, scomposte da geometrie concettuali che ignorano le regole della natura, incapaci di opporsi all’urto del colore. A tratti, può sembrare quasi che siano state queste donne a provocare Nardi, il quale ha reagito con le sue armi, le pennellate vivide di un artista che, nell’apparente confusione di elementi, sta percorrendo lucidamente una strada trasversale, tra il fascino freddo del concettuale e il terreno caldo dell’emozione, tra la razionalità della geometria e il coinvolgimento del colore, tra il sintetico del digitale e l’organico del corpo.

E’ un percorso maturo e consapevole, quello di Nardi, portato avanti con buona pace di coloro che gridavano che “la pittura è morta” e che il futuro dell’arte è solo nelle nuove (ormai non più tanto) tecnologie."
 



ALDO MARRONI, ”Il dèmone artistico di Diana”, catalogo della personale "Onda di Diana", novembre 2007, realizzato da Galleria Maniero, Roma

" Quale ispirazione è possibile trarre da un’opera così enigmatica come il Bagno di Diana?* Perché un artista si richiama esplicitamente ad un altro artista, curiosamente definitosi un “monomane”? Si tratta solo di emulazione, di reiterazione o, addirittura, di sfida? Cosa affabulano di più la storia mitica narrata da Klossowski o le immagini che la leggenda suscita nella nostra mente? La vicenda della sua rappresentazione artistica inizia con un divieto e la sua successiva trasgressione: “Nunc tibi me posito visam velamine narres, si poteris narrare, licet” (“Racconta ora di avermi sorpresa svelata – se lo puoi, fai pure!”)**. Ma come può Atteone riferire quello che i suoi occhi hanno visto, se la dèa lo priva della facoltà di parlare? Perché Diana interdice l’arte del racconto, non permette che qualcuno possa con un linguaggio naturale ed umano comunicare la propria esperienza estatica? Sarà che forse dall’alto della sua impassibilità detesta d’essere immortalata come una sacra sgualdrina? Sarà che forse propende più per il culto delle immagini e che il suo erotismo, così smaccato di fronte allo sventurato cacciatore-sacerdote, è compendiato tutto nella sua iconofilia?

Altri interrogativi mi spingono ad andare ancor più nel profondo di questa storia che si dipana tra il tragico volere umano e l’inutile giocosità divina. Quali impulsi umani conducono Diana a patteggiare un corpo risplendente con il dèmone intermediario?*** Quali aspettative di godimento divino si insufflano nell’anima di Atteone quando segretamente, ma anche sciaguratamente, immagina di poter possedere la dèa? Atteone, discendente dalla stirpe di Dioniso, ha nel sangue la vocazione allo smembramento, verso cui si avvia consapevole della fine imminente cui lo condannerà il suo irrefrenabile desiderio di violare il divino. Diana, dèa della caccia, si è già appostata nel laghetto, attorniata dalla sue ancelle. L’immagine del cinegeta che nell’opera di un malcapitato artista vede manifestarsi la possibilità di riuscire nella sua impresa, non la intimorisce. In fondo è sempre una dèa, donna solo per puro piacere, possedibile ma imposseduta. Sarà forse Atteone a possederla, lui cacciatore di cervi e lei desiderosa per gioco del bramito animalesco? Il dèmone paraninfo si diverte alle loro spalle, li tiene d’occhio acconsentendo ad ogni richiesta lasciva.

La vista, considerata dalla cultura filosofica occidentale vero senso teoretico, unitamente all’udito, perché scruta senza toccare, perché infiamma la concupiscientia oculorum, ingenera il peccato del guardare ma è anche il punto d’incontro dei desideri carnali, dunque è lo strumento sensitivo complice dei due amanti. Atteone ha gia osservato in un affresco se stesso nell’atto di montare la dèa. Diana sa già di questa sua visione e lo trae in inganno, rivestendosi di un corpo luminoso, dunque assumendo anche lei, al suo servizio, la forza dell’immagine. Ambedue si sentono vincolati alla visione fantasmatica che mano a mano prende forma nelle loro anime. Sono futilmente votati allo stesso gioco speculare. Ma com’è possibile, si chiede Atteone, possedere una dèa? Diana lo invita a provarci, non dimenticando di essere, in quanto corpo divino, fuori della portata di qualsiasi amante umano. Potrà mai Atteone accedere all’ordine divino ed ergersi con le zampe dietro a Diana? Potrà mai Diana divenire un essere umano e cedere all’istinto animalesco di Atteone? L’enigma si fa strada nelle loro coscienze, fino a giungere alla consapevolezza di un netto impedimento ontologico. Ma se lo stato soprannaturale e quello naturale confliggono, vi è un’altra facoltà che può favorire l’impossibile incontro, ed è l’immaginazione. Francesco Bacone aveva sentenziato che l’immaginazione può fare matrimoni e divorzi illegali tra cose. Perché allora non può far accoppiare Atteone e Diana? Diana – come ho detto – è una convinta iconofila. Ma Atteone, nutre la stessa convinzione? Sembra di no. Il suo desiderio naturale di possedere la dèa lo costringe all’iconoclastia. Non si accontenta del suo simulacro. L’erotismo iconofilo di Diana si scontra con l’iconoclastia mortifera di Atteone. Per questa sua ansia distruttrice il cinegeta verrà trasformato in uomo-cervo e fatto a pezzi dai suoi fedeli cani. Diana, gli adepti, li vuole con convinzione adoratori del suo simulacro, complice il dèmone intermediario. Così il vero discepolo della dèa della caccia è colui che esercitando l’immaginazione e lasciandosi possedere dalle potenze impulsionali, diviene prima ancora che narratore (il cui esercizio è impedito dal verdetto soprannaturale), pittore, costruttore di simulacri. Il simulacro comunicabile ha la meglio sulle parole, le quali tradiscono nella mediazione della coscienza l’intensità della visione. Il Bagno di Diana, risalente agli anni Cinquanta, preannuncia un’inversione di tendenza che vedrà Klossowski impegnato nella realizzazione di tableaux vivants a grandezza naturale: nel suo cammino di pensiero, questo apparente rovesciamento segna il passaggio filosofico dal far comprendere al far vedere, dal dominio della coscienza alle forze impulsionali, dai freddi concetti alla complicità emozionale. E’ mai possibile attribuire al gioco tragico di Diana il desiderio di innalzare la pittura ad arte divina? Lo può certamente, ma solo se l’arte abbandona l’ambizione di raccontare. Se pensa, invece, di assumere in sè lo spirito della narrazione, ha già perso la sfida in partenza.

Con quale sguardo opera Adriano Nardi? Egli vede Diana attraverso le suggestioni e le visioni generate nella sua anima dallo stesso dèmone che ha portato Atteone verso la morte e Klossowski verso il superamento delle “leggi dell’ospitalità”. Allora Nardi deve essere considerato un complice di Klossowski ed un adepto di Diana? In ogni caso, un solo culto è ammesso: quello del simulacro. Non pensare mai di andare oltre la propria visione, significa in primo luogo non oltrepassare mai ciò che ci si presenta con urgenza nell’immaginazione. Assumere in proprio la violenza dell’iconoclasta può portare all’impossibilità non solo del dire, ma anche del rappresentare. Nardi ha compreso la lezione impartita dal dèmone artistico di Diana. Rifugge il narrare, per mettersi al riparo nel far vedere, nel far vivere il suo spettacolo mentale tra i cultori dei simulacri. La seduzione del corpo di Diana (o meglio: del corpo creatole dal dèmone) e la sua iconofilia continuano a fare discepoli. Nardi, dunque, replica nel suo spirito e nei suoi interventi artistici sulle “monete viventi”**** quel sentire voluttuoso che ha impedito ad Atteone di parlare ma non di vedere, quell’impulsionalità che ha permesso a Klossowski di vedere, di narrare e di rappresentare nel contempo. Le visioni proposte nella mostra nascono, ad avviso del mio sguardo estraneo, dalla sottomissione ad un impeto iconofilo la cui potenza programmatica sta nella reiterazione all’infinito dell’infinita seduzione esercitata dall’arte attraverso il corpo demoniaco di Diana e l’enigma mortifero di Atteone. Che si senta anche l’anima di Nardi sotto il dettato possessivo dell’immagine? “L’anima – dice Klossowski - è sempre abitata da qualche potenza, buona o cattiva. Non è quando le anime sono abitate che esse sono malate; è allorquando non sono più abitabili. La malattia del mondo moderno, sta nel fatto che le anime non sono più abitabili, e che esse ne soffrono!”.

*P. Klossowski, Le Bain de Diane, Pauvert, Paris 1950.

** Ovidio, Metamorfosi, libro terzo, vv.192-193.

*** Apuleio, Il demone di Socrate, a cura di B.M. Cagli, Marsilio, Venezia 1992.

**** P. Klossowski, La Monnaie vivante, Éric Losfel, Paris 1970.



ADRIANO NARDI, ”Onda di Diana”, catalogo della personale "Onda di Diana", novembre 2007, realizzato da Galleria Maniero, Roma

"_ Diana è il vuoto pieno e meraviglioso: vive ed abita nel luogo impossibile dell’Alto paesaggio. La divina virtù di castità della Dea è insita al proprio ritrarsi dal desiderio di Atteone di possederne la chimica, le membra, i profumi ed effluvi di pelle bagnata e aperta. Il riflesso con cui si materializza la teofania di Diana, il demone intermediario, sfida l’uomo-cervo neofita con queste parole: “Se puoi farlo sei libero!”. Sorpresa durante il bagno nell’onda, nello spruzzargli acqua sul viso la sua astuzia è di non compierne del tutto la metamorfosi. Cosicché “egli non penetri nella luce che va cercando, poiché tutto ciò che è manifesto è luce.”

Opere pubblicate. Quadri: Ge ehe man (2006), Moneta vivente (2006), Paesaggio nudo (2006), Paesaggio nudo 2 (2007), Paesaggio nudo 3 (2007), Paesaggio nudo 5 (2007), Paesaggio nudo 6 (2007), Paesaggio nudo 7 (2007),Paesaggio nudo 8 (2007), Onda di Diana (2007). Carte: Alto Paesaggio 1 (2006), Alto Paesaggio 2 (2006), Alto Paesaggio 3 (2006), Alto Paesaggio 5 (2007), Alto Paesaggio 7 (2007), Alto Paesaggio 8 (2007), Alto Paesaggio 13 (2007).



LORENZO CANOVA, ”Nove artisti romani”, catalogo della mostra collettiva Nove, Silvana editoriale, Milano 2007.

(testo prossimamente in pubblicazione)



LORENZO CANOVA, ”Metamorfica”, catalogo della collettiva "Pittura Elettrica capitolo II", settembre 2006, edizione Giamaart Studio, Vitulano (Bn)

" II corpo, il volto, lo sguardo e la loro estensione nella realtà hanno rappresentato sin dagli anni Settanta alcuni dei temi privilegiati del versante elettronico dell'arte contemporanea, campi di ricerca dove il video, affiancato dalla fotografia, si è trasformato in un centrale strumento di indagine che ha trovato in seguito un'importante estensione nelle tecniche digitali. Le ricerche sul corpo e sull'identità si sono poi intrecciate alla nuova attenzione per i mass media sviluppata dalla Pop art perdendo il carattere di critica radicale che le avevo spesso contraddistinte e trovando un nuovo dialogo con la pittura e la scultura, che non sono rimaste assolutamente indifferenti di fronte a questo fenomeno, ponendosi spesso in un confronto diretto con le immagini delle comunicazioni di massa. In questo senso, ad esempio, il genere del ritratto si è in qualche modo "dilatato" per la sua possibilità di avvicinarsi all'immaginario del mondo contemporaneo marchiato dalla presenza moltiplicata degli occhi che ci scrutano dalle riviste, dai quotidiani, dai monitor e dai cartelloni pubblicitari. Pertanto, la "contaminazione" mediatica che, fino a qualche anno fa, appariva come un'esigenza basilare per la sopravvivenza della stessa pittura nel contesto delle arti del presente, oggi si mostra come un punto di partenza molto trasformato dallo sviluppo di istanze e di influenze che non dimenticano il recupero di suggestioni e di spunti derivati da un ampio arco cronologico della storia dell'arte che unisce il Medioevo alle neoavanguardie. La citata tradizione del ritratto e l'astrazione geometrica, la vanitas barocca e l'iperrealismo possono diventare in questo modo elementi utili a costruire un nuovo discorso sulla pittura d'immagine aperto agli sconfinamenti e alle mescolanze con la comunicazione di massa, ma con una forza della presenza iconica dello figura che rappresenta un elemento decisivo di continuità con l'arte italiana dei secoli passati in un viaggio, che raggiunge anche il cinema, dagli affreschi di Giotto fino a Pasolini. Gli artisti del secondo capitolo di Pittura elettrica rappresentano così il corpo e il volto, cercano un nuovo sguardo sulla natura e sul mondo passando dall'azzeramento assoluto di carcasse abbandonate nel deserto al trionfo ambiguo di una sensualità da copertina, combinano eros e ironia, suggestioni della memoria e costruzioni paradossali, possono scavare nelle pieghe dei sistemi complessi del reale e nella loro proiezione nei media, recuperare e rinnovare antiche iconografie, mostrando tutta la capacità metamorfica della pittura e della scultura di restare linguaggi capaci di inserirsi nel cuore pulsante del contesto contemporaneo

…Adriano Nardi si sofferma sul corpo femminile, rappresentato utilizzando spunti di immagini di nudo riprese dai media sulle quali si innestano campi cromatici e scansioni geometriche, La rappresentazione è dunque utilizzata come un paradossale strumento di indagine analitica, in una struttura dove l'accostamento tra la carnalità patinata del soggetto e la sua ricostruzione mentale creano un vero e proprio corto circuito concettuale tra le consuetudini percettive e le trasformazioni della figurazione…

Opere pubblicate: Potnia minore (2005), Peace Potnia (2005), Grande Potnia (2005).



MARIA CRISTINA BASTANTE, ”La scintilla della pittura”, catalogo della collettiva "Pittura Elettrica capitolo II", settembre 2006, edizione Giamaart Studio, Vitulano (Bn)

"Ad un primo sentire pittura elettrica può suonare simile ad un ossimoro. Senza pensarci troppo, alla pittura s'associa una tradizione secolare e l'idea di un'esecuzione che richiede comunque un certo tempo. D'altro canto, l'elettricità è istantanea, inafferrabile. La scintilla, quindi, è tutta qui, nell'apparente contrasto, che, invece, si rivela un fertile e proficuo incipit. L'influenza dei nuovi media e dei nuovi mezzi espressivi è fatto non trascurabile: che poi la risposta sia d'accoglienza o di critica poco cambia, il dado è comunque tratto. E la pittura, o meglio chi fa pittura - qui è il nucleo di questo progetto, articolato in due capitoli - incamera immagini, suggestioni, non si lascia sfuggire ne le rosee promesse di un futuro migliore, ne gli aspetti inquietanti che sono l'altra faccia del progresso tecnologico e scientifico, Su questi elementi s'intesse la riflessione e questi elementi possono diventare battuta d'avvio per un'ulteriore indagine, questa volta interna allo stesso linguaggio della pittura...

…Nei quadri di Adriano Nardi, le figure femminili appaiono trasfigurate, come icone lontane: algide, perfette nei tratti e nelle proporzioni, queste giovani donne - riprese da riviste patinate, da editoriali di moda o da immagini pubblicitarie - vengono trasformate in semplici superfici, attraversate da campiture di colore piatto, definite da un incastro severo di linee. II gioco percettivo oscilla continuamente tra astrazione, indagine analitica e metamorfosi: il risultato è un'affascinante riflessione sul medium, sulle possibilità offerte dalla tecnologia, sulla definizione di un nuovo immaginario, in cui contemporaneità e tradizione dialogano…"



GABRIELE PERRETTA, ”Pittura discinta e pratica edonista”, catalogo della personale "Pittura nuda", edizione Studio d'Arte Fedele, Monopoli (Bari), Giugno 2006

testo (cfr., con variazioni) pubblicato anche con il titolo "Tra pittura ed ecologia della pittura" nel volume: "In contrattempo. La pittura malgrado tutto" (a cura di Romano Gasparotti), edizioni Mimesis, Milano, 2007

" Ogni volta che un artista rinnova l’interesse ad adoprarsi nel dipinto, si pone di nuovo davanti a noi la domanda di sempre: che cos’è la pittura e in che modo, nel nostro contemporaneo, è possibile “farla”? Una buona parte degli interrogativi posti dall’arte moderna equivalgono alla domanda vitale sul come fare la pittura e perché affaccendarsi ancora in essa. Sembra che il senso della pittura, come del resto quello della poesia, della musica e di altre tecniche antiche quanto il nostro mondo, si avviluppano sul loro operare e sulla loro stessa possibilità a realizzarsi. Oggi, quindi, lavorare nella pittura e attraverso la pittura rimane un problema, un’incognita che spesso ci appare vittima della sua stessa pratica, martire e sacrificio del suo stesso svolgimento. Su questo interrogativo riflette anche Adriano Nardi che, come artista, negli ultimi tempi, colpito dalla minaccia che il mestiere espressivo subisce grazie al bombardamento pluri-estetico del quotidiano, arriva a definire il suo stesso fare pittorico “nudo”, cercando di effettuare la pittura con le seguenti intenzioni: “Capire cosa succede nella materia, nella natura. Capire cosa fosse possibile intuire e vedere nella libertà riflessiva (cioè della luce riflettente) in quel suo correre, librarsi, cadere e alzarsi, elevarsi e sprofondare, ma soprattutto cosa fosse quella possibilità spaziale”. Nardi, facendosi sempre più esplicito e “nudo”, come il suo stesso mestiere, dice che ritiene “ecologico il fare pittura, e naturali i suoi strumenti con cui riflettere e capire l’ambiente che ci circonda e in cui viviamo”. Ma in effetti, la questione sta proprio qui: per tendere verso una sorta di ecologia del fare pittorico, come lo stesso Nardi ci rammenta, non bisogna capire solo in che maniera fare la pittura, ma tentare anche di ragionare e di ripensare l’ambiente, non solo come il luogo che accoglie la pittura che noi possiamo offrire, ma anche come l’habitat e la pittura che esso ci offre. In sostanza, non è possibile staccarsi dal mondo e fare alla maniera di…, perché anche se fosse così la maniera stessa apparirebbe come il dato certo di un processo sociologico in atto. Basta ricordare, come farebbe Francis Haskell, che non è possibile prescindere dal collegamento tra la dimensione estetica del presente e le altre dimensioni della vita collettiva. Il valore di una bellezza antica o moderna dipende dai contesti sociali in continua evoluzione.
A proposito dell’ecologia, proviamo ad adoperare una perifrasi: se l’istanza sulla struttura compositiva della pittura richiede un responso ecologico, cos’è più naturalistico, il suo ambiente poetico interno (quindi tecnico), o il suo specchio naturale e biologico? Partendo sempre da questioni sociologiche generali, sappiamo che la scienza biologica studia l'ambiente e le relazioni che i diversi organismi viventi instaurano tra loro e con i luoghi medesimi. Dallo stesso discorso generale sappiamo anche che l'ambiente fisico è caratterizzato da fattori fisico-chimici, detti complessivamente fattori abiotici, quali la temperatura, l'umidità, l'intensità luminosa, la concentrazione di ossigeno, di anidride carbonica e di sostanze nutritive nel suolo, nell'acqua e nell'aria. Nel contemporaneo, si parla spesso di ambiente biologico, o di componente biotica per indicare l’insieme di tutti gli organismi viventi presenti in un dato ambiente fisico. L'ecologia è un sapere complesso, che sfrutta le conoscenze di numerosi settori dello scibile umano. Coniato dal biologo tedesco Ernst Heinrich Haeckel nel 1869, il termine ecologia deriva del greco óikos, "casa", e lógos, "discorso". Come sappiamo fu Charles Darwin, che con la teoria dell'evoluzione mise in evidenza gli adeguamenti dei diversi esseri viventi ai vari tipi di ambiente, sottoposti al vaglio della “selezione naturale”, mentre fu il naturalista e geografo Alexander von Humboldt, che studiando la distribuzione delle specie vegetali sul nostro pianeta, ci propose un termine di paragone fra il mondo naturale e l’estetica dell’espressione.
Ma diciamo che, parallelamente, anche l’arte e la pittura nei secoli della sua evoluzione hanno avanzato un sapere ecologico che si potrebbe prospettare come la conoscenza della casa dell’arte. Se l’ecologia è l’oikos-logos, la pittura a detta di Heinrich Wolfflin è malerisch, ovvero non una forma per mezzo del contorno, ma grazie ad una mescolanza di luci ed ombre che ci restituisce una determinata chiarezza di colore, ossia la nuda forma della materia come pittura stessa. Il celebre storico svizzero, nel 1915, ci suggeriva che la pittura in sostanza è lo specifico del pittorico, essa è la sua nudità e di ciò che è vivace ed espressivo in sé. Ma aggiungiamo pure che, dal 1915 sono successe tante e tante cose e forse lo stesso H. Wolfflin non ebbe il tempo di assistere a ciò che le avanguardie storiche prospettarono della totalità del linguaggio artistico, per riuscire a cambiare nel corso del ‘900 proprio la dimensione della pittura. Ricordiamo pure, a costo di essere noiosi e pedissequi, che la pittura ha subito tante di quelle rivoluzioni, che forse nella pittura stessa l’aspirazione ad una nuova rivoluzione rischia di rimanere una velleità più secessionista e plateale della facciata rinascimentale dell’Università di Salamanca.
La pittura e la pratica pittorica sono divenute un campo di scissione del mondo dell’arte. C’è chi fa la pittura presupponendo il terreno delle emozioni (un territorio che possiamo chiamare emo-painting) e chi ne ipotizza una che invece riusciamo a definire conceptuelle1 o pittura mediale che considera l’emozione - come diceva lo stesso Aristotele - una “categoria della passività” 2. La pittura, là dove adatta l’emotività al suo modo di agire, coniuga le azioni e quindi contrappone la ricerca del piacere oltre la distinzione tra buono e cattivo e, là dove si dà unicamente come mezzo, appare provocatoriamente oggettiva, ovvero come dice Adriano Nardi “il ritmo compositivo costruisce ed esprime la propria forma come prodotto plastico che contiene la propria immagine”. Nel catalogo di San Marino del 2005, Nardi dice in maniera secca che nella “pittura non descrittiva il colore esprime se stesso e la seduzione”3,ovvero l’insidia iconografica del godimento agisce quasi come un atteggiamento critico.
Facendo, dunque, un ragionamento bio-sferico sulla pittura, diciamo che oggi essa - così come l’ecologia - comprende gli insiemi di tutti gli organismi esistenti nel suo lessico e nel suo dizionario strumentale. Per continuare a riferirci al parallelo con la scienza ecologica, è come se i vari elementi e le varie tecniche che concorrono alla formazione della pittura fossero dei biomi, ovvero un complesso di ecosistemi che si fanno avanti grazie alla struttura dominante della grammatica pittorica. Quindi, ogni volta che si ricorda un discorso sulla pittura sovviene la domanda: “Cosa è stata dunque la pittura dalle origini ai giorni nostri?”. Storicamente la pittura risponde all’idea di un’arte di applicare colori o altre sostanze organiche o sintetiche su varie superfici, per creare immagini. Nel corso della sua storia, la pittura ha assunto varie forme primarie, cui corrispondono materiali e tecniche distinti. Fino al XX secolo, essa è stata quasi sempre aiutata dall'arte del disegno. In Occidente, molto sfruttata fu la pittura ad affresco che arrivò al culmine del suo sviluppo nel tardo Medioevo e nel corso del Rinascimento, e che prevede l'applicazione dei colori "a fresco", cioè sull'intonaco ancora inumidito (talora completata dall'aggiunta di alcuni dettagli "a secco"). La pittura a tempera, una tecnica ancora più antica, comporta l'uso di pigmenti miscelati con rosso d'uovo e applicati su uno spazio piano debitamente preparato, ordinariamente una tavola in legno coperta da un telo e quindi da più strati di gesso e colla. L'invenzione della pittura a olio, che fu preferita all'affresco e alla pittura a tempera in epoca rinascimentale, veniva tradizionalmente attribuita ad alcuni pittori fiamminghi dell'inizio del Quattrocento, tra cui i due fratelli Hubert e Jan van Eyck; ora si ritiene, invece, che la sua origine risalga a epoche precedenti. La pittura ad olio è una tecnica basata sull'uso di colori ottenuti impastando i pigmenti con sostanze oleose. Relativamente semplice da utilizzare, la pittura a olio essicca a rilento senza mutare di colore; ciò semplifica il processo di elaborazione dell'opera consentendo correzioni, sfumature e tonalità, fin dalla prima stesura. Variando lo stemperamento, l'olio si presta a ogni tipo di applicazione: velature, chiazze, sgocciolamenti, spruzzo e pittura a corpo (con impasto denso e coprente). Con la pittura ad olio è possibile miniare una scena realistica, creare effetti di intensità con l’aiuto di contrasti di luce e ombra, combinare i colori in maniera significativa e fermare una speciale situazione. La tecnica si adatta bene anche alla pittura astratta. Ricordando ancora i diversi rapporti che i pittori ebbero con il loro lavoro, si richiami pure il celebre Vincent Van Gogh, il combattuto fiammingo che usò i colori in maniera nuda e vivace, basandosi su una pennellata larga e vibrante. Una volta in un taccuino di appunti, che testimonia la recente uscita di Antonin Artaud da otto anni di internamento manicomiale, il celebre attore e commediografo marsigliese ebbe a scrivere del Campo di grano con volo di corvi (1890) del famoso pittore nativo di Groot Zunder: “una linea macabra di corvi neri / su un paesaggio di terra convulsa, un mare scatenato di onde di terra vinaccia, / una formidabile schiuma di onde di melma, / rosse come la vinaccia,/sulla quale una linea di corvi pende come una vecchia tenda che ricade, / una linea di corvi che sfalda su un mare di vinaccia convulso, / una formidabile schiuma di un vino che avesse / intasato la terra, perché questo mare è una melma / di materia massiccia sporca e carminiata”4. Insomma, in questo scritto che risale al 1947, l’arte vibra tra la materia massicciamente bisunta e carminata, come nello stesso Van Gogh, che prolungherà la sua estetica sino alle vibranti esperienze del Gruppo Cobra5, preparando l’arte contemporanea ad altri rapporti con la fisicità della tela e del colore. Infatti, a conferma che il mezzo pittorico è di per sé latore di un messaggio che si sposta al di là della dimensione pura considerata da Marshall McLuhan, va rammentato in che misura Mark Rothko, uno dei maggiori pittori degli anni Quaranta, fu tra gli inconsueti entusiasti di tecnologia, usando pigmenti che non hanno fatto fronte ai guasti del tempo. Già i preraffaelliti utilizzavano i prodotti versatili della nuova tecnologia chimica, per rappresentare un mondo che la scienza non aveva mai corrotto. Per Jackson Pollock, poi, i nuovi colori incarnavano l’attualità del proprio tempo. Inoltre, un artista che ha usato in maniera incondizionata vernici industriali fu Frank Stella, entusiasta di stendere una sostanza acrilica veloce, anonima, forse priva di fascino, prodotta in serie ed adatta ad oggetti di arredamento industriale. Helen Frankenthaler si dedicò alle vernici perché sottraevano alla comunicazione pittorica il sentimento. David Hockey, in una retrospettiva del 1970, del suo passaggio (del 1963) dagli oli agli acrilici dichiarò: “Quando usavo i colori ad olio dovevo sempre lavorare almeno a tre o quattro quadri contemporaneamente, perché allora potevo continuare a dipingere ogni giorno… bisognava aspettare che asciugassero. Ora invece è possibile lavorare tutto il tempo a un’opera sola”6. In sostanza dalle parole stesse degli artisti si può capire che la storia ultima del pigmento pittorico coincide con la crisi e la metamorfosi della pittura stessa del nostro secolo e soprattutto con l’impossibilità dell’uomo nel suo atto artigianale di ritornare indietro nel tempo, a meno che questo ritorno indietro non rappresenti una forte motivazione concettuale. Non a caso Alechinsky, il vecchio componente del gruppo Cobra, per le sue composizioni di grande formato, dal 1965 utilizza esclusivamente colori acrilici, che rendono il tratto più morbido e meno espressivo. Il pittore Morris Louis (scomparso nel 1962), riprendendo dalla tecnica della Frankenthaler e ignorando i pennelli, creava delle macchie versando colore acrilico sulla tela grezza. Whaam! che fu dipinto nel 1963 da Roy Lichtenstein, uno dei primi artisti a utilizzare immagini tratte dai fumetti e dalla pubblicità, fa parte di un ciclo di grandi acrilici su tela (misura 173x406 cm) in cui non vi sono dubbi sulla metamorfosi che la pittura del ‘900 subì di fronte all’avvento dell’elogio tecnologico e nella tecnica di esecuzione di un manufatto. L’impianto è dotato di una grande apologia del mondo della reclame ed il segno riflette – come scrisse Jean Baudrillard nel 1974 - “l’anomia nella società opulenta”7. Kenneth Noland, anche economicamente, era contento dell’acetato di polivinile, il rinomato PVA per impastare pigmenti in polvere aiutava le perversioni tecnologiche dell’artista.
In sostanza, l’alchimia operativa viene assorbita dal mondo tecnologico e il colore rispecchia il nuovo termometro della pittura, che collabora a rendere anacronistico qualsiasi principio di purezza e pulizia. Ecco perché l’esigenza di ecologizzare il discorso pittorico diviene una scelta politica e soprattutto una scelta analitica, una predilezione critica e concettuale che guarda con scetticismo tutte le forme di costruzione pittorica che non partono dall’analisi del proprio fare. Nella breve definizione di Olio su tela, mostra del 2005 a San Marino Nardi dichiara: “Ho definito il grado oggettuale della Pittura sperimentando la stampa digitale. Si è resa evidente – la concreta realtà – innestando la micropittura dei corpi in immagini prelevate dal contemporaneo, ispirate a drammi sociali legati alle istanze ambientali, come nella grande opera “Mapping Dora” del 2002 (realizzata dopo l’11 settembre 2001) […]. Nel ready-made sostanziale della Pittura la materia permane nella sua immanenza”8. In sostanza Nardi dice che in una fase digitale corpo e materia della pittura si virtualizzano e in un secondo momento la tecnologia si trasferisce nei riflessi di colore della luce cromatica. I pigmenti pittorici, oggi prodotti sinteticamente, un tempo venivano ricavati impastando la polvere ottenuta dalla frantumazione di particolari minerali con diversi tipi di grassi e oli. I minerali più usati, con i relativi pigmenti in polvere e in pasta sono l’ematite, malachite, azzurrite, cinabro, lapislazzuli, realgar e orpimento.
La maggior parte degli artisti usa oggi colori a olio di produzione industriale, confezionati in tubetti. I pigmenti utilizzati devono essere insolubili, stabili nel tempo e chimicamente inerti. I colori a olio asciugano con l'esposizione all'aria, per assorbimento di ossigeno. Poiché gli oli grassi tendono a ingiallire, si usano come diluenti oli essenziali di origine vegetale (essenza di trementina, di lavanda ecc.). I supporti più indicati per la pittura a olio sono il legno e la tela di lino, cotone o canapa tesa su un telaio mobile o incollata su tavola. Il supporto deve sempre essere preparato accuratamente mediante la stesura a più riprese dell'imprimitura, una mistura di colla e gesso, che garantisce la presa e la stabilità dei colori. La tecnica della pittura a olio si presta a una grande varietà di procedimenti, ma prevede in genere alcune tappe fondamentali. I pennelli più utilizzati per l'olio sono prodotti con setole piuttosto rigide, ma si usano anche spatole e perfino “l’universo mondo”. Nel corso dei secoli, si sono succeduti vari metodi, teorie e stili artistici, spesso riproposti, per quanto modificati, in vari momenti storici. Ad esempio se gli impressionisti sono usciti del tutto trasformati dal confronto con la fotografia, i nuovi pittori ad olio del XX secolo sono usciti del tutto modificati dal confronto con i media e con la rivoluzione digitale. Non a caso Adriano Nardi, in uno dei suoi appunti sulla metodologia della micropittura, che risale al 16 giugno 2005, registra il fenomeno che la Kodak ha deliberato la fine del bianco e nero. Questo ultimatum tecnico, se da un lato mette fine ad una storia della tecnica, dall’altro apre degli orizzonti problematici che solo l’arte e l’immagine mediale dagli anni ’80 in poi ha tentato di definire. Infatti, Nardi suggerisce di parlare, al di là della figurazione e della rappresentazione, di pittura figurata e soprattutto “nel concreto superficiale della materia e della sua virtualità luministica” di micropittura “intesa anche come percezione ecologista delle cose e delle sostanze”. Non a caso Nardi, volendo giungere ad un approccio molto semplice, ha chiamato la sua mostra a San Marino Olio su tela, per rivendicare - così come facevano i pittori degli anni Quaranta - che ci troviamo di fronte ad una tela, quindi ad una “vera materia e ad un vero colore”. Ma, in effetti, chi ama la verità oltre il paradosso sa bene che, come afferma l’acutissimo Victor Sklovskij, se l’arte è pensiero espresso per immagini anche la tela, la materia e il colore sono le componenti grammaticali di un’immagine, che è spirito di infrazione ma non di negazione di se stessa, anche là dove abbiamo davanti ai nostro occhi dei ritmi assolutamente deformi, astratti e che fanno fatica ad accennare ad una qualsiasi figurazione o figura. Infatti, insisteva col dire Sklovskij, la “parola figura è anch’essa una figura”. Adriano Nardi indica, dunque, l’olio su tela come la sponda più radicale della materialità della pittura, ma inevitabilmente anche come il metro di paragone tra il godimento della pittura e la pregnanza oggettuale della stampa digitale.
In effetti, il desiderio del pittore è quello di legittimare il suo stesso mestiere come strumento per “terapeutizzare l’attività della percezione” e difendere quasi sempre il gioco della propria identità. Così disposte, la logica e l’attenzione di Nardi vogliono andare “oltre l’accademia”, ma sarà mai possibile tutto ciò? Oppure, questo desiderio è solo un modo di farsi riconoscere oltre la coltre di crisi, che si addensa nel territorio stesso della pittura, all’indomani delle nostre ansie attuali? Le ansie che oggi ci affliggono sono tante ed una di queste è quella legata alle mitologie della tecnologia. In altri termini, siamo assolutamente sospettosi nei confronti dell’affermazione della tecnologia, quasi come se fossimo le vittime predestinate del suo gioco infernale. Ma chi lo dice che la natura è così serena e benefica con noi? L’artificio ormai ha il suo essere, ha la sua etica e questa, al di là delle ansie, filtra i desideri di un’arte che è figlia del nostro tempo complesso, nel quale la pittura è stata assolutamente fagocitata. È il caso di Nardi che, quando evoca la pittura nuda, parla di una nudità desiderata, critica, iconograficamente insidiosa come il corpo di una bella donna - da cover di magazine - che ci desta i sensi e ci conduce nell’universo dei sogni erotici infiniti. La disputa di Nardi si rispecchia in queste sue parole: “Nei quadri dalla prospettiva bidimensionale o dalla struttura geometrica a scalante (vedi teoria dei frattali) come gli “hurricanes” o “pittura libera”, la anomalia apparente, transgenica, tra riproduzione manuale e riproduzione tecnologica, restituisce il fascino del potenziale microstrutturale…”.
Per ricordare quanto sia inscindibile il rapporto tra la salvaguardia del naturale e l’affermazione dello sviluppo tecnologico, basta fare l’esempio delle discariche di rifiuti: l'eccesso di produzione di rifiuti è una delle conseguenze del livello tecnologico raggiunto nella civiltà occidentale. In un mio recente articolo sulla questione del natechrealism e sul connubio tra ecologia e tecnologia, rendevo al paziente lettore il seguente esempio: “un giornale distribuito nei paesi dell’Asia meridionale restituisce una notizia veramente globale: si racconta che ogni anno l’India importa centinaia di migliaia di PC che arrivano sottoforma di omaggio o di materiale da riadattare. Ma sono solo rifiuti, come lo sono i frigidaire, i cellulari e gli apparecchi televisivi. Il servizio, pubblicato sul magazine Outlook, sostiene che: “Per osservare i “riciclatori” all’opera basta transitare su una delle strade di Bombay. Drappelli di adolescenti sbudellano PC e videoterminali, estirpandone i componenti. I pezzi vengono puliti con polveri o soluzioni acide e divisi dalla plastica, oppure si approssimano ad andare al fuoco, per poter staccare e dividere i diversi metalli. Finanche i tubi catodici, che contengono piombo, vengono inceneriti per rinvenirne il vetro. Infine, i residui arrivano nei cassonetti e indirizzati alle discariche. I ragazzi si muovono con scioltezza, lavorano senza guanti e senza nessuna protezione contro i fumi velenosi”. Guardando lo spettacolo di Bombay è facile capire quanto siamo affezionati alla nostra civiltà e, soprattutto, quanto nel bene e nel male la condizione tecnologica è planetaria. Globale fino al punto da inserirsi in qualsiasi rapporto e dimensione umana. In effetti questa realtà serve a dimostrare che, non solo non amiamo i nostri territori, ma ogni giorno siamo costretti ad osservare con sempre maggiore indifferenza l’immiserimento prodotto dal nostro sviluppo, avvezzandoci al suo costante andamento”9. Ecco, questo è quello che dicevo a proposito del nostro consumo tecnologico globale, con l’intenzione di dimostrare che nessuno di noi è più in grado di prescindere da questa realtà e che quindi una possibile riflessione sulla nudità di una tecnica non sarebbe più in grado di ignorare il filtro globale di una medialità conflittuale. La “pittura figurata” che dir si voglia non può che essere pittura mediale e quindi in quanto mediale non può che essere un ossimoro della pittura stessa ed un suo antidoto10. In effetti, in quell’occasione di analisi in cui usavo la pittura come ironia sulla pittura stessa scrissi - usando il corsivo - che la pittura è una tecnica che serve a gestire le immagini digitali nella loro immediatezza. A distanza di poco tempo, anche per quanto riguarda Nardi, non riesco a cambiare il mio parere. La pittura oggi rimane un ossimoro ed essa anche se si pone problemi di naturalezza, sulla sua stessa visione tecnica non potrà mai più prescindere dal confronto e dal matrimonio bio-genetico con altri media, fino al punto che essa direttamente o indirettamente nel contemporaneo è condannata ad agire sullo sfondo di una grande mimesis mediale per assorbire: astrazione, informale, verosimiglianza, rappresentazione, ecologia, spazialità et via di seguito. Insomma, la pittura non è più un punto e daccapo, ma semmai un flusso nelle arti. Con la sua grande conformazione conceptual-design può comprendere una scelta di specificità pittorica, istallativa, scultorea et seguito. Anche a partire da ciò, Adriano Nardi mette insieme immagini fluenti e concentrate dove l’attrattiva del volto muliebre, attraversato da campi cromatici e da scansioni geometriche, sembra rivelare le coordinate di una nuova e possibile sensibilità del mondo attraverso la provocazione edonistica.
Oggi tutti danno ragione al medialismo, tutti riconoscono che per fare un discorso attuale sulla pittura bisogna confrontarsi attivamente con la fotografia, il digitale o il video, rielaborando le sollecitazioni dell’universo comunicativo. La pittura oggi si salva dalla decadenza solo se punta a guardare la vita quotidiana. Essa non può restare con lo sguardo intatto, solo se guarda al mondo si nutre del mondo. Tutto ciò Nardi lo mostra, passando da una costruzione metamorfica del quadro, da una doppia valenza digital pittorica ad una soluzione “nuda”, in cui il digitale è solo evocato nelle fessure, nei nicchi, nelle pieghe, negli angoli delle figure, nelle texture recondite del corpo femminile. Le occasioni di espressionismo astratto sono dunque puntuali, sovrapposizioni di vestizioni che nella loro violenza non intaccano neanche per un attimo quei tenui e riposati ritagli di visività iconica, che la donna eroticamente nasconde. Momenti di attrazione fatale della pittura stessa, che rivelano il corpo a corpo tra densità ed espansione del segno.
Le immagini sono tutte tagliate sul doppio organismo della versatilità pittorica. Alcuni dettagli che con colori forti e penetranti mettono in risalto dei particolari suadenti di un’anatomia iperstimolata, sono caoticamente rivestiti da una pennellata Cobra che completa il resto della figura. Da qui in poi appare una donna, che in alcuni dettagli è ben visibile e al limite della guaina fotografica ed in altri è vissuta da una pittura gestuale, rivestita dalle materiche e concrete manate dell’artista, che con questo suo tentativo di corpo a corpo, documenta il desiderio di sessualizzare, possedere fisicamente la pittura. Da questa doppia visione viene quindi fuori che se i dettagli percettivamente giocano nell’immagine la strategia dell’assenza, se la versione fotografica svaga la dimensione micromediale della riproduzione e della concettualità, l’azione gestuale della vestizione, col suo caos, con la sua agitata performance segnica: sbuccia, stempera, sovrappone, dilata, smarginalizza l’immagine, rendendola incodificabile e alterata nella seduzione. Quindi, la donna è lì con le sue spoglie colorate, androgina, venerea quanto la pittura, con i suoi inviti ambigui, con le sue espressioni compiaciute, con le sue eccitazioni provocanti, che legittimano la paranoia dell’edonismo maschile. Essa forse è aliena a se stessa e didascalicamente sfuggente alla sua condizione, per non essere nell’oggetto, per essere lontana dalle voglie di chi la fa apparire inerte alla passerella, a cui il mondo dello spettacolo vuole piegarla. Ecco perché le immagini restano immagini.
I visi e i corpi delle ragazze sono l’incarnazione stessa della pittura figurata e medialmente metamorfica, dove il fascino e la seduzione si fa spazio attraverso altro charme ed altro sex-appeal. Nardi, contro l’idiosincrasia mediale della telecronaca dei drammi dell’umanità, ci mette di fronte ad una provocazione, la stessa istigazione che abbiamo ritrovato nell’apocalisse dei sensi di Houellebecq ne “Le Particelle Elementari” (trasposto anche sul grande schermo). La pittura è nuda perché le ragazze sono nude ed avvenenti e tutto ciò, anche se potrebbe provocare un certo sospetto di percezione filomacista, a me non sembra che abbia niente a che fare con la dialettica ambigua del “potere o della desacralizzazione del potere delle donne”. Rispetto ai quadri precedenti, sembra che Nardi abbia un po’ abbandonato il retaggio ribelle e la denuncia dei drammi sociali, per dedicarsi ai bei nudi della pittura. La verità è che la donna, fuori dai suoi poteri, così come nel film The Libertine con Jonny Deep e John Malkovich, viene indicata come qualcosa di più di un’immagine scomposta. Essa è il corpo della pittura, è quell’alchimia operativa per l’estensione del desiderio, è un colore per la riproduzione della gioia di vivere che nasce dall’appagamento e dal desiderio della pittura stessa. La seduzione pittorica di questa donna stimola il nostro occhio ad un nomadismo erotico, che vuole essere vissuto senza colpa, ma come chiave per liberare la nostra condizione umana di ateologi del godimento. L’uso plurale, eccitato ed entusiasta del colore indica una sorta di neo-libertinismo ateo ed una giusta esaltazione edonistica. Vale la pena discendere nel Trattato del corpo amoroso di Michel Onfray che in Europa è ormai di grande successo, per scardinare l’eccitazione della pittura di Nardi, più che seguire l’euforia dell’icona in sé. Qui non è il contenuto, ovvero il corpo stesso della donna che riflette lo stato di eccitazione, ma è il fare pittorico stesso che nel suo processo, nella sua esecuzione, si dis-vela, dis/vela il suo abile criterio psicoanalitico. La pittura non è un corpo di donna, ma il corpo della pittura. Essa non è la mano della donna, pur bella, avvenente e fatale, che Nardi compone e scompone sulla superficie, giocando sulle differenze tra il dettaglio vezzoso e la massa ancestrale e psico-pittorica post-Cobra che la ri-veste dopo averla denudata, ma è il segno efficace dell’eros stesso, del pigmento nelle sue differenze di stesura, nelle sue declinate competenze, nei suoi tratti che si giocano tra l’algido e il denudato e il valente rivestito.
Se il corpo tende al godimento anche chi esegue la pittura prova piacere a godere, immergendosi negli impasti e nei riverberi del colore per sconfiggere la minaccia satanica e proibizionista di quegli avvenimenti che negano il piacere dell’organismo, della quantità di materia che rigenera l’afflusso adrenalinico del nostro sangue, della nostra indole impulsiva, del nostro tessuto liquido che dal corpo tende a comporre l’immagine della Pittura-Donna. Dunque se la “pittura è nuda”, è perché c’è ancora qualcuno che ha voglia di farci l’amore e di gioire con essa, insomma di esultare con l’immagine della sua realizzazione e della sua fluttuante ecologia percettiva. Se la pittura dopo l’esperienza digitale si è spogliata della sua artificialità, è perché il corpo del suo essere donna ha raggiunto un’altra nudità androgina, un’altra vestizione al limite tra il finto e il finto vero. Qui, in chiosa finale, vale la pena ricordare uno scritto forte di Roland Barthes del 1973, Le plaisir du texte che sottolineava lo spirito di godimento del fare. Barthes ci serbava memoria del fatto che “bisogna affermare il godimento del testo contro qualsiasi appiattimento”, ora è come se Nardi nella ricerca della nudità della pittura dicesse altrettanto. Cambiando le parole di Barthes potremmo dire la pittura è “una forma umana, è una figura, è un anagramma del corpo… […] è evidente che il piacere è scandaloso. Non perché è immorale ma perché è atopico”11."

1 Risultato di un processo di astrazione; il concetto è ciò che Aristotele attribuisce a Socrate: la corretta definizione di una cosa che si sottrae alle opinioni ed alla variabilità delle esperienze, quindi il concetto è, secondo Ch. S. Peirce, ciò che si trasferisce nel significato e quindi nell’ambito della semantica.
2 Aristotele, Categorie, in Opere, Laterza Bari, 1973, vol. I, 9 b, 27-34.
3 In Catalogo del Ciclo Espositivo nell’ex Chiesetta di Sant’Anna, Nardi, ed. Gall. D’Arte Moderna e Cont. Repubblica di San Marino , 2005, p. 9.
4 Antonin Artaud, Van Gogh. Il suicidato della società, a cura di Paule Thévenin (1974), tr. it. di Jean-Paul Manganaro, Adelphi Milano, III ed. 1996, p.111. Per quanto riguarda un commento generale al rapporto Van Gogh Artaud mi permetto di rimandare al mio Pour Artaud. Neuralità e delirio nell’arcipelago dell’introspezione, Edizioni dell’Ortica, Bologna 1997.
5 Gruppo di pittori e scrittori attivo in Belgio, Danimarca e Paesi Bassi dal 1948 al 1951. Il nome è un acronimo delle tre città in cui il gruppo operò (Copenaghen, Bruxelles e Amsterdam). Fondatori del movimento furono gli scrittori belgi Christian Dotremont e Joseph Noiret, insieme ai pittori olandesi Karel Appel, Constant e Corneille, che avevano fatto parte del Gruppo Sperimentale, fondato ad Amsterdam qualche mese prima, e il pittore danese Asger Jorn. In seguito vi aderirono molti altri artisti, tra i quali Pierre Alechinsky. Nello spirito di un'arte collettiva, i confini tra la parola scritta e la pittura spontanea erano tutt'altro che rigidi: scrittori come Dotremont e Lucebert dipingevano, pittori come Corneille e Constant scrivevano. Il risultato fu una notevole sinergia di immagine e parola.
6 David Hockey: Painting Printings. Printis and drawing 1960-1970, catalogo della mostra Whitechapel Art Gallery, London, 1970, pp.11-12.
7 La société de consommation. Ses mythes ses structures, Gallimard, Paris 1974.
8 Op. cit., idem p. 9.
9 Il brano del mio scritto che qui cito è riportato nella rubrica Osservatorio Critico, col titolo Natechrealism. Tra tecnologia, fusi orari e miniaturizzazioni, in Segno. Periodico internazionale di arte contemporanea, edizioni Fondazione Segno e Sala editori associati, Pescara, 2006, p. 94.
10Sull’ossimoro della pittura mediale si veda il mio testo Nascosto dietro gli “umiliati e gli offesi”, un’introduzione inserita nella monografia Antonello Matarazzo, opere 1995/2005, editore Publisher, 2005.
11 Roland Barthes, Il piacere del testo, tr. it. di Lidia Lonzi, Einaudi, Torino, IV edizione, 1980, p. 22.



ADRIANO NARDI, ”Pittura nuda”, testo dell'artista in catalogo della personale "Pittura nuda", edizione Studio d'Arte Fedele, Monopoli (Bari), Giugno 2006

"C'è qualcosa che non si vuole dire, c'è qualcosa nei corpi e nelle geometrie che non si vuole dire, per dirle bisogna vederle, per vederle bisogna desecrarle.

Barocco come concetto-scudo, bozzolo, indescrivibile? E se la realtà fosse solo Barocca? Se l'estetica fosse solo Barocca? Barocco, baroccume, eccesso, stravaganza, bizzarria, di cattivo gusto! Ancora nel dizionario troviamo che il termine deriva da un incrocio del termine della scolastica “Baroco” - dicesi tra parentesi "schema mnemonico di un tipo di sillogismo"- con il francese “Baroque” a sua volta derivazione del portoghese “Barroco” (Perla irregolare). La perla irregolare, è naturale, va aperta. Se il mondo fosse solo Barocco, e pare che lo sia, cosa c'è oltre?

IL SOTTOSISTEMA, IL CAOS, LA SUA FORMA REGOLARE deve sfuggire via dal blocco della definizione, al suo interno troveremo le mille risposte.

Non cerchiamo un sottoinsieme ma la sua verità, la sobrietà del Barocco, il ruvido tenue, il colore di uno strappo francescano.

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Cos'è la micropittura? “dovresti spiegarlo” mi suggeriva Gabriele Perretta. Non ho voluto farlo nella forma che avrei pensato potesse o potessimo intendere in quel momento1 per lasciare aperta e penetrabile proprio la scala dimensionale. Ora voglio dire qualcosa, riguardo la micropittura. Voglio spiegare in che modo ho sempre guardato la “pittura” nei musei e nei quadri di tanti da vicino, per capire, al di là della scienza del dipingere, di ogni scuola o mestiere o maniera o genialità, cosa succedesse nella materia, nella natura. Cosa fosse possibile intuire o vedere nella libertà riflessiva (cioè della luce riflettente) in quel suo correre, librarsi, cadere e alzarsi, elevarsi e sprofondare, ma soprattutto cosa fosse quella possibilità spaziale.

Cioè cosa può rappresentare, poeticamente, una luce descritta, in mimesi, rappresentata, nel momento in cui la vedo solo nella sua epifania endogena. Nella sua concretezza reale e totale. L'architettura di entrambe queste componenti assieme, crea un varco per la terapia della percezione. E' terapeutica per la percezione.

La percezione necessita di una lunga terapia; in questo senso ritengo ecologico il fare pittura, e naturali i suoi strumenti con cui riflettere e capire l'ambiente che ci circonda e in cui viviamo.

Microdipingere forse vuol dire fare una faccia, un paesaggio in una piccola parte del viso ma anche pensare che proprio di lì, sopra quella densità oleosa del colore, transiterà una piccola entità di vita, magari un piccolo insetto. Non ci siamo, ancora. Vuol dire camminare ma essere scomparso, troppo piccolo per essere visto, da lassù.

Vuol dire avere intorno una luce che riflette insieme a te un unico colore, cioè riflettere insieme e chissà quale colore. Io non so quale colore sia ma voglio che sia un colore naturale e rivoluzionario.

(28 ottobre 2004)



A "Match"2 durante il confronto-dibattito alla galleria Russo, i pittori presentati da Marco Tonelli (in particolare Nicola Bragantini, con cui ho successivamente stretto amicizia), hanno insinuato che la mia pittura come le altre del nostro gruppo, presentato da Lorenzo Canova, ‘non ha spessore’. Il confronto si è acceso (per fortuna, visto le chiare differenze tra i gruppi, all'inizio era un po' troppo pacifico). Partendo dal presupposto che io abbia usato immagini "New global" dal 30 novembre del 1999 - più giusto che "No global", termine con cui mi ha prontamente sostenuto Canova - per riferirmi al nuovo movimento di pensiero mondiale che ha rimesso al centro l'uomo ma anche la natura, ho detto che "dipingo anche per le formiche". Mi è uscita così. E mi è uscita anche la parola "micronizzata" riferendomi alla pittura, perché invitavo a vederla appunto da una posizione molto ravvicinata.

Bragantini ha parlato di "palestra" allo studio, di limite mai certo, è convinto che partendo da un progetto, il lavoro sia in un certo modo… prevedibile. Mon Dieux, io solo posso ben sapere quanto la mia pittura richieda costanza di concentrazione e impegno fisico, e quanto non vi sia certezza nel dipingere zona per zona; queste sono ideate prima ma aperte - e le aprirò sempre più - al confronto luminoso con le altre, al movimento interno della massa concreta del colore ad olio che mi lascia sempre la libertà e la solidità della ricerca del limite.

Ogni esperienza del passato e ogni dato teorico o filosofico, ogni concezione del momento storico, tendono a convergere al centro del'opera. Nella sua idea viva, mai morta, della Pittura. L'ideale - il colore - che trita concettualità, oggettualità, figurazione, astrazione, descrittività e descrizione, gesto informale e pittura "mossa fresca", non velata, non ripensata, non ricoperta o abbassata. Sempre invece una eccitazione retinica per la riflessione della visione.

Ho detto: per una NUOVA VISIONE.

L'opera in mostra - "Sine Direction", o anche detta "Il seno selvaggio"3 - era tecnicamente doppia tra digitale e pittura e questo ha portato un certo scompiglio, essendo loro “pittori e basta”, arrivando a farli affermare in modo totalitario l’avversione nei confronti della tecnologia: io l'ho portata in palestra con me, senza negarla a priori.

(18 dicembre 2004)



... La natura è sì spietata, come noi lo siamo verso scale inferiori e diverse, esterne alla nostra coscienza.

Esiste un mondo che non ci appartiene, quello che facilmente allontaniamo con un passo o con un movimento del corpo, e quello che ci ignora perché piccoli, senza peso e misura del corpo differente, che crea un'asola invisibile ma molto efficacemente collegata, connessa e attiva, fautrice di trasformazione microstrutturale...

(28 dicembre 2004)



Un'opera concettuale può avere uno stile?

Esiste una figurazione concettuale?

Esiste un'opera concettuale figurata?

Quale visione, quale stile rappresentativo porta quest'opera concettuale?

Che cosa vuole figurare?

Che razza di oggetto naturale è, questo tipo di opera concettuale?

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Nei quadri dalla prospettiva bidimensionale o dalla struttura geometrica a scalante4 come gli “Hurricanes” o “Pittura libera”, la anomalia apparente, transgenica, tra pittura manuale e riproduzione tecnologica, restituisce il fascino del potenziale microstrutturale nel refuso fenomenico del linguaggio.

L'immagine scompare sotto i colpi della propria oggettualità; viviamo la gioia di un contatto ravvicinato con la dissolvenza culturale nella entità naturale della forma.

Lo psicologismo, qui, muore nella materia.

(2 giugno 2005)



Kasimir Malevitch, uscendo dalla problematica della figurazione (“no al paesaggio, no alla natura”) afferma il proprio essere, nella scelta radicale, oltre, nell'eccesso oggettuale, bidimensionale, geometrico.

Da qui, ecco la nuova coscienza dell'individuo libero, e liberato.

Concepisce successivamente un nuovo ritratto 'rinascimentale', in quanto è la coscienza del mondo ad essere nello spazio; vede e rappresenta un uomo nuovo che si ammanta di geometria e di colore.

Ma cos'è il colore di un corpo?

Quale luce vediamo riflessa?

Su cosa riflette?

Su quali strutture, dell'oggetto e del cosmo?

Malevitch cambia le date dei quadri in quanto sa bene che il nostro tempo è un assoluto relativo. Ciò che appare ai suoi occhi continua un discorso nel futuro precedente al proprio presente. Vede con la ricerca, l'altra via possibile e alternativa, in una geometria non lineare, intuita sul corpo, nello spazio )( inverso )( al prospettico.

Malevitch muore, e rimane corpo ammantato nella geometria della sua bara.

oltre

(13 giugno 2005)



Appunti per la percezione della pittura o della pittura come percezione.

Se dipingiamo su una immagine proiettata, interpretiamo la luce "punto per punto".

Sul piano inteso sia come superfice che come pelle figurata.

Lambendo o incidendo sulla parte esterna del corpo proiettato, delle sue masse, la luce crea quel tono, quel grado di luminosità: sia graduando il cromatismo con l'uso del bianco - nella cui gamma come è noto sono presenti tutti i colori dell'iride - che con l'uso di un modulato spessore d'olio, in cui le trasparenze della luce diventano pelle, membrana.

Questa visione doppiamente ravvicinata, del corpo della pittura e del corpo rappresentato, del concreto superficiale della materia e della sua virtualità luministica nella visione dello spazio in senso prospettico classico, definiscono il concetto spaziale di micropittura, intesa infine come percezione - in senso ecologista - delle cose e delle sostanze, mano a mano che le avviciniamo, per quasi attraversarle.

Non parliamo, allora, né di rappresentazione né di figurazione quanto semmai di pittura figurata: oltre l'accademia e oltre l'oggettualità.

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Ieri la Kodak ha decretato la fine del bianco e nero fotografico: usciranno di produzione le tecnologie che per buona parte dell’ottocento e per tutto il novecento hanno prodotto un medium (per la riproduzione di immagini) che ha contribuito a trasformare la nostra percezione in un determinato momento storico.

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Tentativo di fare un quadro blu con l'arancio

(16 giugno 2005)


La critica attiva che solitamente promuove l’ottocentesca retorica della profusione oggettuale, nel momento in cui si avvicina alla pittura, coerentemente sceglie e promuove quella aggrappata alla mimesi del reale nel senso più letterario, cioè quella pittura che descrivendo il reale, qualsiasi sia l’istanza che ne promuove le immagini, ancora una volta promuove la distanza dallo stesso, definendo ancora l’arte come fenomeno culturale extra-ambientale. Così si alimenta in modo inconsapevole, l’idea dell’arretratezza della tecnica pittorica, effettivamente antica, ma non superata. Quasi introvabili - ma si possono forse timidamente delineare - sono invece quelle realtà critiche che comprendono la natura contemporanea della Pittura, la quale non sopravvive quando si assoggetta al tema tradizionalmente realistico della figura, e invece vive quando è al suo grado più avanzato di natura post-oggettuale. Lungi dal volere riesumare la stravecchia querelle tra figurazione ed astrazione, voglio invece affermare il mio leggero impegno alla ricerca della naturale libera convivenza di entrambe. Nella speranza appunto di causare, come piccola goccia attiva nel mare della complessità ambientale, la minor quantità di danni possibili.

(25 giugno 2005)



Il punto di partenza potrebbe essere la visione concreta di Cezanne: dove il dadaista Duchamp chiude nel picco tridimensionale.

Mi piace pensare che ora sia la pelle - il parametro di non esagerazione - senza di cui si deborda nel possibile reale, quantico, come oggi lo conosciamo.

La narrazione, insita in un oggetto reale come nella sua rappresentazione, è eccessiva come la nostra scala tridimensionale.

Cercate di vederla, questa figura geometrica eccessiva della letteralità! Si trova anch'essa tra il piano e l'immagine, ma ne distorce il disegno.

Quel disegno diventa perfetto quando lo lasciamo entro quella misura che vado a spiegare, tra il segno e la chimica.

Lo spazio di una nuova figura geometrica è nella atmosfera micro: ad esempio come materia-montagna su una superficie-pianura.

La struttura riflette la luce che avviene anche in questa figura.

Ecco dove si narra bene: in quello stare o essere giù, o dentro, dove la luce costruisce un nuovo ambiente.

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Alcuni punti:

- Il colore puro riflettente5 (nel testo della personale “As straight as”6 l'ho individuato definendolo come monocromatico)

- La densità macchinica7 riflettente (l'olio permette uno stravolgimento cromatico sul piano)

- Il segno - aria - battente

- Il disegno riflesso

- Il piano natura del lino

- La luce descritta del piano

- La descrizione del vuoto pieno del percorso (meta? spirituale? scientifico? esoterico? vertiginoso!)

- Dalla estetica cubista alla coscienza geometrica frattale

Nell'opera “Videofiliazione” del 1996 - esposta nella mia prima personale nel 1998 all’Università “La Sapienza” di Roma8 - nella scalante che si interrompe, da una parte si innesta il museo e il suo spazio, dall'altra i contenuti cromatici e sinteticamente narranti il diversamente micro-strutturato dell'immagine pittorica. Se avessi potuto continuare nell’ideale riduzione a scalante di una piramide tronca aperta sul piano, questa serie di figure connesse - costituita da una unica tela geometricamente ritagliata e articolata come una ramificazione frattale - sarebbe arrivata ad essere più piccola del colore inteso come segno, pennellata, corpo, particella.

Nel ciclo attuale di ricerca “Sine direction” è l’opera in cui vi è la svolta geometricamente descritta, in cui il linguaggio ha preso una via di chiarezza differente.

(28 giugno 2005)

Ieri ho visto la "Guerra dei mondi" di Steven Spielberg. Una dinamica particolare è resa benissimo nel dramma invisibile che l'uomo crea in natura, e in quello visibile nella guerra tra i mondi. Risulta evidente l'idea della scala dimensionale biologica, come spazio da comprendere, per una sopravvivenza nel naturale. La salvezza, pare si affermi anche qui, è nell' "òntos mikròs"9.

(30 giugno 2005)

Il colore appartiene ed è dato dalla presenza, o meglio immanenza, della luce. Il mondo si compone in un ordine visivo casuale e naturale, in cui il fenomenico della biologia, della chimica delle sostanze e dei corpi, si attua dinamicamente in un fluido rapporto con la luce. La luce ne promuove ed energizza le trasformazioni.

E' chiaro, non affermo niente di nuovo. La novità va cercata non nella certezza della fotodinamica come tale, ma nella consapevolezza di una ulteriore sua potenzialità estetica e simbolica. La figura immaginaria che possiamo percepire è il vero nuovo che si attua quindi nell'immanente fenomenico.

Se dovessi pensare e realizzare, ora, delle “Microdipinta”10, scieglierei di avvicinarmi ancora di più all'idea di questa parola, in cui lo sguardo femminile scelto per essere intriso di una leggera materia pittorica, dimostri prospetticamente l'assestamento del piano della pelle del viso a quello del piano della carta. In questo asse coincidente dei due piani, l'olio della pittura penetra lentamente nella porosità della carta già imbibita dai micropunti di stampa tipografica. Ho scelto di operare la mappatura digitale fotografica punto per punto con l'uso dello scanner non appena il materiale pittorico è stato intriso sulla carta. L'olio fresco viene così fotografato mentre penetra nella cellulosa. Nel minuto di tempo in cui avviene la mappatura, stiamo registrando un brevissimo tratto del nostro tempo relativo. Il micro-fenomeno fisico dell'assorbenza tra sostanze, l'assestamento tra le molecole, definisce una temporalità differente, proporzionata a quella dimensione infinitesimale che spesso sottovalutiamo e allontaniamo dalla nostra consapevolezza esistenziale.

Tornando anche alla figura immaginaria della Micropittura, posso ora definire come affrontare la pittura ad olio su tela nella consapevolezza della fotodinamica dei fenomeni naturali, o come meglio generare una immagine in quello stesso asse di coincidenza di piani. Percezione generante quindi un oggetto - il quadro - nel cui asse perpendicolare al piano della visione frontale si attui una compresenza estetica e oggettiva, punto per punto. L'icasticità della mimesi al grado intellettivo in cui al grado concreto si formi quello strato ideale: la membrana oggettuale della pittura che sà di essere chimica, molecolare, micronizzata.

Ecco che il soggetto femminile simbolico della pittura è consapevole di mostrarsi e di descrivere le proprie sostanze. E' cosciente11, la Pittura, di farsi icone di una compresenza estetica di dimensioni differenti e volutamente, per zone, differenziate. Nel realizzarsi punto per punto, è bello mostrare, per far comprendere, una compresenza.

Su quella membrana assolutamente piatta e bidimensionale del lino preparato (ma se ci avviciniamo ne notiamo anche la trasparenza organica infinitesimale) l'olio si adagia ed attua una lentissima penetrazione; nel tempo si attuerà la graduale essicazione. Ecco quindi la visione che chiamiamo concreta di una pennellata, di un grumo di colore, che possiamo definire così per la sua dimensione, per la scala definibile al suo grado simbolico oggettuale. Ma ecco, vicino, a lato o sovrapposto, compresente, appunto un grado di visione icastica differente, in cui nella uguale porzione della stessa scala si passa dalla visione oggettuale a quella della mimesi. La materia pittorica viene cioè, in quell'uguale centimentro, non solo compositivamente ed esteticamente poggiata con un gesto, con le setole di un unico pennello o dito. Viene trattata in un grado di visione inferiore - nella scalante - in cui si attuano scale minori di pennellate, segni, trasparenze, cercando il massimo, quasi ammaliante, della seduzione figurativa.

(10 luglio 2005)


Un divario minimo in una diversa globalizzazione.

La micropittura come educativa pratica della percezione e ginnastica della vista.

Se dipingiamo costruendo un corpo la pennellata è alla nostra vista, su quella scala, una pennellata mimetico costruttiva; se ci avviciniamo a guardare ad esempio l’immagine di un dito in una sua piega articolare, la pennellata si divide in una scala inferiore in masse tonali che iniziano a descriversi come tessuti, comportando una visione di tensioni e forze interdipendenti, che formano infine una massa di carne, muscolo, luce come densità e trasparenza.

Da qui frazioniamo ancora la pennellata, tagliando anche i peli del nostro pennello n. 0, e con questo strumento di scala minore muoviamo la micromateria dell'olio o del pigmento, cercando dentro quei tessuti che sopra abbiamo descritto, delle chimiche strutturali che abbiano rapporti qualitativi simili alla pelle di ogni tessuto naturale.

Le complementarietà energetiche interne alla materia stessa della pittura che riflette il colore di determinate onde luminose, si avvicinano - in questa scala proporzionale - e vi si sovrappongono, a quelle della superficie membrana molecolare di ogni corpo o materia fisica.

Questa apparente deviazione extra-linguistica focalizza l'oggetto della creatività dal punto di vista della sua peculiarità oggettiva, quasi come se fosse un organismo concreto da intuire e costruire con l'aiuto di un microscopio da laboratorio. Si vuole quindi spostare sul fare stesso dell'artista, quell'ideale di organicità dell'opera e dell'operare.

In questo arco percettivo che percorre una linea verso l'interno, dall'icastico alla verità, piuttosto che dal virtuale al reale, si intuisce e si trova quell'equilibrio che un'apparenza letteraria del racconto nel quadro, sembra visionariamente aberrare. In questo senso o in questa dimensione fisica - vicina al concetto di scalante nella teoria dei frattali - si dipana e si fonda il valore estetico di una volontà diversa: del fare in ambito artistico, e in tutto il suo sedimentato storico-culturale, e dell'essere nell'ambiente, in cui si cerca una propedeutica dell'agire proprio attraverso la Pittura.

Durante il mio percorso scolastico di studio e di confronto attraverso l'esperienza pratica, al liceo artistico e all'accademia di belle arti, i momenti di cui ricordo un relativo dissenso con i professori sono pochi, chiari, significativi. A ben pensarli tutti, in un modo o nell'altro rappresentano il procedere, nell'esperienza della ricerca personale con gli strumenti del fare, verso uno spostamento dell'asse di percezione che dall'assoluto della pittura come aulica ed aristocratica idea astratta della forma culturale, verteva percettivamente all'oggetto della forma stessa attraverso una estetica del disprezzo che evidenziasse una volgarizzazione concreta o una estetica dell'amore, che ne fondasse l'ideale antiutilitaristico.

Questo apparente deragliamento nella produzione di uno studente così educato, compositivamente e scolasticamente talentato, andava corretto convergendolo all'asse dei binari paralleli. Nel frattempo, però, ho ricordato e oggi so che stavo lavorando alle traverse.

(10 Luglio 2005)

Nuove microdipinte.

Perché questo titolo fa riferimento al nuovo? Perché il concetto di avanguardia è meta-motore interno, secondo una concettualità dell'opera figurata a scalante.

Come nei "Manifesti" in cui la figura o soggetto avanguardista è vivo nel quadro, secondo una posizione a scalante dove la realtà dell'artista è il grado/livello maggiore di quella figura. Troveremo il suo grado minore procedendo verso l'interno della materia, in senso oggettuale - ma anche figurato - verso la sua essenza visiva.

(26 luglio 2005)

NOTE

1 In occasione della pubblicazione del “Manifesto di Basmina/Minimal Divide Manifesto” nel 2003.

2 Mostra collettiva e dibattito pubblico, "Match 2004, Critici a confronto", Galleria Russo, Roma, Dicembre 2004.

3 Opera pubblicata nel catalogo della personale "As straight as" (Galleria Maniero, Roma, 2004), nel libro di Gabriele Perretta, "Media.comm(unity)/Comm.medium", ed.Mimesis, Milano, 2004, p.99., e infine anche nel catalogo della stessa collettiva “Match”.

4 Per un piacevolissimo approfondimento di questo termine: Benoit B. Mandelbrot, "La geometria della natura", ed. Theoria, 1989.

5 Il colore puro riflettente, che nel testo della mostra “Olio su tela” ho definito come "tecnologico... che tende allo staccato, al purificato" è presente, in questi nuovi quadri, nelle parti dell'espressione del viso, nel corpo sezionato dalla linea che cerca il proprio senso e la propria bellezza significante. Questo colore è quello che ho cercato di definire partendo dall'analisi dell'RGB (red, green, blue), la sintesi del colore adottata negli schermi televisivi. Questa sintesi catodica è chiamata ‘additiva’ o ‘della luce’, a differenza della sintesi quadricromatica della stampa che conosciamo come BMCY (black, magenta, cyan, yellow) che è definita come ‘sottrattiva’ o ‘dei pigmenti’. Il colore di un corpo (come lo vediamo) è l'insieme della lunghezza d'onda che esso non assorbe e quindi riflette alla nostra retina: nel pigmento a corpo bianco infatti nessuna lunghezza d'onda viene assorbita, mentre nel pigmento a corpo nero non vi è riflessione perché l'assorbenza è totale, o quasi. E' d'obbligo a questo punto ricordare il primato scientifico newtoniano, secondo cui la natura della luce bianca è scomponibile in colori, secondo il principio della rifrazione. Dato questo principio di base il colore è nella luce e non nelle cose. Specularmente possiamo dire che il bianco non è acromatico (diz: privo di aberrazione cromatica; enc: dicesi di sistema ottico che non rivela i colori dell'iride; vedi per esempio l’uso del termine "achrome" in Piero Manzoni) bensì pancromatico. Che lo stesso non sottindende un principio di sottrazione ma di addizione, appunto. Adottando nella pittura ad olio la sintesi RGB, stemperando i colori del corpo, degli incarnati - con il bianco - ho promosso il princio di addizione di luce...

6 Nel testo pubblicato nel pieghevole della mostra personale “As straight as”, alla base del concetto di scala dimensionale della materia nell’ambiente si delinea anche un punto di vista spirituale. Nel testo della mostra “Olio su tela” lo stesso concetto - assimilato a un'idea sociologica dell'ambiente - è stato rievocato infine nella ritualità - appunto rito ambientale - del culto matriarcale della "Potnia", antica sovranità mediterranea. Il colore è stato qui inteso anche come "staccato, tecnologico", secondo una lettura appunto idealizzata o idealizzante. Lo stiamo ora invece analizzando sotto l'aspetto oggettivo, di materia riflettente.

7 Per macchinico intendo la strutturale complessità diversificante che un medium materico non cromatico come ad esempio l'olio, può creare internamente alla stessa riflessione cromatica pura, ampliando la gamma di riflessione dei colori. Bisogna però capire questo fenomeno al livello molecolare in quanto nella meccanica in scala superiore, nella pratica pittorica, lo possiamo solo intuire o cercarne visivamente la resa mentre lavoriamo la materia. Alla riflessione di un'onda luminosa - che non è stata cioè assorbita dalla struttura molecolare del pigmento - si aggiungono quindi strutture macchiniche che rendono più complessa, per non dire complicata - e l'idea di colore puro riflettente è qui ora intricata ad una idea che parrebbe avvicinarsi ad esempio a quella del colore come “essenza sostanziale” o “materia originaria” nell’opera di Beuys - la dinamica riflettente dello stesso colore alla nostra sensazione ottica variabile. I giochi dei piani intricati della rifrazione, diversificano la qualità della riflessione cromatica di una stessa molecola di pigmento, aumentandone la qualità di mimesi al livello micro. La sensazione visiva si avvicina così alla complessa naturalità della biochimica.

8 Si può vedere la documentazione fotografica nel catalogo: “Adriano Nardi”, edizione del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, con testo di Stefano Colonna “Antipop, comunicazione individuale nella società di massa”. La personale si è tenuta dal 12 Novembre 1998 al 3 Dicembre 1998, durante la direzione di Maurizio Calvesi.

9 Ho ideato e inserito questa locuzione nel “Manifesto di Basmina”.

10 La personale dal titolo "Microdipinta" è del 2002, “I Microdipinta, Butterfly” del 2001, è la prima opera del ciclo così denominato. Sono stampe fotografiche al laser in cui l’azione pittorica, avviene solo nella fase precedente alla stampa. Nel comunicato della mostra ritroviamo: “E’ ancora la Pittura ad affermare la propria visione. Abita quel più piccolo ambiente, microdipinta tra la pelle retinata dal rotocalco, la porosità della carta e la densità del segno. Un’immagine costituita a livelli, vettoriale, oppure organica? Ancora, quel fiducioso sguardo ecologico sul mondo.”

11 L'idea che l’io della pittura possa essere staccato dalle intenzioni dell’artefice, potrebbe anche essere sviluppata a partire dalla teoria della “non-non-forma” nella pittura informale.

Opere pubblicate: Pittura nuda (5 opere, 2006), Pittura nuda nel paesaggio (4 opere, 2006), Paesaggio nudo (2006).

 


LORENZO CANOVA, "Ieri oggi domani", catalogo della collettiva che inaugura la nuova sede della Galleria Giulia a Roma, dicembre 2005-gennaio 2006

" … appare un titolo quasi simbolico per la mostra con cui la Galleria Giulia inaugura la sua nuova sede, tre parole che rappresentano emblematicamente l'atteggiamento che ha sempre segnato la sua lunga attività e la molteplicità dei suoi interessi, diretti a coniugare il rigore delle proposte "storiche" alla freschezza delle esperienze più innovative …

…le indagini ottiche di Lyonel Feininger, con le sue velature di matematica sottigliezza, con la sua poetica geometria della natura che trova in qualche modo una prosecuzione nelle scomposizioni sospese tra pittura e digitale di Adriano Nardi…"

Opera pubblicata: II Microdipinta (2001).



A.A.V.V., "Blog on Rimbaud", catalogo pubblicato in occasione della mostra-evento (19-20-21-22 Maggio 2005) dedicata al poeta francese, e dell' Asta per beneficenza "SCUOLA IN AFRICA".

In collaborazione con: ACCADEMIA DI BRERA, FONDAZIONE CECCHINI PACE, FONDAZIONE BUTTERFLY ONLUS - ECOLES SANS FRONTIERES.

Ideazione e progetto di Zazà Associazione Culturale, a cura di Carlo Fatigoni e Matteo Licitra. Villa Ogliani, Serre, Teatro, Castello di Rivara, Centro d'Arte Contemporanea, tutti nel Comune di Rivara, con il patrocinio della Federazione Italiana dei Club e Centri Unesco.

"L'obiettivo finale di questo nostro progetto di promozione culturale prevede un'iniziativa umanitaria: quella cioè di fondare una scuola d'arte nel Corno d'Africa, luogo dove Arthur Rimbaud visse una stagione cruciale della sua tormentata esistenza. Per questo motivo tutti gli artisti partecipanti all'evento contribuiranno all'esposizione-azione donando almeno un lavoro d'arte, che sarà messo all'asta: il ricavato sarà utilizzato per la realizzazione della scuola in Africa. Questa mostra evento è prodotto dall'Associazione Culturale Zazà tramite contributi volontari degli associati e con l'apporto determinante degli artisti partecipanti.

I membri della Commissione Tecnico - Scientifica sono i seguenti:
Prof Arch Manolo de Giorgi, Docente di Architettura d'Interni al Politecnico di Milano

Prof Gabriele Perretta, Docente di Storia e Teoria della Critica ed Estetica Tecnologica, Paris IV e Brera 2 Milano
Prof. Daniele Goldoni, Docente di Estetica Università Cà Foscari, Venezia

Dott. Ing. Paolo Romano, Docente di Economia e Organizzazione Aziendale, Dipartimento di Ingegneria Gestiona e del Politecnico di Milano

Prof. Paolo Inghilleri di Villadauro, Ordinario di Psicologia Sociale,dipartimento di Psicologia e Antropologia Culturale dell'Università di Verona

Dott. Arch. Matteo Licitra, Presidente Associazione Culturale Zazà

Prof. Rolando Bellini, Direttore Museo Arte Plastica, Castiglione Olona e Vice Preside della Fondazione Università Internazionale del Arte, U.I A Firenze
Prof. Antonio Marazzi, Docente di Antropologia Visuale, Facoltà di Psicologia dell'Università di Padova
Dott Arch Claudio Maneri, Presidente Fondazione Butterfly Onius - Ecoles Sans Frontieres

Dionisio Capuano, Critico Musicale

Roberto Mutti, Critico della Fotografia

Prof. Rosalba Terranova Cecchini, Presidentessa della Fondazione Cecchini Pace di Milano.

Si ringrazia per le donazioni la Sig.ra Lucrezia De Domizio Baronessa Durini e il Sig. Gianfranco Pampaloni.


" ...sia quando fanno ricorso al simbolismo (i volti proposti da Adriano Nardi e da …" (dal testo di Roberto Mutti)

Opere pubblicate: Seattle (2000), Voyager (frame dal video del 2001), III Microdipinta (2002): quest'ultima opera è stata donata per l'asta.



ADRIANO NARDI, ”Olio su tela”, catalogo della personale "Olio su tela", Ciclo espositivo Ex Chiesetta di S.Anna, Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea della Repubblica di San Marino, maggio 2005

" Vogliamo chiamare una mostra di pittura "olio su tela"? Siamo davanti a un quadro: questa non è un'immagine — è tela, è materia, è colore.
Ho definito con il termine "micropittura" il lavoro - non letterario - attento al tessuto della figurazione da una posizione percettiva ravvicinata. Da questo punto di vista, il ritmo compositivo costruisce ed esprime la propria forma come prodotto plastico fenomenologico che contiene la propria immagine. Nella Pittura non descrittiva il colore esprime sé stesso e la seduzione della mimesi, in questi corre la linea.
Ho definito il grado oggettuale della Pittura sperimentando la stampa digitale. Si è resa evidente — la concreta realtà — innestando la micropittura dei corpi in immagini prelevate dal contemporaneo, ispirate a drammi sociali legati alle istanze ambientali, come in questa grande opera "Mapping Dora" del 2002 (realizzata dopo l'H settembre 2001) che mi pare necessario, ancora oggi, inserire nel fondo di questa chiesa. Nel ready-made sostanziale della Pittura la materia permane nella sua immanenza.
Così - in queste tele - come la colla organica, l'olio e il gesso usati per lo shaping permettono alla luce di descriversi nelle trame del lino - contando sulla riflessione - il dato tecnologico è assimilato alla luce che non è della materia ma tende al purificato, allo staccato.
Così - corpo nel mondo - sono queste figure "...celebrate all'aperto, in seno a quella varia natura, che era l'immenso corpo della Potnia sovrana e 'agite' da tutto il popolo1."

A.N.

1) Uberto Pestalozza, Eterno femminino mediterraneo, 1954.

Opera pubblicata: Zelotalove (2003), + una fotografia d'insieme della mostra.


GABRIELE PERRETTA, ' I mestieri di Ergon', libro-raccolta di saggi critici tra cui il testo dal titolo “Il tipo ibrido” (già pubblicato nel 2004 nel catalogo della personale di Adriano Nardi alla Galleria La Giarina di Verona), Mimesis editore, collana Dogville, Milano 2005

Dal comunicato stampa: " I Mestieri di Érgon è una mostra che raccoglie diciotto esperienze artistiche internazionali, riunite in un’unica istallazione. Gli artisti presenti sono: Tullio Brunone, Carlo Caloro, Cast/G.P.Mutoid, Ezio Cuoghi, Santolo De Luca, Dormice, Fathi Hassan, Enzo Lisi, Antonello Matarazzo, Luca Matti, Antonella Mazzoni, Renato Meneghetti, Adriano Nardi, Andrea Neri, Rossella Petronelli, Silvano Tessarollo e Francesco Totaro. Nel Palazzo M di Latina, tutta la mostra, seguendo una particolare istallazione, appare come un’unica grande rappresentazione in cui convivono due anime: una propriamente multimediale, direttamente collegata con l’ambiente razionalista della struttura architettonica, e l’altra ipermediale, legata ad immagini che come fondali da palcoscenico inondano lo spazio in maniera dirompente, sfruttando le grandi misure e le iconografie più aggressive. Questo lavoro, che Fabric’art di Latina ha voluto inserire nella programmazione curata per il sessantesimo anniversario dell’Associazione degli Industriali di Latina, tenta di snodare una piccola frazione, un frammento dell’etimologia delle parole d’uso critico che hanno costellato, da quindici anni a questa parte, l’area più ampia del Medialismo. La formulazione del percorso della mostra è segnata sin dal titolo, esplicitamente mutuato da un celebre passo di Aristotele; la messa in opera è ciò che scavalca il concetto stesso del lavoro artistico specialistico, riportandolo all’atto della necessità umana più in generale. Nell’opera multimediale totale non è l’artista ad essere in azione, ma è l’uomo come essere sociale a costituirsi “all’opera”: con l’esasperazione ipermediale, l’uomo perde la specificità artistica e il fare creativo dilaga. Paradossalmente l’allestimento della mostra diviene un medium ad uso collettivo, che si fa avanti come la spiegazione dell’ampio concetto di Érgon, perché in sé ricongiunge le tecniche più sofisticate di multimedialità e la spinta più dettagliata della cura e dell’attenzione artigianale alla produzione degli arte-factum. In corrispondenza a questo spirito collettivo dell’esposizione, questa edizione di Fabric’art offre un volume di Gabriele Perretta, edito da Mimesis di Milano: I Mestieri di Érgon: visioni, oggetti, storie della medialità. Esso raccoglie diciotto testi monografici sugli artisti e le opere in mostra e due saggi introduttivi a carattere generale, legati alla metamorfosi dei mestieri nell’arte e nella società contemporanea e una premessa di Vincenzo Parnolfi Presidente Assindustria e Sergio Viceconte Direttore Assindustria."

Opere pubblicate: Ducotone Valley (2001*), Searching Wanted (2001), Mouse&Lisa (2001).

*N.d.r: si consideri questa data come errata corrige della data più recente pubblicata sul libro, come pure la tecnica relativa a questa opera: olio e plotting (o plotter print) su tela.



LORENZO CANOVA, “Le strade della pittura”, catalogo della collettiva Il fascino indiscreto della pittura II, presso la Galleria Maniero dal 10 Marzo al 9 Aprile 2005, Roma

“Il fascino indiscreto della pittura II”, comunicato stampa della collettiva Il fascino indiscreto della pittura II, presso la Galleria Maniero dal 10 Marzo al 9 Aprile 2005, Roma
"La galleria Maniero presenta il secondo appuntamento del doppio evento espositivo: “Il fascino indiscreto della pittura” dove sono raccolti pittori appartenenti alle generazioni successive a quella presentata nella mostra precedente. Come scrive Lorenzo Canova in catalogo “artisti come Ennio Alfani, Alessandra Di Francesco, Stefania Fabrizi, Tommaso Lisanti, Adriano Nardi, Francesca Tulli, Marco Verrelli, fondono fotografia, digitale, video e disegno nella loro pittura, riflettendo sui problemi del presente e delle sue grandi dialettiche, in lavori dove la pittura indaga dimensioni intime della memoria o problemi politici, le grandi questioni sociali, urbanistiche ed ecologiche, mostrando nelle loro opere un cuore “antico” rielaborato in forme del tutto attuali, in una visione incentrata su una concezione dell’immagine che, in forme nuove e del tutto contemporanee, si ricollega alla storia millenaria dell’arte su tutto il nostro territorio. Questi artisti considerano la pittura e la scultura come linguaggi dinamici in stretta relazione con le nuove espressioni più tecnologiche e non come tecniche ‘antiche’ e arroccate su uno sterile isolamento di nostalgico tradizionalismo: il nuovo dialogo tra le diverse forme espressive ha del resto arricchito anche la fotografia, le tecnologie digitali e il video, in un clima dove incontriamo quadri progettati attraverso supporti informatici o mediati da immagini fotografiche e video, o dove possiamo vedere stampe lambda, scatti e filmati che cercano di avere una dimensione “pittorica” o “scultorea”, che denuncia non di rado un preciso e dichiarato rapporto con il grande tesoro di spunti derivati dalla storia dell’arte. È stato, del resto, da tempo e da più parti notato come la pittura e la scultura abbiano certamente dovuto (e saputo) cambiare moltissimo anche per adeguarsi alla concorrenza dei potenti mezzi tecnologici legati all’immagine, quei nuovi media che fino a poco tempo fa erano visti non solo come dei nemici ma come dei veri e propri killers destinati a distruggere le tecniche più tradizionali. E si può certamente osservare anche come, per superare questo momento di fortissima crisi, la pittura e la scultura abbiano saputo trasformare le loro millenarie forme espressive in veri e propri ‘vampiri’ e ‘organismi mutanti’, in grado di appropriarsi dei vocaboli e dei fonemi del cinema, della storia dell’arte, della fotografia, della pubblicità, del fumetto, o di internet, trasformandoli e metabolizzandoli in un linguaggio i cui codici appaiono sottoposti ad una continua metamorfosi creativa” "




LORENZO CANOVA, ”Immagini del male”, catalogo della collettiva "Il senso del male" alla Galleria delle Arti Contemporanee a Caserta, a cura dell'Assessorato alla Cultura, 25 Febbraio- 30 Marzo 2005

“ L'arte ha sempre avuto il compito di accogliere l'orrore nel suo recinto, di essere il medium in grado di mostrare la crudeltà, la brutalità e il "peccato" grazie alla sua funzione di tramite "sacrale" tra microcosmo e macrocosmo, tra l'uomo e il trascendente. Così, con la tragedia greca e con il teatro di Shakespeare, nella pittura di Caravaggio e di Goya, ma anche attraverso le Sacre Rappresentazioni pasquali o i cicli di affreschi dedicati al martirio dei santi, era possibile assistere all'assassinio, al tradimento, all'incesto e a tutte le più cupe pulsioni e perversioni umane. L'arte aveva il potere di presentare le immagini e le situazioni più tragiche senza distruggere i complicati meccanismi dell'ordine civile, sociale e religioso, salvando in qualche modo un'anima collettiva accerchiata dagli orrori della storia e dalla brutalità della natura: all'arte era dunque riservata la possibilità di esibire quel volto del male, che ha costituito un enigma e un problema centrale per tutte le religioni dellastoria umana. A questo punto ci si dovrebbe chiedere quale potrebbe essere la funzione dell'arte in un mondo, non solo occidentale, ormai laicizzato e tecnologico, oggi che la situazione è radicalmente cambiata e che i mezzi di comunicazione di massa possono diffondere, senza risparmio ne pietà, scene e immagini di ferocia sempre crescente, selezionate tuttavia con una logica che sembra finalizzata ad una sorta di controllo dove ci viene raccontato soltanto quello che è ritenuto politicamente più opportuno. In questo contesto molti artisti hanno intuito comunque quale potrebbe essere ancora il loro ruolo, forse l'unico ancora possibile in un momento storico dove tutto sembra convergere verso un'unica dimensione "estetica" ma dove si avverte fortemente la necessità di una nuova consapevolezza di fronte al "diluvio" di immagini provenienti dai canali dell'informazione e dai mezzi di comunicazione di massa. Questa mostra cerca allora di dare una "forma" contemporanea a quello che, anche provocatoriamente, è stato chiamato il "male", termine ambiguo ed enigmatico che pone problemi enormi e antichissimi, che vanno dalla sua possibile realtà "ontologica", alla sua diversa interpretazione nelle varie religioni monistiche e dualistiche, nel cristianesimo e, particolarmente, in Sant'Agostino, fino al problema del male presente nelle riflessioni teologiche e nel pensiero di autori che vanno da Plafone a Piotino, fino a Leibniz, Max Scheler, Luigi Pareyson e moltissimi altri.
L'intento, owiamente, non è quello di disquisire su tutti i problemi e sulla grande e assoluta questione del male, ma di registrare come alcuni artisti dialoghino con un tema così scottante, in una riflessione che prevede certamente già una scelta di campo provocatoriamente lontana da certe visioni più "materialiste" o "meccanicistiche" che non prevedono la presenza del male nel mondo, ma che spesso tolgono legittimità alla stessa funzione dell'arte, se non nel ristretto contesto degli scambi commerciali. Questo progetto, va sottolineato, non è basato però su un'idea "dualistica" del mondo oggi pericolosamente "di moda", in una concezione dove si scontrano due grandicon un'analisi attenta, si può scoprire che gli strumenti e gli stessi motivi della lotta difficilmente possono essere ascritti ad una (comunque generica) categoria del "bene".
Questo progetto cerca invece di registrare l'interpretazione del male di alcuni artisti, di comprendere, sostanzialmente, che cosa intendono per "male" autori che lavorano con linguaggi differenti, che vanno dalla fotografia alla performance, dalla scultura alla videoarte, fino alla pittura e all'installazione. Scopriamo in questo modo "letture" che chiamano in causa la guerra, la crudeltà, più o meno esplicita, la tortura, ma anche la criminalità organizzata, i disastri ambientali, il riscaldamento globale del pianeta, le alterazioni artificiali, chimiche e ormonali del corpo umano, per arrivare fino ad una visione più "metafisica" e simbolica che può chiamare in causa il peccato e l'espiazione. Da questo mosaico composito potrebbe scaturire allora una possibile esegesi per immagini de! particolare e cruciale momento storico che stiamo vivendo, un'interpretazione basata su una riflessione sul senso di un male che appare comunque dominante negli eventi e nei drammi dove i conflitti si incrociano agli scontri economici, alle grandi questioni poste dallo sfruttamento della natura, dalle mutazioni genetiche e climatiche, dalla delinquenza troppo spesso
dominante, dai cambiamenti sociali, dall'awenire delle metropoli nel Ventunesimo secolo.
Marshall McLuhan ci ha ricordato opportunamente che «soltanto l'artista (quello vero) può essere in grado di fronteggiare impunemente ia tecnologia, e questo perché la sua esperienza lo rende in qualche modo consapevole dei mutamenti che intervengono nella percezione sensoriale»; Giulio Carlo Argan, peraltro, in una conferenza del 1980 profeticamente dichiarava: «il bombardamento d'immagini a cui è esposta la gente, soprattutto nelle città, ha come conseguenza la paralisi dell'immaginazione come facoltà produttiva d'immagini. Questa mancata emissione d'immagini ha come conseguenza la passiva acccttazione delle immagini che formano l'ambiente effimero, ma reale,comunicazione di massa non siano a senso unico e, soprattutto, non impediscano la comunicazione degli individui tra loro e con l'ambiente».
L'intento di questo progetto non è dunque quello di mostrare una violenza "nuda" ed esplicita come, ad esempio, ci appare nei video delle esecuzioni degli ostaggi in Iraq, o dalle immagini satellitari di guerra, ma quello di comprendere se l'arte sia ancora capace di interpretare e di travalicare le apparenze imposte dai mass media, riaprendo la comunicazione tra individui e ambiente, testimoniando il disagio e il dolore con la forza dei suoi molti linguaggi: se può insomma ancora scoprire un'ipotetica salvezza utilizzando la sua capacità unica di leggere il presente e di guardare al futuro scavando alla ricerca della "verità" degli avvenimenti e di una loro possibile ricostruzione simbolica senza lasciarsi abbagliare dalla loro sovrapposizione all'interno dei canali dell'informazione.
Il percorso espositivo inizia...


...Con la capacità intuitiva che spesso segna le opere d'arte, Adriano Nardi ha dedicato un'opera (realizzata nell'estate del 2004, poi esposta e pubblicata nell'ottobre dello stesso anno) al tema dell'inondazione, un quadro in cui il disastro ambientale è annunciato attraverso la fluidità metamorfica e drammaticamente allusiva delle immagini simboliche dotate di un'inquietante bellezza...”

Opere pubblicate: Il manifesto di Rachel Corey, 2004 (riprodotto nella immagine); Il manifesto di Mahjabina, 2004 (solo nominato nella didascalia) .



LORENZO CANOVA, ”A viso aperto”, catalogo edito dalla Galleria Russo in occasione della collettiva Match 2004, tenutasi dal 4 al 18 dicembre 2004, a Roma

" Non facciamo pretattica: siamo venuti per vincere. La squadra è compatta e motivata, un organico che unisce classe e forza atletica, quattro artisti (Di Silvestre, Cervelli, Nardi, Bellobono) che fanno una pittura attuale, forte e dinamica, senza pentimenti o nostalgie, in un lavoro che si confronta attivamente con la fotografia, il digitale o il video, rielaborando le sollecitazioni dell'universo comunicativo in una sintesi innovativa e ambiziosa di gioco coraggioso e offensivo. Questo team punta con decisione e senza timori alle tematiche della vita di oggi, lavorando sul corpo e sul volto umano, sfidando l'occhio elettronico dei media, rubandone strategie e soluzioni per creare la qualità inedita di un progetto icastico ed efficace che affonda nel nucleo pulsante del mondo, nel centro del presente e del futuro, grazie ad una visione diretta al cuore della vita contemporanea...

...La trequarti del campo è guidata da Adriano Nardi, che punta la porta avversaria con la sua costruzione metamorfica e fluttuante del quadro, un lavoro dove digitale e pittura si fondono in una sintesi densissima in cui la bellezza del volto femminile, attraversato da campi cromatici e da scansioni geometriche, sembra rivelare le coordinate di una nuova, possibile, percezione..."

Opera pubblicata: Sine direction (Il seno selvaggio) (2003).



ENZO SANTESE, ”Natural Mente”, catalogo della collettiva presso l'istituto Europeo Promozione Arte Contemporanea a Catania dal 21 ottobre al 21 novembre e presso l'associazione culturale Antonio Cannì a Ragusa dal 23 ottobre al 23 novembre 2004

“ L'orizzonte visivo di oggi fa apparire "naturale" qualsiasi assemblaggio improbabile, o abbinamento improprio, oppure collocazione irreale. Il virtuale si sostituisce ai tratti di una fisicità riconoscibile e destruttura fa/ora l'esistente per ricomporre sui moduli della fantasia scenari che paiono familiari, anche quando appartengono alla galassia dell'immaginazione. In tale linea composizioni spiazzanti esprimono "la naturalezza" che le fa acquisire come consuete. Ritratto e paesaggio dominano il carattere della rassegna, dove la figurazione illumina modi molto differenti degli artisti nell'attivazione di uno sguardo interno, rivolto a se stessi, e uno esterno, teso all'ambiente, in cui si ripercorrono a volte le tracce di una storia, scritta in quanto sopravvive di attività e rilievi passati; per questo fabbriche dismesse, edifici abbandonati, vecchie ciminiere, oppure arditi azzardi paesaggistici con innesti impropri, scardinano la logica dell'acquisito e lo mettono in discussione.
E' diffusa inoltre la tendenza a mitizzare il proprio tempo attraverso la sottolineatura di reperti memoriali, collocati in un segmento preciso del vissuto, facendolo diventare icona vera di un sentire la realtà, filtrata dallo sguardo retrospettivo. Il ritratto, ma non solo quello, diventa simbolo di una volontà di scandaglio psicologico, ma anche d'analisi impietosa e ironica dei flussi inarrestabili del contemporaneo, legati alla dinamica mediale oppure alle consuetudini consolidate, alle mode che si legano a feticci del momento quali scarpe, oggetti d'abbigliamento, oppure addirittura modi gergali, così come avviene sistematicamente nel mondo giovanile. Vari autori presenti nella mostra sono portati a mescolare consapevolmente soggetti, linguaggi e stili diversi in una contaminazione che è sostanziale sul piano dei contenuti e "poetica" sul livello creativo. E così la pittura, ancora praticata da molti come territorio privilegiato di indagine, si coniuga fa/ora con procedimenti del tutto nuovi, in sintonia con la tecnica più aggiornata; in tal modo l'immagine digitale, il taglio cinematografico, la tecnica del montaggio cinetelevisivo entrano di peso nella produzione di diverse personalità. Anche chi declina verso l'astrazione o si affida alla realizzazione tridimensionale contribuisce con la propria proposta a dare peso e vitalità al mosaico composito di "Natural Mente". A questa gamma di opzioni, così sommossa nei contenuti e nei procedimenti operativi, da vita una compagine di artisti sicuramente eterogenea - Valerio Berruti, Fabrizio Campanella, Sarà Conti, Dino Cunsolo, Angelo Davoli, Alessandro Di Francesco, Andrea Di Marco, Fulvio Di Piazza, Carmelo Drago, Stefania Fabrizi, Philip Hipwell, Klaus Karl Mehrkens, Adriano Nardi, Adriano Ribeiro, Enrico Salemi, Marco Tamburro, Francesco Tulli, Mario Vespasiani, Luca Zampetti - che fa della figura il fulcro di una riflessione ampia e profonda, oppure, per contrasto, nella sua scomposizione trova il nesso di congiunzione con l'essenza del reale. Lo dimostra la sequenza di opere pittoriche e scultoree allineate nella rassegna...

... Adriano Nardi ricorre a una figurazione dove balugina il senso dei cartelloni pubblicitari: figure di donne, sospese tra la vocazione di rappresentare il modello assoluto e l'urgenza di riflettere la durezza della realtà. La tecnica mediale porta a una tessitura particolare nella composizione, realizzata con stampa laser su alluminio...”

Opere pubblicate: XXII Microdipinta (2002), XXV Microdipinta (2004).



GABRIELE PERRETTA, “Il tipo ibrido”, testo del catalogo della personale alla Galleria La Giarina di Verona dal 9 ottobre al 27 novembre 2004

“La domanda è sempre la stessa! Qual è il punto di partenza? Il punto di partenza è la realtà che ci circonda, è da essa che salpiamo per chiederci: cos’è l’immagine? Cos’è l’arte (ammesso che essa esista ancora)? E cos’è l’ambiente entro il quale l’arte, l’immagine si generano? Ci troviamo per l’ennesima volta di fronte alle immagini di Adriano Nardi e per l’ennesima volta in questi anni ci chiediamo il perché di questo lavoro, il perché di questo artigianato, il perché di questa maturazione mediale, il perché di questa sintesi ibrida di quello che lui stesso chiama, in maniera molto semplice1, micro-pittura e micro-immagine mediale. A dispetto di tanti miei colleghi, che hanno bisogno di definire solo il braccio destro del mercato e inneggiano alla stesura di testi semplici, scritti nel “diletto” e nel dialetto della sintesi epigonale del medialismo, chiediamoci perché questa pittura corre veloce, magari sul filo del meticciato, e perché questa categoria sociologica è sicuramente più ampia ed importante per l’oggi di un singolo fenomeno pittorico. Molti dei miei colleghi hanno paura di riconoscere che l’arte oggi dovrebbe essere solo un tavolo di discorsi e, quindi, un grande pretesto per poter discutere delle cose del mondo (e soprattutto di quelle cose che nel mondo non vanno bene…).

Più volte mi sono prodigato nel dire che l’arte, al di là dell’oggetto funzionale che serve a fare un po’ di soldi, non esiste. Nel senso che essa è assente ovvero, come dice Jean Baudrillard, il suo dasein è ormai puro design. In questa ecatombe decorata a festa (ma non troppo degna di una brillante festa barocca), la tecnologia ha assunto le funzioni dell’archeologia ed è in grado di tirar fuori ciò che la pittura di per sé ha lasciato collassare nel suo essere storico. Come si sforzava di dire Paul Veyne su Michel Foucault, la tesi più originale “è che, l’oggetto si spiega a partire da ciò che è stato il fare in un determinato momento storico”2. Dunque, per considerare l’oggetto pittura alla maniera in cui ce lo prospettava Piero da Cosimo3, la tecnologia va usata non come una prospettiva futura, ma come un periscopio per mettersi in contatto con il passato. Ma se tecnologia va dunque adoperata come archeologia, per capire effettivamente il senso dell’immagine dell’oggi, più che continuare a chiedersi in che modo la pittura vive oggi, è bene domandarsi in che modo l’immagine può resistere nell’ambiente culturale artificiale nel quale viviamo e come si innesta ad altre “piante” che producono altri ibridi. Corre voce che, artisti come Adriano Nardi a Roma, per presentare il loro lavoro dovrebbero fare i conti con l’epigonismo dei mediali, gli stessi - che furbescamente - negli ultimi anni hanno rivendicato la pittura digitale, la tecno-pittura ed altre storie simili. Ma purtroppo queste fandonie sono la caratteristica essenziale delle leggende che si costruiscono in un territorio artificiale, dove vale la legge del cowboy. Qui, come nella mitica “prateria dove le pistole dettavano legge”, ognuno si fa lo “statuto” da solo, correndo dietro alla febbre del dollaro e cercando di dimostrare che quando il suo totalizzante Ego è venuto fuori era il primo di una tournee di cui egli stesso non conosce né il produttore né il suo segreto e sottile manager. Viviamo in un’apoteosi del sistema politico di superficie, che si presenta come il nuovo Averno[i], fatalmente consegnato al regime della sotto e della sovra-esposizione. Il mondo si è compiuto nel sistema della macchina fotografica.

In questi ultimi anni, le riviste artistiche di mercato, correndo dietro al mito della scoperta pittorica, hanno alimentato il conflitto che è in atto fra le giovani generazioni di giornalisti e di curator e l’hanno fatto solo per mirare al proprio tornaconto. Nel momento attuale, lo stato di ricerca sull’immagine, insieme al trend della curatorialità ed al mercato, sono in un conflitto totale, in uno stato di guerra esasperato che tende ad alimentarsi grazie alla sua stessa situazione agonistica. Per l’arte - come se fosse un commercio di idee - vale oggi più di ieri la famosa frase di Dumas figlio “Les affaires, c’est bien simple: c’est l’argent des autres”. Forse, nell’epoca attuale, come diceva Henry Miller nel Tropico del Cancro, la “Confusione è una parola che abbiamo inventato per un ordine che non comprendiamo”.

Dunque, ammesso che qualche pittore o artista come Nardi abbia l’obbligo di fare i conti con la tradizione “dell’immagine mediale tecno-popolare”, non ci sembra che debba riverire nessuno degli artigiani di turno che si sono affiliati alla grande cassa di risonanza dell’epigonismo mediale degli ultimi semestri, ma crediamo piuttosto che gli possa toccare di riconoscere che, mentre sin dalla seconda metà degli anni ottanta una commistione tra pittura mediale (Fabrizio Passarella e Santolo De Luca ad esempio) e medialismo analitico (Tommaso Tozzi e Nello Teodori) agiva in maniera forte verso l’ibridazione di una iconografia e iconoclastia totale, nel campo delle altre realtà artistiche popolari tale patrimonio veniva sviscerato da musicisti che sono stati gli antesignani di gruppi come i Prodigy, i Deep Deep Forest, oppure Tricky. Anche se esteticamente diffido del valore artistico della techno music, nel senso che per me si potrebbe trattare anche di semplice spazzatura dell’industria artistica tardo contemporanea (dell’industria culturale, bla, bla, bla…), devo ammettere che essa oggi ha conquistato un suo tratto simbolico.

Il techno è un genere nato a Detroit alla metà degli anni ’80. Si narra che nel 1984 tre amici di Detroit J. Atkins, D. May e Saunderson crearono col sintetizzatore una musica tesa a riflettere la decadenza post-industriale della metropoli, rievocando la crescente importanza della tecnologia informatica. Atkins, per definire i suoi esperimenti con i sintetizzatori analogici e digitali, introdusse per primo il termine “techno” e da allora la parola ha definito molti stili di musica da ballo. Questa stessa situazione di Atkins et company, usata in chiave di metafora, potremmo applicarla anche alla fusione delle ricerche mediali che in quegli stessi anni si ribellarono in Italia alla cimiteriale situazione gestita nel nostro mercato dalla politica dell’arte povera e della trans-avanguardia. In sostanza, per dirla tutta, ciò che in quegli anni nasce e sino ad ora resiste, e che anzi nelle ore odierne sembra si giustifichi sempre di più, è quell’esigenza radicale di scavalcare il diritto di precedenza che dagli anni 70’ in poi si è arbitrariamente sedimentato nella nostra cultura artistica, mirando verso la priorità del citazionismo e del virtuosismo manieristico, nonché verso la rivendicazione di un minimalismo italiano, fatto di materiali e di piccole iconoclastie, per prendere di petto la realtà che sempre di più ci minaccia e fare i conti con la scienza, con l’universo scientifico e tecnologico che di lì a poco si fa avanti in modo impetuoso. Di conseguenza, diciamo pure che, tutta la riflessione mediale, tutta l’indagine del medianismo, nasce da un confronto diretto o indiretto con l’ambiente della tecnica ed è sulla stessa tecnica che questo nuovo materialismo, in maniera sempre rinnovata, ha modo di riflettere anche attraverso la pittura (qui diciamo pittura per dire più genericamente immagine). La pittura di cui parliamo, ancor prima che affiorassero gli equivoci del digitalismo fine a se stesso o del didascalismo mediologico, resiste solo se viene confrontata con l’universo artificiale, perché è su questo stesso cosmo che nasce e si innesta la ricerca del nostro Adriano Nardi.

Qualche volta, per seguire come la storia usa trasformarsi, bisogna impiegare un po’ di umorismo alla UBU Roy (all’Alfred Jarry). Cambiando il tema delle frasi storiche, ribadiamo che Svetonio, nella Vita di quel pazzo e scellerato Nerone, ci riferisce che un giorno pare egli abbia esclamato Qualis artifex pereo, a tal stato d’animo bisognerebbe aggiungere la seguente glossolalia: qualis artificio pereo, nel senso di quale artificio muore e si compie in me? Diciamo tutti gli artifici possibili, perché noi nel nostro mondo, siamo condannati alla forma dell’artificio totale! Il motivo per cui l’arte non esiste, e non esiste neanche la natura storica che la pittura in quanto pittura aveva conquistato, è che noi abbiamo scelto storicamente, grazie alla tecnica, la strada dell’artificio e quindi sarebbe più semplice, quando ci troviamo di fronte ad una qualsiasi immagine, pittorica o fotografica che sia, parlare di medialità e di comunicazione. Ma cos’è l’artificio o meglio l’artificialità dell’ambiente costruito in cui cresce e si alleva una con-formazione, come la pittura di Basmina di Adriano Nardi? La pittura dell’òntos mikròs, come egli stesso la definisce, la pittura che insidia “il minimo divario linguistico”, la pittura che avrebbe la pretesa di “scardinare la sensibilità alle differenze stilistiche e contenutistiche della forma artistica, data come assoluto personale: verso una visione delle differenze”[1].

Nella vita e nell’esistente noi abbiamo perso il tratto dell’incalcolabilità. Grazie alla scienza, tutto è sottoposto al vaglio della tecnica e quindi l’unicità e la spensieratezza che era conservata nella pittura si è rivoltata nella malinconia dell’indistinto. L’oscurità dentro la quale siamo condannati dal sistema ci viene descritta da una vecchia frase dalla Storia noiosa di A. Cecov: “L’indifferenza è la paralisi dell’anima, è una morte prematura”. G. B. Shaw dice che, lo stato “indifferenziato è l’essenza dell’inumanità” (Il discepolo del diavolo). Ma se questi mandati di comparizione di Cecov o di Shaw ci risultano oscuri, proviamo a descrivere una situazione generale in cui si delinea la sociologia dell’artificiale perenne. Ogni realtà oggettiva è all’interno di un precetto, tutte le nozioni si dislocano nello spazio del metodo tecnico e il passatempo delle difformità è compreso dall’omogeneità e dall’avvicendamento dei percorsi doppi, duplici, gemelli che spesso si scambiano tra loro. All’interesse ed all’indiscrezione spesso si reiterano responsi preparati e predisposti dal programmatore. E quindi chi è il vero ideatore? Il vero artefice è chi conserva e conquista la possibilità di replicare. Qual è la sentenza o la smentita possibile? Qual è il limite che ci viene concesso per rispondere? Forse è l’uso stesso della risposta! Tra scienze esatte e scienze umane siamo circondati da test, campionature statistiche, indagini di mercato, elezioni, referendum e quant’altro ci fa credere che come destino esiste un sì o un no a quella domanda che fu! L’abbondanza delle notizie, l’assortimento delle merci sui mercati non sono un omaggio alla libertà, ma la possibilità di verificare se si è veramente utenti o non utenti del sistema e quindi se siamo veramente inseriti nella catena di montaggio dello schermo che l’industria costruirà domani. In questa stessa maniera si presenta la domanda storica sulla contemporaneità della pittura. Cos’è la pittura, come possiamo praticarla, quale strategia si può usare per affermarla? Pare che sia di moda il pensiero di quel criminale del feldmaresciallo Helmuth von Moltke “Marciare divisi, colpire uniti”, oppure “la strategia è un sistema di ripiegamenti”. Pare che non sia più possibile ciò che Picasso diceva della pittura, ovvero che doveva essere un’opera di mediazione tra il mondo estraneo ed ostile e noi.

Oggi la pittura non è media-zione, è media e basta, ma non con la sensazione che si tratti di un media (non avrebbe la forza di esserlo), piuttosto nel senso che è lo specchio della mimesi di un media. Ebbene, nella simulazione totale che tassativamente imperversa, se la pittura vuole “salvare la ghirba”, ha bisogno di recitare la parte di uno schermo tra gli schermi, l’unica diga, barriera, scudo o specchio, ove la gente ormai in maniera trasparente si riconosce. A tal punto tutte le cose che transitano nell’universo mediale prestano servizio alla finzione del senso! Un imbroglio in forma di reality show, un semi-valore che non si scambia fra gli uomini, ma su di loro si ripropone alla maniera di un contrassegno, proveniente da un grande esemplare che fu emesso come una moneta e registrato altrove. In altri termini, siamo di fronte ad una realtà artificiale che è in grado di riprodurre se stessa e di cui oggi, nella ricerca affannosa di qualcosa di naturale, si comincia a sospettare l’artificiosità. Una ricerca assai vana, falsa e ingannevole, perché l’artificialismo prodotto dalla tecnica si pone come un effetto della legislazione che fa passare per realtà le sue forme irrelate di opposizione binaria e di finta alternativa. L’artificio è un accorgimento sottile, è un trucco, è una maschera che si aggira come uno spettro tra i travestimenti e che velleitariamente tende a camuffare, a produrre delle apparenze, a dare degli input estetici per creare ed allevare altri patrimoni e laboratori artificiali alla seconda.

L’artificializzazione è spesso sinonimo di reificazione, che nel significato di Karl Marx è fermo a voler dire che, quella successione attraverso cui gli esseri umani e le relazioni sociali a cui essi danno vita, diventano res = cosa sono i requisiti dello stato generale della collettività. In questa communio, l’arte non ha più ragione d’essere perché essa si permuta tra le cose, diviene oggetto tra gli oggetti, uno scambio tra gli scambi. Marx, dunque, dice che le persone sono legate da una stretta dipendenza in cui le cose decidono sugli uomini. La religione del valore di scambio, sacralizzando la sua essenza, razionalizza la perdita del valore e fa passare tutto l’orizzonte totale sotto il principio del facticius = feticismo. Il sistema e la forma di vita in cui viviamo è diventato nel frattempo “l’artificialità totale del segno”[2], in cui il capitale non si esprime per avarizia ma per bisogno di procreare e far procreare artificialità. In questo orizzonte di omologazione totale del senso, delle immagini, dei materiali, dell’ombra, delle persone, le uniche cose che contano sono le contraddizioni, solo ciò che riesce ad emergere come un’antinomia, un contrasto, un’opposizione, uno stridore, un cigolo aspro e sgradevole può accompagnare uno stato di icasticizzazione della realtà. Così come, secondo G. Childe, nelle società antiche fu la produzione agricola - anche nella sua forma più rudimentale – a fornire per la prima volta all’uomo l’opportunità e il motivo di accumulare le forme dell’eccedente, nell’ambiente economico contemporaneo l’eccedente è divenuto una norma strutturale. In effetti, l’arte è morta perché noi non possiamo aspirare all’arte, come non possiamo ritornare alle origini dell’approvvigionamento rurale. Noi l’arte ce l’abbiamo ficcata “dappertutto”, siamo pieni di arte, siamo pieni di belle immagini, di color designers, di cool hunter, di creative designer, di advertising, etc…. Le copertine delle riviste sono piene di belle immagini, di iconografia affascinante, eccitante ed accattivante. L’eccedente delle bellezze patinate, della lavorazione dell’immagine estetica ed estatica, non è risultato dell’ingegno operoso dell’arte, bensì il prodotto di una storia, la nostra storia, la storia che l’occidente capitalistico ha scelto e desiderato inderogabilmente. Potremmo quasi dire che oggi l’immagine e la sua industria viaggiano nel flusso di quelle categorie istituzionali come i fondi cerimoniali, i clan, il modo di produzione, il tributo, la rendita, il plusvalore, etc… L’eccedenza ha dispiegato il suo teorema: riempire i vuoti di esistenza che potevano farci lamentare sulle forme di indifferenza nel mondo. È così che nella società della fine del lavoro siamo tutti occupati alla ricerca dell’immagine che più ci piace. L’eccedenza dell’immagine si pone come una peculiarità produttiva ed automatica del nostro progresso tecnico. Se i teorici del design sostengono che la loro disciplina è divenuta un sistema complesso di conoscenze, i teorici della sociologia in generale dovrebbero sostenere che i rapporti umani, e non solo le loro particolari dimensioni estetiche, sono diventati gli addentellati dei mille lemmi di un grande glossario di design. La società degli artisti è bella e pronta e un super-design logorroico e ciarlone ne ha progettato il suo sistema filosofico.

Di fronte a tale assurdità, è solo schiacciando la soggettività utopica della pittura nell’oggettualità totale della reificazione mediale che il soggetto può vivere nell’età di una tecnica programmata da altri. In questa strategia, che si incontra al centro di altre strategie, in preda ad una dispersione risolutiva generalizzata, si mostra l’efficacia di usare la tecnica dall’interno e scegliere di fare tecno-pittura ed altre storie simili. È a partire da qui che il mondo della tecnica diviene un laboratorio affermativo oltre che operativo, per forzare la mano verso la ricerca, ed è da qui che nasce la possibilità di fare comunicazione tra le mille forme che la medialità esprime. È all’interno di questa complessa dimensione che nascono le figure accattivanti di Adriano Nardi che qualche volta appaiono come delle bellissime donne sensuali ed avvenenti ed altre volte come delle figure androgine e sofisticate, nuove ed egizie, misteriche ed enigmatiche, figure aneroidi ed androidi che vengono fuori dal sacco mediatico dei giornali di moda, dei rotocalchi e delle riviste di “donna moderna” e a la page. Quasi sempre, però, queste immagini nonostante conservino tutta la bellezza femminile che attrae ed affascina, appaiono come qualcos’altro rispetto al genere di sola donna, di solo gay, lesbica o eterosessuale che più riusciamo ad immaginare. La domanda sorge spontanea: chi è quella lì? Basmina è veramente una ragazza, una donna? A quale attenzione si offre il suo sguardo? Come è veramente fatta? Chi ci dice che dietro quella singola immagine di Biquìnis (1999), di Ducotone Valley (2001), di Fight-Line (2001), di Hiroglif (2003), Hurricane Camille (2002) ci sono delle donne, delle semplici bellezze femminili? O forse esse potrebbero impersonare la pittura stessa, come sostiene Nardi? Ma in quei visi è effettivamente rintracciabile la storia di una donna? Noi guardando quella immagine osiamo interrogarci sul “chi è” di quella icona, forse perché è sulla nozione di genere che Nardi ha impostato tutta la sua pittura ed è sull’estremo significato di gender che egli ci vuole solleticare e avvicinare, proponendoci icasticamente un’immagine cyber-meticcia e cyber-latinos. L’immagine di Nardi sembra che parta da un genere che ha mischiato totalmente il feticismo con l’identità di un sesso, di un corpo, di un’avvenenza e di un’autenticità. Ma forse in questa folle miscela c’è il genere e la radice della sua profonda attenzione per l’eccesso del nuovo, prodotto dalla tecnica e dal senso stesso dell’orizzonte mediale.

Noi sappiamo che il concetto di gender è una categoria sviluppata ed impiegata dalla critica femminista per indicare processi di costruzione differente del maschile e del femminile. Andando alla radice del termine, gender suona proprio come qualcosa che interviene sui processi storico-culturali, nonché semiotici e linguistici della costruzione di un significato o di un senso. Da qui la mia idea che vede una strana somiglianza (e qui vado per metafore) fra il sesso modificato della pittura e la critica stessa al sesso da parte del gender, che nella sua forma costruttiva vorrebbe opporre il corpo, la totalità del corpo alla macchina dell’apparato genitale. Qui è come se la pittura ibridandosi, modificandosi, trovando un’apertura di generi che la fa essere più accogliente e disposta alle differenze, è capace di ritrovare un corpo biologico pronto a mostrarsi con diverse identità e a confrontarsi con l’interazione di diverse culture. Insomma, così come le donne e gli uomini non sono il naturale e l’immutabile, ma delle rappresentazioni che raccolgono un insieme di modi di vita e di pratiche discorsive, anche la forma mediale che ha superato l’illusione materica della pittura include altri linguaggi per combattere il patriarcato o il matriarcato della sua artigianalità. Il gender del mediale è, dunque, la legittimazione dell’immagine totale, tutto si sovrappone e viene fuori attraverso la piacevolezza delle mappe cromatiche che disegnano la visionica di Nardi. Come nel campo della filosofia femminista il gender è ben presto diventato uno strumento di critica, diciamo che la pratica di ibridazione di Nardi lo è altrettanto e lo è, soprattutto, quando l’innesto di pittura e tecnologia, in un eterogeneo mescolamento riescono a far stridere i tratti e le tracce compositive. Più il contrasto aumenta e più la piacevolezza del gender è in atto. Potremmo dire che l’erosione della pittura diviene l’erotismo pubblicitario e fictionale della comunicazione.

Pensando alla genealogia di quelle immagini, pensando al gioco al rimbalzo che le forme delle riproduzione attivano tra un ambito e l’altro, un procedimento e l’altro, è molto difficile accertare l’identità di queste figure. Dietro una di queste donne c’è probabilmente la storia di una contro-donna e di una contro-identità, perché è proprio la moda che negli ultimi decenni ha lavorato più di tutte affinché la bellezza femminile si riscoprisse in controtendenza a se stessa, facesse lo spillo all’identità di se stessa. Va detto subito, in forma di inciso, che la Bellezza non può essere quella che E. Panofsky aveva ricavato dall’analisi delle pitture e delle teorie che possedevano i fiorentini, neo-platonici e ficiniani, di un tempo che fu! Diciamo che nel nostro contemporaneo la bellezza è legata alle competenze di un basic design o di un benchmarking. Quindi, data la bellezza e data la sua certificazione a colpi di communication design, nella dittatura dell’affollamento anche le differenze e le identità spesso perdono dei margini netti, lasciando il posto a sospetti e a supposizioni, ad enigmi ed a quesiti irrisolvibili, che si chiedono in maniera perentoria, quale sarebbe il senso delle nuove cariatidi.

L’immagine femminile che si vede nelle immagini mediali di Nardi, più che accertarci del fatto che è una giovane donna, ci stimola subito la curiosità di capire se quella icona coloratissima e provocante, che sfoggia biancheria sexy e hot-pants, è una madonna che vuole mettere in risalto il corpo perfetto, che guarda bene in faccia lo spettatore e lo invita a seguirla nel grande mondo dell’artificio, oppure è piuttosto come quelle Vergini ambigue che ci aveva regalato Andrea Del Sarto all’inizio del ‘500. Qui mi riferisco proprio al titolo curioso della Madonna delle Arpie (1517) esposta agli Uffizi di Firenze. Se risaliamo con attenzione all’iconografia dei volti di Del Sarto, notiamo con quanta ambiguità il pittore osava mettere in evidenza nelle sue figure i tratti più profani. Nella Madonna delle Arpie già le figure mitologiche del bassorilievo sul piedistallo della vergine rappresentano mostri mitologici metà donna e metà rapaci, ma se ciò non ci bastasse - guardando meticolosamente i tratti peculiari del lavoro di Del Sarto - spesso la particolare dolcezza del volto, unita all’eleganza ed alla gestualità tipica delle sue figure, nasconde altri tratti ed altre identità. Spesso i personaggi così belli, definiti da forme sciolte ed apparentemente trasparenti, nascondono una sotterranea inquietudine che esploderà in maniera ancora più evidente nelle figure e nelle controfigure di Rosso Fiorentino, Pontormo e Vasari. Potremmo quasi dire che le figure di Nardi non hanno niente delle donne di Campigli, che attingeva dalla pittura parietale dell’arte etrusca. La figura delle sue donne non è a forma di anfora o di altri simboli, ma come dice lui stesso nel Manifesto di Basmina, i colori arcaici e terrosi della pittura sono superati dall’applicazione in mapping del digitale “come strumento di riorganizzazione della comunicazione”. Nardi dichiara in maniera esplicita che i “suoi quadri rimandano al www” e l’immagine, per fare questo, in genere scorre in maniera piatta e schermatica, come se dilagasse su una grande mappa geografica con l’inserimento dei mille colori. Rispetto al sistema di riporto di Maurizio Cannavacciuolo, qui la composizione, il sistema di montaggio e di cyber-collage è più rapido e fedele.

Risalendo, quindi, ad una iconografia popolare emblematica, per parlare di un genere circolare, forse è il caso di insistere sulle cariatidi. Nella pittura di Nardi che vediamo raffigurate così di frequente, rappresentano quasi un sostegno di tutta la composizione dell’immagine. In fondo la sua pittura agisce sull’inquadramento dei volti, dei corpi o di zone dettagliate di tutta la geografia umana, cercando di utilizzare le inquadrature, gli scorci, i profili, le sagomature o tutte le altre forme dell’apparire. Tale condizione mette la pittura in relazione con gli altri mezzi di riproduzione mediale che oggi, nella loro facilità, agevolano i modelli della nostra percezione metropolitana. Naturalmente, chi osserva con attenzione come viene distribuita la bellezza e la sensibilità contemporanea ha due alternative o si fa portare dalla corrente e in questo fiume si nutre di ciò che la comunicazione gli offre e quindi accetta una piacevolezza passiva e molto diffusa, oppure introduce su questo andamento una sguardo più personale che tenta di fermare il flusso e, laddove è possibile, razionalizzare l’evento autonomo e assolutistico che la pubblicità ha ormai introdotto nel nostro stile di vita quotidiano. Diciamo che la formalizzazione di Hurricane Camille o Hurricane Carla mi piace pensarla con quest’ultima possibilità. E diciamo anche che il genere femminile nella storia rimane uno dei comportamenti umani più tendenti alla libertà, alla liberazione ed alla trasformazione storico-culturale dell’essere. Con una metafora che ai ben pensanti potrebbe disturbare, ribadiamo che la donna è la rivoluzione o la rivoluzione è donna, non soltanto nel suo genere linguistico.

Detto questo è più facile capire quanto la pittura, come tutte le altre tecniche di riproduzione, sia femminile e, quindi, un genere aperto capace di accogliere e trasformarsi, procreare ed incrementare, rappresentare e interiorizzare nella voce del corpo il medium della conoscenza, come sosteneva Walter Benjamin. Ecco che questa ricchezza produce ulteriore ricchezza e differenza, non a caso uno dei più bei libri sul materialismo del divenire è stato scritto da Rosi Braidotti adottando un paradigmatico titolo: In metamorfosi. Questo è l’argomento della pittura oggi e non potrebbe essere altrimenti, nel senso che la pittura non sussiste in quanto sua storia ma in quanto “non è”, cioè è “in metamorfosi”. Essa non può più essere simbolo, perché trasformandosi in gender essa è l’allegoria in atto, l’allegoria concatenata al mondo della tecnica dal quale non è più possibile prescindere e attraverso il quale si può vivere soltanto in una metamorfosi critica continua.

Ho paura che il vecchio e simpatico professore di Konigsberg, conosciuto dai molti come Emanuele Kant, oggi avrebbe torto nel voler insistere a sostenere che la bellezza non esiste al di fuori di noi, nel senso che la gamma delle bellezze nel dizionario del design contemporaneo è più fortificata dell’antropologia. La tecnologia ha fatto venire i capelli grigi a Kant, proprio perché la bellezza, grazie al sapere tecno-pop, è soprattutto intrinseca alla gamma degli oggetti che ci circondano (anche quelli in carne e ossa). Magnifica utopia quella di Kant che sosteneva che il bello è ciò che piace senza alcun interesse, purtroppo – scalando gli share televisivi – ciò che piace sono quelle veline o velone che sono offese da una percezione estremamente strumentale. Forse questa è la ragione per cui l’in metamorfosi della pittura potrebbe solleticare l’occhio assuefatto e disdire quei contratti con i programmi condotti dall’alto.

Sperando che le immagini di copertina possano ribellarsi a tale stato di afflizione, in cui vivono grazie all’industria culturale, e sperando che il mondo vada diversamente da come va, tentiamo di pensare in positivo la storia delle cariatidi, o meglio proviamo a pensare che le cariatidi stesse si possano ribellare alla loro protostoria. Secondo Vitruvio, l’origine del termine cariatide è da ricercarsi nella sconfitta subita dalla città greca di Carie. Secondo la leggenda alcune di queste donne assoldate furono rese schiave e gli architetti del tempo le raffigurarono nell’atto di sorreggere le trabeazioni degli edifici, facendole diventare un simbolo contro i traditori della patria. Mettiamo il caso che quella bella modella posta al centro di Hiroglif sia stata utilizzata da uno dei tanti fotografi di moda per reggere lo spazio della visione in cui è stata progettata la presentazione di prodotti, anzi mettiamo il caso che, come dice Baudrillard, anche i prodotti sono spariti, non ci sono più perché dopo l’epoca della pubblicità viene la mimesi tra umano e post-produzione: quale funzione, a questo punto, possono avere delle immagini così provocanti? Diciamo che, così come nei Dormice, o nei lavori di Andrea Neri e quelli di Fabrice De Nola, le donne non sono mai delle cariatidi ibernate nell’antica città di Caria. Semmai sono le modelle di Vanessa Beecroft ad essere - come si diceva un tempo - delle donne oggetto; qui, tra le immagini di Adriano Nardi, Nina oppure la ragazza di Seattle sono delle potenziali ribelli, che reagiscono allo stato di totale appiattimento dell’immagine imposto dall’alto. La pittura di Nardi, essendo gender, si spinge da un’altra parte rispetto a delle corporalità che potrebbero minacciarci come i vecchi scheletri di Vesalio. Queste architetture tentano di sfondare l’immagine, tentano di far scoppiare la funzione cariatide e, invece di scolpirsi come un oggetto di muto marmo, esse provano a trasformarsi in allegorie vive, sono come le dame romane descritte da Pierre Klossowski[3]. Il colore fa da rivestimento epidermico, i costumi si associano così come se fossero dei complessi muscoli di una nuova pittura artificiale. Qui dentro il tempo è in una condizione di eterno presente, e non si tratta della favola dell’artista impersonata da quel reazionario di Pierre Drieu La Rochelle che - in preda alla rappresentazione di una borghesia debole, disillusa e corrotta, simulata dall’immagine pessimistica di una famiglia catapultata nella totale crisi - prova a scrivere, nel 1925, L’uomo pieno di donne. Chi è a confronto con l’estetica dell’artificio, non è in grado di incedere col passo del cicisbeo.

Del resto, nelle immagini di Nardi anche la figura, pur nella sua semplicità, viene sacrificata sull’altare dell’astrattismo. L’identità della persona emerge solo come un’apparenza tra le apparenze, infatti egli usa il colore con un’atmosfera che potremmo quasi definire di barocco digitale. In effetti, l’astrattismo Nardi lo pratica da sempre, basta guardare un lavoro del ’98 che egli chiama El Niño, o altri lavori che risalgono alle sue sperimentazioni degli anni Novanta. Usando sempre dei paradossi un po’ barocchi, diciamo che l’astrattismo figurativo dell’attuale Nardi sta alla Lezione di Mondrian, come quella di Mondrian potrebbe stare nella cronologia delle discendenze di un suo antico avo come Rubens. Ebbene, l’Artemide di quest’ultimo non è solo una dea della caccia, ma rappresenta anche la libertà di muoversi tra paesaggi e animali selvatici. Senza presunzione e senza contenerci in paragoni storici, che potrebbero forzare la retorica, diciamo che le donne gender hanno la stessa fisionomia ribelle, esse cavalcano la scena per catturare la nostra attenzione a colpi di erotismo ambiguo, omosessuale, lesbico, un erotismo che è la traccia del nostro desiderio di liberazione e della nostra speranza di libertà.”

[1] Semplice qui è sinonimo di banale, mediocre, andante e solito e non di unico, singolo e genuino. L’esercizio della giovane critica italiana, ormai da alcuni anni, con la collaborazione delle riviste d’arte contemporanea si è gettata da sola in un tunnel manipolato e governato dai media, dove i testi scritti sull’arte sono il frutto dell’idiozia giustificata dalla rincorsa al “semplicismo”…

2 Paul Veyne, Foucault rivoluziona la storia (1979), in Michel Foucault. La storia, il nichilismo e la morale, a cura di Massimiliano Guareschi, Verona, Ombre Corte edizioni, 1998, p. 31.

3 Piero Da Cosimo, così come in Vulcano e Eolo educatore dell’umanità (1495-1500), dedicò un vasto ciclo di opere, traendo ispirazione dalla lettura di Vitruvio, al tema dell’artista come proto-artigiano.

4 per i disinformati e quelli che pensano ad una mancanza di semplicità: l’Averno è un lago vulcanico presso Cuma circondato da pendii. Così chiamato perché le esalazioni mefitiche non permettevano la vita degli animali (dal greco Aornos senza uccelli). Nelle sue vicinanze era l’antro della Sibilla Cumana e, secondo la leggenda, l’ingresso dell’Oltretomba. Ben presto l’Averno passò ad indicare l’Inferno in genere.

5 Cfr. Il Manifesto di Basmina, olio su lino e stampa laser, cm 177x128; le parole invece sono tratte dalla parte scritta dello stesso Manifesto, che risale all’ottobre del 2003, pubblicato sul sito www.eadessovediamo.org.

6 Jean Baudrillard, Pour une critique de l’économie politique du signe, tr. It. Mazzotta, Milano, 1974, p. 90.

7 Dame romane, Parigi, 1968.

Opere pubblicate: Biquinis (1999), Seattle (2000), Nina(2002), Suns shadow rising (2002), Hurricane Camille (2002), Il Manifesto di Mahjabina (Overflow's Venus manifesto) (2004), Sesto sole (2004), Settimo sole (2004), Link’s baby link (2004).



CARLO FABRIZIO CARLI, ”Nel segno della pittura”, catalogo della 46° Mostra Nazionale d'Arte Contemporanea - Premio Termoli (23 luglio - 26 settembre) - De Luca Editori d'Arte, Roma 2004.

“ La formula adottata per questa 49" edizione del "Premio Termoli" (più esattamente, della Mostra Nazionale d'Arte Contemporanea che dell'antico e glorioso premio integra e prosegue la tradizione) - che, in concreto, consiste in una proposta di sedici artisti giovani (tutti entro i quarant'anni di età), operanti sul versante della pittura d'immagine -, presenta un aspetto di esplicita singolarità. Non certo per il fatto di associare giovani artisti al ritrovamento di una pittura di iconicità figurale; accostamento che, a ben vedere, non soltanto non offre motivo alcuno di sorpresa, costituendo anzi uno degli indirizzi più significativi dello scenario della creatività estetica attuale. La singolarità consiste piuttosto nella localizzazione geografica della mostra; nel fatto che essa si tenga proprio a Termoli, città che da mezzo secolo - grazie soprattutto alla guida lucidamente coerente di Achille Pace, a suo tempo, proprio a Termoli, fondatore, è appena il caso di ricordarlo, dell'ormai mitico Gruppo Uno - si è andata qualificando (e ne fa testo eloquente la pregevolissima Galleria Civica, che dal premio è nata, e che dello stesso costituisce il durevole retaggio per la città) come uno dei luoghi deputati a testimoniare i percorsi della ricerca aniconica in Italia, così pittorica che tridimensionale. In questa occasione, il tradizionale scenario del Premio Termoli si dilata così, significativamente, per lasciare il campo alla pittura d'immagine. Una scelta che richiede alcune precisazioni e qualche intervento di messa a fuoco. La prima riguarda l'impiego stesso del termine pittura, che la diffusa pratica delle contaminazioni di tecniche e di linguaggi non rende più scontato e istintivo, come in passato. L'univocità di linguaggio della tradizione si è trasformata in gremito pluralismo. Pertanto, parlare di pittura oggi, significa riconoscere la perdurante autonomia e l'individuabilità dell'atto del dipingere (così come, parallelamente, si potrebbe dire del fare scultura), e dell'oggetto estetico in cui esso tradizionalmente si concretizza (il quadro). Sulla pittura ha gravato a lungo l'accusa di essere secondo la proverbiale formula che Arturo Martini aveva coniato per la scultura, intesa invero come statuaria — una lingua morta, che avrebbe già detto tutto il possibile, e ormai esaurita la sua capacità espressiva. In breve, nessuno mette in dubbio la perentoria capacità espressiva e seduttiva dell'immagine; ad essere messa in dubbio è invece la capacità della pittura di interpretare adeguatamente l'immagine. E di evitare le secche fatali del deja vu, specie quando si ha l'impressione (o la tentazione di ritenere) che tutto in pittura sia stato già detto. Ma, del resto, anche sul versante esistenziale tutto è stato già vissuto, eppure la vita torna a riproporsi costantemente come un'avventura sempre nuova. A un pregiudizio ancora (incredibilmente) diffuso, riguardo la carica innovativa e progressiva, intrinseca ai vari linguaggi artistici, si deve la vulgata secondo cui la pittura d'immagine risulterebbe più tradizionale, meno dinamica e proiettata verso il futuro rispetto ad altri percorsi ed esperienze. Pregiudizio non soltanto destituito di ogni razionale fondamento; ma che in determinati casi - poniamo: nella riproposta odierna di taluni percorsi delle avanguardie storiche - merita perfino di essere totalmente ribaltato. Perché, è vero, certa pittura d'immagine può riuscire banalmente ripetitiva; ma è anche vero che si da poco di così conservatore e retrospettivo, di così frustrante, di così francamente noioso e inconcludente dei conati di una provocazione mancata; di un ostinarsi a ripetere esperienze già fatte; a ripercorrere sentieri già esplorati ottanta o novant'anni fa. E se l'accademia risulta sempre fastidiosa, occorre avere il coraggio di riconoscere che la sua forma più fastidiosa è proprio quella che svolge all'insegna dell'accademismo dell'antiaccademia e del gesto eversivo, che non può neppure invocare a sua giustificazione l'alto livello tecnico dell'antica. Così, se qualcuno vorrà ostinarsi ad affermare la modernità - poniamo ancora - dei percorsi di marca neodadaista rispetto alla via della pittura, si potrà in ciò anche convenire, ove il termine di moderno, di modernità, vada inteso nella valenza di una storicizzazione già ampiamente sanzionata, inerente alle spinte innovative dell'inizio del XX secolo - queste sì motivate da una diffusa, al tempo, aspirazione alla verifica e al rinnovamento dei linguaggi (ricordiamo il giudizio di Ardengo Soffici a proposito dell'Almanacco Purgativo di "Lacerba" e più in generale della vicenda futurista: "Nel nostro pensiero, esso doveva servire a sbrattare il campo dai tanti pregiudizi, luoghi comuni, concetti incalliti di serietà e degnità che l'occupavano e lo mortificavano come un cespugliame d'erbacce parassitarie"} - quanto destituita di una carica propulsiva nelle tarde riproposte nel contesto della presente condizione di postmodernità. Quest'ultima da intendersi alla lettera come la condizione esistenziale e propriamente culturale prodotta - appunto - dall'entrata in crisi irrevocabile delle ideologie della modernità (dovendosi peraltro considerare il Post-modern come vicenda ormai essa pure conclusa e, almeno in parte, metabolizzata). Oltretutto, la pittura d'immagine ha la possibilità di fendere trasversalmente la radicale contrapposizione di campo delineata da Mario Perniola ("L'arte e la sua ombra", Einaudi, 2000) per l'arte contemporanea, tra “celebrazione dell'apparenza” e “esperienza della realtà". Ovvero tra un'arte che “ha focalizzato la propria attenzione sulle nozioni di distacco, di lontananza, di sospensione e ha considerato l'attitudine estetica come un processo di catarsi e di derealizzazione", e l'antitetica attitudine che "ha conferito una speciale enfasi all'idea di partecipazione, di coinvolgimento, di compromissione e ha pensato l'arte come una perturbazione, una folgorazione, uno choc". Su questi scenari epocali così fortemente mutati, la pittura d'immagine torna a coinvolgere, e non anziani nostalgici di scelte d'antan, ma giovani e giovanissimi artisti, convinti che la pittura risponda ad un'ancestrale esigenza espressiva, che ha accompagnato l'uomo in tutta la sua vicenda, e che continua a svolgere il suo ruolo. Esigenza e ruolo che non possono essere assolti in altro modo, e che l'abnorme inflazione degli scenari visivi della società mediatica ha potuto modificare ma non inficiare. Anzi, proprio tale sconfinato amalgama di immagin ripropone il ruolo ultimativo della pittura, quale mezzo che riesce a vincere l'edacità erosiva del tempo e dell'inflazione iconica, trasferendo l'emozione prodotta dall'attimo fugace in una dimensione di permanenza e di validità universale. Non si tratta, beninteso, di esprimere valutazioni sul ricorso alla fotografia, al filmato, al video, al computer e a quant'altro possa intrigare i percorsi della creatività estetica contemporanea. Come si diceva, nel corso di un secolo, lo spettro dei tradizionali canali dell'espressione estetica si è dilatato in modo impressionante. Quello che interessa è semmai puntualizzare che si tratta di linguaggi altri rispetto alla pittura, cui dunque spetta un autonomo ambito di praticabilità; considerazione tanto apparentemente ovvia, quanto frequentemente al momento disattesa, anche - talvolta soprattutto - in grandi occasioni espositive pubbliche, che pure si riterrebbero tenute istituzionalmente a garantire la pluralità dei linguaggi. Nonostante che negli ultimi decenni il repertorio dei referenti culturali si sia arricchito a dismisura, la pittura d'immagine resta vitalmente innestata nel museo e nella storia dell'arte, come testimoniano in modo esplicito alcuni dei pittori presenti in questa rassegna. In altri casi - come potrà verificare il visitatore di questa mostra - tale ancoraggio appare problematico, se non addirittura paradossale. In realtà, tutti abbiamo dei padri, ed è sacrosanto coltivare le proprie radici, senza - per questo - che in esse ci si esaurisca e/o si accetti di replicarle docilmente. E sufficiente scorrere il sintetico spettro esemplificativo proposto da questa mostra per convincersi di come la pittura d'immagine sia oggi innovativa e propositiva; di come essa abbia saputo filtrare esperienze disparate, dalla sospensione metafisica al confronto con la fotografia e il cinema; dall'assunzione di istanze concettuali, che risulta oggi generalizzata; al caotico ma vitale melting pot mediatico in cui tutti oggi siamo immersi; agli influssi del linguaggio pubblicitario e beninteso del fumetto, cui va riconosciuto il ruolo di ispiratore e perfino di matrice linguistica di molte esperienze, a livello internazionale, a cominciare naturalmente dagli Stati Uniti e dalla Pop, da almeno un quarantennio a questa parte…

…Adriano Nardi occupa in questa rassegna una posizione di confine, in quanto egli opera associando pittura ed elaborazione digitale. Siamo insomma in pieno registro di contaminazioni linguistiche. Eppure l'impressione è che in Nardi sia ancora la pittura a mantenere il controllo, la regia dell'intervento. Non si tratta, comunque, di una pura operazione astratta, formalistica, perché l'artista romano introduce spesso nelle sue composizioni un forte coinvolgimento politico. Sono comunque i volti femminili, trattati con cromia squillante - che costituiscono il tema preferito di Nardi - a venire assunti dall'artista romano a icona esemplare della contemporaneità…

Opere pubblicate: Straight fight (2004), Zelotalove (2003), Criss cross (2004).



LORENZO CANOVA, ”Immagini del XXI Secolo”, dal catalogo della collettiva presso il Ministero degli Affari Esteri, Palazzo della Farnesina a Roma, tenutasi dal giugno 2003 al luglio 2004

“...Adriano Nardi dipinge icone femminili che sembrano annunciare le coordinate di una nuova coscienza collettiva, tramiti visivi per penetrare la "matrice" metamorfica e fluttuante di una Sapienza nascosta...”

Opera pubblicata: Fight-line (2001).



LORENZO CANOVA, ADRIANO NARDI, scambio epistolare dal testo del catalogo della personale “As straight as”, Galleria Maniero, Roma, aprile 2004

“Caro Lorenzo,

vorrei raccontarti qualcosa riguardo quella mia dichiarazione nell'intervista pubblicata nel catalogo della mostra Vertical horizons del 2002:

…Preferisco l'applicazione del digitale come strumento di riorganizzazione della comunicazione…

In questo senso i miei quadri già rimandavano al World Wide Web (ad esempio con l'immagine di un evento dal mondo stampata sul fondo, l'ambiente in cui abita la figura).

Una novità in questa mostra è che l'immagine da internet è diventata come una mappa (di carta con le aste, che contiene anche una mappatura di un particolare di pittura estratto dal piccolo ritratto e un simbolo alquanto esplicito, un logo) su cui il quadro stesso è appoggiato fisicamente: Mapping Dora. Dora, nome di donna e di uragano.

Nel quadro Sine direction tutti quei quadratini ripetuti sul fondo non sono altro che la ripetizione continua di Mapping dora molto ridotta, allontanata ma moltiplicata, un pattern ideologico, e poi vi è la fine del plotting, a sinistra, che termina sul bianco della tela. Le donne abitanti sono ad olio.

The cut è la cesura, il laboratorio ed il silenzio. In quest'opera attraversata da un segno cartesiano vediamo nella parte sinistra, nell'ambiente di rossi e di lino, un accenno ad una piramide con il vertice troncato. L'abitante di questo dramma è tratto proprio da un servizio di moda tra i più famosi grattacieli di New York, estratto da un settimanale la cui copia digitale su tela è inserita (alla destra delle perpendicolari) sul fondo di una tela che presenta un flebile accenno di linea nello spazio di un volto: la copertina porta la data della sua pubblicazione, l'11 settembre 2001.

L'opera presente in questa mostra che credo rivolge agli sviluppi successivi, l'ho terminata nell'agosto 2003. Superficie nuda e Pittura: Hiroglif.

A Milano, dove presentavo le mie opere intuite da te come 'segnali dei volti geometrici', distribuivo uno stampato in forma di volantino in cui vi era la immagine-montaggio del Quinto sole, e un piccolo link alla url del mio sito (www.adrianonardi.com). Visitandolo, dalla home si va nella pagina Quinto sole, come anche in quella de Il manifesto di Rachel, in cui vi sono dei link verso temi che ho trovato (e scelto, per necessità e significativa associazione) successivamente alla realizzazione dell'opera e al concepimento dei titoli, e quindi al loro inserimento nei motori di ricerca. Con questa operazione ancora una volta tento di afferrare la verità della comunicazione, legata ancora una volta ai quadri.

Nuovo sole associato al 'Nuovo sole di Ginevra', articolo su una manifestazione in quella città durante il G8 del maggio 2003: da quel sito sono linkati tutti i siti di informazione alternativa (Indymedia), distribuiti geograficamente in tutto il mondo, divisi per continenti.

Il quarto sole, quel quadro il cui volto di donna porta un disegno a forma di croce e sul braccio un logo della pace, si è subito associato ad una intervista a Gianni Riotta sul Quarto potere e la scuola di giornalismo americano, che descriverebbe la verità e libertà di stampa.

Quinto sole, il titolo dell'evento al Flash Art Fair a Milano, è associato ad un articolo di Ignacio Ramonet da Le Monde Diplomatique intitolato appunto 'Il quinto potere'. Afferma che con la accelerazione della globalizzazione liberista il quarto potere è stato svuotato del suo significato, e quindi è necessario un quinto potere che denunciando il superpotere dei media, dei grandi gruppi mediatici, affermi il diritto dei cittadini ad una informazione rigorosa e verificata esercitata da una responsabilità collettiva.

Nella pagina Il Manifesto di Rachel, dal sito si accede a due link. Il primo: un articolo sulla tragica storia della pacifista americana Rachel Corey, che è stata investita e uccisa con un bulldozer nel 2003 mentre tentava di interporsi ad una azione di demolimento di una abitazione palestinese. Con il secondo link voglio contribuire anche io a dare voce ad una delle sue ultime lettere dalla Palestina, la quale è molto pubblicata e linkata su Internet.

Per Vasto e Milano hai scritto: "…Le donne che Nardi mette spesso al centro delle sue opere, costituiscono dunque la chiave per entrare all'interno della sua "matrice" visiva, per penetrare i suoi codici simbolici rinchiusi nella veste accattivante di una raffinata eleganza formale…", ancora una tua giusta intuizione.

Il nickname che ho scelto per il mio indirizzo di posta elettronica è proprio xirtam, l'inversione di Matrix. L'omonimo film fu tra l'altro, credo per molti, un raccontato luogo di riflessione su realtà e virtualità (pensiamo ad esempio ai livelli di realtà tra loro collegate) oltre ad avere portato una estetica innovativa nel cinema…

AS STRAIGHT AS è il titolo della mostra.

Adriano Nardi

Disegno de Il quarto sole (2003) pubblicato come sfondo della pagina.



Caro Adriano,

penso che la tua arte nasconda un fondo di ambiguità: la tua pittura è indubbiamente basata su un’iconografia quasi patinata e avvincente, ci mostra donne bellissime dipinte con colori lucenti e accattivanti, non disdegna di rubare immagini e spunti dalla pubblicità e dalle riviste di moda per creare quadri che si presentano con una forte capacità di seduzione e di attrazione.

Così mi chiedo ancora se la fascinazione che le tue opere emanano così spudoratamente non nasconda qualcos’altro, e tu mi conforti dicendo che le tue opere sono “impegnate”, che in quelle immagini di perfetta bellezza femminile si nascondono precisi messaggi politici che cercano di metterci in guardia dai pericoli del potere mediatico, che nascono come avvertimenti contro i rischi della globalizzazione selvaggia, contro la ferocia e la logica distruttiva delle guerre, con una serie di “corretti” riferimenti che dovrebbero riscattare la tua “impura” compromissione col “nemico”.

Amico mio, infatti tu sai bene che usando quelle immagini ti sporchi le mani con il mondo della moda e del mercato selvaggio che spesso fa tessere le stoffe pregiate indossate dalle tue modelle a donne o a ragazzini sottopagati con uno “stipendio” di pochi centesimi al giorno.

Però tu, per fortuna, non sei uno di quegli artisti che ci fanno continuamente la morale anticapitalista per poi farsi sponsorizzare dalle stesse case di moda che producono a bassissimo costo nel Terzo Mondo grazie ad uno sfruttamento privo di scrupoli della manodopera locale: la tua ambiguità è differente e ben più sottile.

Mi parli di Matrix, e io quando ho scritto di “matrice” nel testo che tu citi ricordavo benissimo il nickname della tua posta elettronica, ma tu sai meglio di me che il padre della sospensione tra reale e virtuale di quel film non è altri che il nostro caro Philip Dick, lo scrittore di fantascienza a cui abbiamo dedicato una mostra che ha avuto una grandissima “comunicazione” ma che, in realtà (e non a caso), è rimasta soltanto “virtuale”.

Così, come nei capolavori di Dick, nelle tue opere il confine rimane sempre incerto: non sappiamo mai se ci troviamo dalla parte giusta e, soprattutto, dalla parte “vera”.

In questo senso le tue inquietudini sulla “comunicazione” e sull’informazione sono più che fondate ma mi chiedo se tu non stia facendo un lavoro di “controinformazione” ancora più raffinato portandoci a credere ai tuoi messaggi di pace e di giustizia.

Tu sai bene che le opere più profetiche e “deliranti” di Philip Dick sono fortemente influenzate dallo gnosticismo, da quel pensiero dove il legame tra il Bene e il Male è indissolubile e addirittura necessario per raggiungere la salvezza finale: così nelle realtà parallele (le “matrici”) di Ubik lo scontro tra i due Princìpi contrapposti è destinato a protrarsi sino alla fine dei Tempi.

Così penso che il tuo lavoro, nella sua apparenza più accattivante, non disdegni una strizzatina d’occhio al mercato, ma che, allo stesso tempo, nella sua radice “ultima” e profonda, nasconda anche un senso quasi platonico e archetipo di spiritualità.

Non a caso, il cyberspazio, in cui molti individuano il territorio della conoscenza collettiva, potrebbe essere un luogo adatto a racchiudere l’Iperuranio della società digitale, e, del resto, anche Matrix (che ha generato molte mode “commerciali”) è un film pieno di allusioni escatologiche e profetiche.

Così, caro Adriano, mi chiedo se la bellezza da copertina delle tue ragazze, in fondo, non cerchi di essere il riflesso di una bellezza “superiore”, la traccia dipinta per un cammino visivo diretto verso il centro definitivo della Sapienza.

A proposito, hai mai intitolato un lavoro Sophia?

Lorenzo Canova



Disegno del Terzo sole (2003) pubblicato come sfondo della pagina.





ADRIANO NARDI, “As straight as”, statement dal testo dal catalogo della personale alla Galleria Maniero, Roma, aprile 2004

“Il quadro è il link del mondo. La pittura può essere considerata come il più raffinato e lenticolare dei ready-made. Della pittura mi interessa la verità, non intesa come mimesi, bensì come oggettivo avversario della menzogna, del nascondimento, dell'occultamento. Nel corpo del linguaggio, ciò che racconta, ciò che è letterale, nasconde. Ciò che è ambiguamente installante, apparentemente incomprensibile, avvicina ancor più alla verità dell'oggetto, e quindi dell'opera. Ecco che ogni soggetto che metto nel campo visivo, come significante figurale, non è altrimenti possibile se non come meta-agente per la emancipazione aurea del quadro. Figure dal mondo, azioni, eventi e stasi, accompagnano il senso e il movimento dell'opera pittorica. Ecco perché la politica non deve farci paura, non è antagonista al nostro pensiero politico dello spettatore. Essa, la politica, i suoi stilemi, i suoi dinamici germogli, formano non altri che il quadro. A noi è richiesta solo una misura di attenzione per l'altro, per la pittura in se performante, per il mondo in sé costituente.

Cosa proviene dal virtuale, cosa proviene dal reale.

Lo strumento digitale mi ha permesso il collegamento visivo tra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo. Con lo strumento del WWW è possibile ottenere le immagini del cosmo astrale e delle persone più lontane, come quelle degli eventi sociali, politici, scientifici, del corpo e del costume, della natura. Con lo strumento dello scanner è possibile incontrare ed ottenere una immagine delle cose lenticolare, una visione verso l'interno della materia, grazie alla fotografia a mappa, punto per punto, degli oggetti che posiamo sul vetro dello strumento. La materia appare nella sua oggettività penetrabile, membrana-porta di un mondo più piccolo, da conoscere e rispettare. (13 marzo 2004)

Cosa è stampato, cosa è dipinto.

E' stampato lo spazio, il sistema, il dramma, l'istanza. Questi formano l'ambiente.

E' dipinto il corpo, penetrato dalla luce, abitato dal colore.

Legante di questa mostra è forse un ponte spazio-temporale.

Tra materia e superfici, tecniche e loro senso, colore e luci di attraversamento, ecco gli sproni della sua visibilità: un naturale movimento, la grande onda e la lunga risacca (surf). L' immagine di questa mostra si fa geometricamente chiara nella continuità del lavoro che va dal biennio che precede la mostra Vertical Horizons e questa parte di lavori, realizzati nel biennio successivo. Una andata verticale e un ritorno orizzontale. In questo disegno cartesiano ho inevitabilmente liberato il caleidoscopio dell'anima. Mentre dipingevo l'ultima opera (Mouse&lisa) per la personale inaugurata nel febbraio 2002 , nel settembre 2001, si manifestava la Tragedia delle Twin Towers.

Straight

Come la materia ha reinvaso il suo spazio, riconquistando la drammaticità del caso reale.

Come la geometria della linea, si è fatta più cruda, più retta.

La retta, su una grande superfice, delinea una curva.

Una retta, in ogni sua più piccola porzione, è irregolare e crea delle piccole insenature.

Il corpo (pittura libera), e l'anima (Rgb).

La materia grossa della pittura gestuale, segnica, dalle tensioni ingrandite, forma parti di un corpo. Lo stesso corpo contiene in certe zone un'altra scala di mìmesi lenticolare.

Zone di monocromìe idealmente semplificate ed organizzate, non prive di micro-libertà interne, piccoli tessuti informali, trasparenze, mute superfici, tagli, gradualità: necessarie sfumature espressive della dimensione naturale.

Nel simbolismo dell'opera, la struttura cromatica è complementare a quella geometrica.

Destra, sinistra e centro, sono immediatamente invertibili se tale simbolismo è esteso su un corpo. Per il corpo, la destra che vediamo, appare in modo endogeno, a sinistra. La sinistra appare alla sua destra interna.

Le linee curve si fanno disegnare dall'esterno, dalla luce e dal cielo.

Le linee rette si fanno disegnare dall'interno, dall'ideale e dallo spirito.

Ho davanti a me un corpo che dipingerò, interpretandolo prima con linee di disegno manuale. Quasi come per un autoritratto, ne intendo la sensazione interiore, nella luce e nello spazio, e percepisco curve di un movimento ambientale, eczemi del vivere sensazionale. La necessità simbolica, a volte, è invece preponderante, e definisce linee rette, impassibili, come tatuaggi immolatori.

La linea, dunque, si situa al centro dell'essere, del corpo rappresentato come dell'artefice.

La preparazione della tela.

Olio di lino nel lino.

L'andatura della trama del tessuto.

Tendere la tela.

La tensione del piano visivo.

Il rispetto per la materia.

Preparo personalmente la tela su cui dipingo con l'antica ricetta: gesso di Bologna, colla organica e olio di lino, che stendo con più mani, avvicinandomi gradualmente all'ultimo strato più sottile e liscio, con la giusta assorbenza per la pittura. Se uso una tela industriale, vi applico a pennello, almeno una stesa di preparazione artigianale.

Ecco lo spazio, come il bianco della carta, con quella sua luce organica ed assoluta.

Nel catalogo della mostra 'Luoghi comuni' (1), Gabriele Perretta sottolinea il problema dell'impossibilità della rappresentazione, o della ragione della sua possibilità, alla luce degli interventi nell'ambiente già operati in America a cavallo tra gli anni '60 e '70 dai land-artisti. La questione ravvena quell’idea sottesa nel mio lavoro recente, che era costitutiva delle piramidi tronche, quelle strane cellule con la pittura viva all'interno, di cui le ultime ho presentato alla personale Antipop al Museo Laboratorio della Sapienza di Roma nel 1998. Questi oggetti organici dello spazio, organizzavano concretamente l'idea di una porzione di natura (post-utopica e post-performatica) rappresentata dal cotone profumato dal suo odore naturale, che ho inamidato, disegnato e tagliato, in una forma che potesse accogliere uno spazio di rappresentazione ed immaginazione pittorica ed allo stesso tempo potesse apparire auto-strutturante. Generante una cellula che nello spazio si organizzi, senza la forza invasiva di una architettura, ma con quella idea di un equilibrio possibile, di una sopravvivenza sostenibile secondo un rispetto della propria sostanza, da parte della sostanza dell'ambiente che la accoglie e contiene, e che non la intacchi. Allo stesso modo in cui essa si espone ed abita, senza colpire, ma ambientandosi, muovendosi con assorbenza di materia, per una riflessione morbida. Cotone, amido e olio, gustosi elementi del paesaggio; elementi di immagine che formano ipotesi visive, auto-sostanziali e non storico-culturali. Ecco, allora, simboli radicali, naturali, geometrici percorsi, energie percettive. Questa particolare concezione e qualità di quelle mie opere, concentrava l'idea e la sostanza del paesaggio, come porzione della Natura nell'Opera come organismo. Fin qui la mia interpretazione ecologica della tecnica artigianale e dei suoi materiali. Fino all'uso delle prime stampe digitali: da li in poi ecco l'interpretazione della nuova natura della plastica poiesi che accetta conflittualmente, discorsivamente, poi neo-umanisticamente, la sostanza chimica, impura-complessa-transindustriale, dell'oggetto naturale artistico. Continuando a leggere e ancora riflettendo, penso al mio lavoro futuro e credo (come già in anni accademici e contemporanea-mente) che l'idea, la sfida, la visione, l'intuizione, la veggenza che anima e potrebbe animare il fare consapevole dell'arte è attraversato dal concetto spaziale di SCALA. Sento che l'uscita da un progresso fallimentare, debba attaccare e costituire una estetica delle proporzioni della Materia. Ho voluto dichiarare quest'istanza che mi ritorna ancora una volta esplicita, con l'opera che ho presentato al XXXVI Premio Vasto dal titolo: "Il Manifesto di Basmina (Minimal Divide Manifesto)". L’opera è accompagnata dalla stesura de: Il Manifesto di Basmina, per un divario minimo, già pubblicato nel numero 1 di www.eadessovediamo.org

(1) - Romberg, Latina, pubblicato in occasione della mostra di Guerrera nel settembre 2002, pag. 22. Micropittura, SCALA di Pittura.

Pittura come porzione di storia in SCALA di riduzione

misurata alla microstruttura dei tessuti e fluida nei corpi.

Corpi di pianeti in sistemi solari.

Soli di sistemi di luce per i corpi, sui corpi, nei corpi.

Adriano Nardi ”

Opere pubblicate: - in copertina - Hiroglif (2003), - seguono all'interno - Mapping Dora (2002), Cherub (2002), The cut (2002), Sine direction (Il seno selvaggio) (2003), Zelotalove (2003), Nuovo sole (2003), Terzo sole (2004), Il quarto sole (2004), Il Manifesto di Rachel Corey (2004).



GABRIELE PERRETTA, “Media.comm(unity)/comm.medium, divenire comunita oltre il mezzo: l'opera diffusa”,Mimesis editore, collana Dogville, Milano 2004

Dal capitolo a cura di Anonima-di-chì-si-lu-son

"Anonima-di-chì-si-lu-son è una community che è nata grazie al progetto di un collettivo artistico romano abruzzese, il quale ha pensato bene di indagare sulla
tautologia stessa dell'anonimato, ovvero su quella riserva di dispersione contenuta nell'idea stessa del "non so chi è, non so quale identità ha". Lo scopo di questo laboratorio è quello di far frizionare le opere della pittura, della fotografia e degli altri media con il senso totale di un'immagine che appare come icona, ma che si rivendica come concetto.
Trovare un percorso possibile all'interno del mondo delle forme e delle immagini della medialità significa orientarsi in un labirinto di linee e contorni, di superfici e di abissi, di modelli e di metamorfosi. Qui lo scopo dell'immagine - che si presenta come "diffusa" - è quello di rimbalzare dalle fonti più disparate dei media e disperdere i suoi segnali in un coro di voci dove molto spesso non è facile ricondurre autore e identità dell'opera al singolo nome prefissato o al singolo genere. Di conseguenza lo spettatore è portato più a riconoscere il soggetto dell'opera che non il soggetto che fa l'opera.
La comunità di Anonima ha provato a collegare ed a flettere senza alcuna dispersione artisti come Cascavilla, De Luca, Demelio, De Noia, De Paris, Isaac, Nardi, Spoletini, cercando di coniugare l'esperienza e la cifra dell'immagine mediale ormai consolidata con una forma di astrazione coinvolgente che, pur non spostandosi dalla medialità, prova ad inventare un moltiplicatore di segni che vada oltre l'accademismo.
Ne esce fuori quasi un quadro figurale, ma anche astratto-concettuale dell'immagine, che si presenta ampio e sfaccettato come una infinita riflessione sulle forme e i simulacri a venire."


Opere pubblicate: Sine direction (Il seno selvaggio) (2003), Il Manifesto di Mahjabina (Minimal divide manifesto) (2003), Nuovo sole (2003).



GABRIELE PERRETTA, “Media.comm(unity)/comm.medium, divenire comunita oltre il mezzo: l'opera diffusa”, comunicato stampa della mostra e convegno al Museo d’Arte Contemporanea Masedu, Sassari, febbraio-giugno 2004

“Questa mostra ha come idea centrale la convinzione che i soggetti che collaborano alla costruzione del materiale artistico hanno, ormai da tempo, assunto la tendenza a mescolare diverse esperienze e diverse identità, facendo circolare tutti i saperi, artistici e non, uno nell'altro. Da qui le comunità latenti e le community manifeste; da qui la mente diffusa e la generalizzazione di qualsiasi applicazione estetica. Entro i manufatti, le visioni del mondo, dei luoghi e dello spazio, attraverso le immagini e la scrittura, gli stili, i generi, le architetture e le tendenze, operano, si intrecciano e mutano continuamente significato contesti e pretesti diversi. Le comunità divise e le dispersioni a venire sono in accordo ma più spesso in contrasto le une con le altre, si vedono insieme e si sentono distanti, si vivono provvisorie e durature, interagiscono con loro stesse e con l'ambiente, il sapere, il senso comune e le emozioni. È come se le tracce di un lavoro, apparentemente individuale e totalmente filtrato dai rimbalzi dei media, declamassero: “the most migratory things in the world”.

In effetti, mentre da più parti si fa avanti l'ipotesi di un'eclissi delle forme di aggregazione e di una rinascita del sentimento del genio individualista e proprietario, si può dire che nessuna questione ritorna al centro del dibattito sul simbolico tanto quanto quello della comunità artistica. Nel dissidio contemporaneo, quando si costruisce l'opera, la comm. non è un contrasto da difendere ma un vuoto, un debito che ogni operatore ha nei confronti dell'altro. Ogni segno (o di-segno) artistico sembra ormai costituito da un'altrui potenza, un'imprescindibile alterità di noi stessi.

A partire, dunque, da alcuni esempi chiave del lavoro delle art community internazionali , la mostra Media.comm… non vuole desacralizzare solo il concetto di opera, né quello di artista ma, criticando il famoso slogan di M. McLuhan il medium è il messaggio , vorrebbe dimostrare che il medium è la comunità e l'arte, dissolvendosi nella vita quotidiana, già ai tempi di Kurt Schwitters, aveva già superato il mezzo, scegliendo l'ambiente e la comunità non come un'effettualità, ma come un soggetto delle cause. È la comunità stessa nella sua fattualità che non impone più un modello linguistico o il progetto di un'opera, ma un'operatività diffusa, che usa qualsiasi mezzo e quindi realizza volontariamente un'opera disseminata, spesso mescolata tra gli strumenti e i messaggi della medialità che ormai giacciono fusi nel sociale. In altri termini, qui la sostanza delle community è presa alla lettera, essa esprime una virtuale condivisione volontaria, una deliberata pratica di vita in comune, una “prestazione aperta” tra individui che instaurano delle relazioni reciproche, basate sulla condivisione di valori e sullo scambio di codici di accesso ad una rete infinita di cognizioni tecniche e non.

In questo concetto di collettività (in questo divenire community ) rientrano tutte le espressioni artistiche e tutte vengono completamente azzerate ma anche, paradossalmente, potenziate: la pittura, la scultura, l'architettura, l'installazione, la fotografia, la musica, il cinema, il video, le televisione e la rete. Qui, ben presto si scopre che ormai già da un bel pezzo all'interno delle pratiche comunitarie la forma della non-opera ha preso il sopravvento, è considerata prioritaria. Ora, nella sua urgenza, anche il soggetto non appare centro (genio) assoluto dell'operatività artistica, ma l'altissima importanza dell'individuo e della sua identità stilistica è gestita all'interno di una partecipazione sparsa.

Ma questa esposizione, a partire da simili presupposti, cosa riesce a proporre al grande pubblico? Diciamo che essa offre la possibilità di ricostruire l'evoluzione dell'opera dei gruppi artistici degli ultimi anni. Si ritorna a riflettere sui temi dell'impresa collettiva per affidare a tali esperienze una funzione di monitoraggio sui mutamenti dello scenario artistico internazionale. Il rapido sviluppo tecnologico degli ultimi anni induce a imbattersi in nuovi problemi ed a sviluppare nuove strategie per affrontarli ed interpretarli. Che cosa è accaduto? Perché la figura dell'autore ha mutato significato. Siamo in grado di scoprire la ragione di questo nuovo disagio, osservando l'ambiente e il gruppo sociale in cui lavora l'artista, perché se lo sfondo in cui l'autore agisce è in trasformazione, è in metamorfosi anche il suo ruolo. Possiamo capire l'arte del futuro se ci addentriamo in una nuova idea dell'autore. Gli esempi di artisti che circolano in comm.medium metteranno in guardia sui problemi che pone la nuova condizione artistica. Infatti, l'itinerario espositivo della art.Comm. vuole fornire un utile raggruppamento delle questioni trattate e poni in evidenza i nuclei problematici della filosofia dei gruppi. Infatti, seguendo la mappatura disegnata dalle sezioni di tutta la mostra, i visitatori non solo potranno acquisire un'esperienza diretta della gamma crescente che l'estetica delle comunità rimanda, ma anche le suggestioni che interagiscono con essa. “



BRUNO DI MARINO “Sui Microdipinta”, testo critico pubblicato su www.adrianonardi.com , febbraio 2004

“Quando nel XIX secolo la fotografia ha fatto la sua comparsa sulla scena delle arti, molti pittori hanno cominciato a temere per la loro sorte. In realtà il nuovo medium ha avuto il merito di svecchiare la pittura, affrancandola dall'obbligo del realismo e contribuendo alla graduale affermazione dell'astrattismo. Oggi il video e la fotografia digitali non rappresentano più una minaccia millenaria come allora, ma – ancora una volta – una nuova possibilità di trasformazione del linguaggio. A distanza di oltre 150 anni la pittura è ancora viva e vegeta, anche se non può sottrarsi alla necessità della sfida tecnologica.

Lo ha capito molto bene Adriano Nardi che, già da molti anni, esplora le infinite combinazioni di un confronto tra pittura manuale tradizionale e stampa digitale. Per l'artista le due tecniche, i due linguaggi, non sono affatto in contrasto tra loro, ma concorrono semmai a rendere più complessa e affascinante la percezione dell'immagine finale, nonché la lettura e l'interpretazione del quadro. Nardi parte solitamente da un'icona preesistente, da una fotografia pubblicitaria, da un ritaglio (anche molto piccolo) di giornale, trasformando l'immagine in pittura ad olio – secondo un'estetica del prelievo che, anche cromaticamente, si avvicina alla Pop Art – o rielaborandola al computer per poi stamparla su tela o su supporto fotografico incollato su alluminio. Successivamente, l'artista può dipingere ulteriori elementi (solitamente una figura) o negli spazi lasciati in bianco della composizione digitale, o direttamente su di essa. La texture elettronica, diventa così lo sfondo virtuale su cui stendere pennellate reali intrise di colori vivaci. La superficie stampata e lo strato pittorico, convivono in un intarsio frastornante e caleidoscopico. La realtà scomposta, solarizzata, deformata, ridotta in pixel dalle tecniche digitali, dunque resa astratta, si confonde con la figurazione pittorica all'interno di un'unica trama, davanti alla quale lo spettatore ha difficoltà a distinguere i due tipi di intervento, quello manuale da quello numerico. Come la pittura elettronica simula la materia pittorica e in alcuni casi la stampa digitale riproduce la pennellata dell'artista, così anche i colori ad olio da lui scelti si avvicinano ai toni acidi dell'immagine RGB televisiva o computerizzata: il rosso, il verde e il blu primari che riuniti insieme costruiscono la varietà dello spettro catodico.

La sua nuova serie di quadri Microdipinta, rappresenta per Nardi l'inizio di una nuova fase. Se il materiale di partenza restano – come suggerito dal titolo della serie – riproduzioni fotografiche molto piccole, quasi tutte di volti femminili, su cui l'artista imprime il colore con le dita o con un pennellino, il risultato finale stavolta è unicamente il plotter digitale, ottenuto dall'ingrandimento dell'immagine originaria ‘ritoccata’ pittoricamente. Senza rinunciare all'orgia cromatica che contraddistingue la propria estetica, Nardi riduce all'essenziale i termini dell'intervento. Per esempio in Microdipinta III (2002) l'artista si limita a piccole pennellate rosse sul volto di una donna giapponese; uno scarabocchio sulle labbra è il suo modo di negare e al tempo stesso di appropriarsi dell'eros di tale icona. In Microdipinta II - The Flag (2001) è l'unico caso in cui l'artista utilizza una fotografia in bianco e nero, fortemente sfocata (l'immagine va infatti vista a un certa distanza per godere i lineamenti del volto), che riproduce metà del volto di una donna; al di sopra dell'occhio ecco espandersi una grossa macchia di pittura, color sangue secco, una sorta di ferita che rende questo volto ancora più inquietante: se non fosse per la bocca sensualmente semiaperta, la donna potrebbe essere morta. In altri quadri della serie l'intervento pittorico è indubbiamente maggiore, e predomina solitamente il rosso, uno dei colori che rende di più con la stampa digitale. Per esempio Microdipinta X – Grande sole (2002) riproduce in orizzontale un volto ravvicinato su cui l'artista ha impresso le proprie impronte digitali impastate di rosso. Di dimensioni molto più ridotte (41x32) sono Microdipinta XXVI (2002) o Microdipinta XXVII (2004), dove il volto femminile è cancellato dalle pennellate o tagliato fuori dai bordi del quadro, ma proprio per questo a dominare è lo sguardo, un occhio che implacabile cerca lo spettatore, come un corpo umano sopravvissuto alle macerie di un terremoto. In altre composizioni il volto femminile diventa elemento vegetale (fiore) o animale (farfalla), grazie al colore che l'avvolge e rifluisce come un'onda.

Nei Microdipinta la pittura non è (non fa) più materia, non sopravvive più come elemento vivo sulla superficie stampata. E' un tocco cristallizzato, imbalsamato, quasi sottovetro. Ri-prodotto fotografinumericamente. Nardi riporta le due trame a un unico livello. Ma l'osservatore continua ad essere ingannato, ad illudersi che sia la pittura a dominare, a dire l'ultima parola. Teoricamente è la pennellata ad essere assorbita nella trama piatta della riproduzione digitale, ma concettualmente è ancora lei a dare il senso ultimo alla figurazione, a infondere all'immagine un'atmosfera, a donargli una possibilità narrativa. Il volto di donna con una ferita sulla testa (Microdipinta II) è quasi un fotogramma di film noir, un'immagine carica di attese, sospesa tra un prima e un dopo.

Ma qual'è il prima e quale il dopo di questa pittura? Il prima è il piccolo formato fotografico, il dopo è l'ingrandimento. Il prima è la pennellata, il dopo è la riproduzione di essa. In mezzo c'è un processo di rielaborazione che conduce dal fotografico al pittorico e dal pittorico nuovamente al fotografico. Ma la pittura, nonostante diventi ontologicamente solo un segno tra i tanti inglobato nella dimensione numerica, fa ancora la differenza. Opera ancora uno scarto, illusorio se vogliamo, ma capace di ricordarci che la forza emotiva e linguistica di una pennellata non viene offuscata, bensì si riverbera e si rinnova nell'immaginario della figurazione digitale.”



ALESSANDRA MARIA SETTE, “Microdipinta”, comunicato stampa della personale al Teatro Sala Umberto a cura di, Roma, febbraio 2004

“Artista coerente e determinato, Adriano Nardi si dedica alla pittura da parecchi anni, esplorando le molte possibilità oggi offerteci dalle nuove tecnologie, sempre al fine di applicarle al discorso pittorico. Con i lavori di Nardi, la pittura torna finalmente a farsi vedere, a far parlare di sé, a imporsi sulla serialità tipica del prodotto tecnologico attraverso un sottile ed efficace gioco concettuale. Le micropitture, infatti, nascono da una fotografia sulla quale l’artista introduce, anzi impone, la sua corposa e decisa pennellata. Il tutto viene poi ingrandito con tecniche digitali, per dar vita ad una differente scala di proporzioni, che a sua volta stimola lo spettatore ad una riflessione più attenta. Tale modo di procedere nell’elaborazione delle opere, da una parte ci fa chiedere con curiosità di quale tecnica si tratti, dall’altra ribadisce la sostanziale centralità e insostituibilità della pittura. Sotto il gioco accattivante della pittura gestuale e sintetica si nasconde un più profondo ed importante meccanismo concettuale: la tecnologia ha provato ad uccidere la pittura ma quest’ultima si è fatta beffa della precedente, non ignorandola, non rifiutandola, ma rendendola strumento sul quale imporsi nuovamente e riaffermarsi come uno dei più sinceri linguaggi artistici. Anzi, la mutazione di scala che Nardi realizza con i suoi lavori, e che è fondamentale per il suo discorso pittorico, è possibile proprio attraverso le tecnologie che abbiamo oggi a disposizione. Egli stesso afferma “…preferisco l’applicazione del digitale come strumento di riorganizzazione della comunicazione”. Ecco dunque che, accanto al soggetto scelto e alla composizione, anche la tecnica diviene protagonista. La micropittura sceglie la figura femminile per concretizzarsi, donne da rotocalco prese in prestito da riviste e foto di moda, novelle Muse, artefici e compagne dell’ispirazione dell’artista. Ma è essa stessa, ovvero la pittura, che vuole affermarsi, che “ri-organizza la propria visione. Ecco, dunque, la serie MICRODIPINTA.”



LORENZO CANOVA “Occhio!”, catalogo della collettiva all’ex macello, Benevento, dicembre 2003

“…le opere fluide e densissime di Adriano Nardi dove la cultura digitale si salda al messaggio politico e dove la bellezza sembra divenire la dichiarazione criptata di una nuova, possibile conoscenza collettiva …”

Opera pubblicata: Eyewall 1 (Arlene, Bret and Cindy) (2003).



CARLO FABRIZIO CARLI “Nel segno della continuità”, catalogo del II Premio Nazionale di Pittura Ferruccio Ferrazzi, Sabaudia, dicembre 2003

“…ulteriore fattore di continuità risiede nel conservare all'iniziativa quella formula di Premio di Pittura, che, come già rilevato nel testo che accompagnava la prima edizione, non è formula neutrale riguardo le scelte estetiche adottate, ma anzi comporta una elementare quanto fondamentale scelta di campo nel quadro dei percorsi estetici della contemporaneità, per il fatto di puntare esclusivamente sul linguaggio della pittura - e dunque prescindendo non tanto e soltanto dalle elaborazioni plastico/tridimensionali, quanto da installazioni, foto, video, computer/art e quant'altro -, ma operando, con ciò, un'ulteriore opzione, quella di riconoscere nella pittura un linguaggio ancora chiaramente identificabile come tale, non dissolto dunque da un ricorso sistematico alla contaminazione linguistica...

...l'adozione di un tema, che era poi quello più istintivamente evocativo della fisica ubicazione e della vocazione stessa della città di Sabaudia, vale a dire il mare. Un tema proposto agli artisti nell'accezione più ampia e metaforica, e quindi la più liberamente accostabile, ma che pure è venuto comunque a costituire un ideale filo rosso, che le diverse poetiche e i differenti - spesso diametralmente diversi - linguaggi, riconnette infine in un discorso, se non unitario, certo quanto meno sequenziale e coordinato. Naturalmente alle diverse poetiche e, in particolare, ai differenti linguaggi è stata chiesta un'aderenza al tema di differente natura (se non di differente grado), che sarà quindi di riscontro esplicito in caso di pittura d'immagine e, per quanto attiene alla pittura non iconica, all'evocazione cromatica, di luce, di linee, di forme, con le quali, comunque, la grande, ineliminabile fonte ispiratrice dell'artista, la realtà fenomenica - la natura, infine - s'impone nell'opera, e questo, a ben guardare, perfino nello stesso ambito concretista, che a tale influsso, ideologicamente, aveva preteso di sottrarsi, aspirando all'ambito della rigorosa elaborazione intellettuale…

…Adriano Nardi opera all'interno di quelle contaminazioni di linguaggi e di tecniche dell'arte oggi ampiamente diffuse (ma che inizialmente costituirono un'eredità dadaista), nel suo caso perseguite dipingendo ad olio su immagini digitali. La tecnica, d'altronde, non è che lo strumento di una espressività che nel caso di Nardi trova il motivo principale di interesse in un sapore cibernetico, in un'associazione di umano e di tecnologico, di inquietantemente metamorfico…”

Opere pubblicate: Ma(d)re degli ideali (2003).



GABRIELE PERRETTA, “Senaria – Sguardi, spazi e intenzioni dell’immagine ", catalogo della mostra nella città di Terracina, presso la Sala Comunale M.R. de la Blachére, Palazzo della Bonifica Pontina, Palazzo Tescola, agosto 2003

“…Il soggetto creativo, con il suo culto di imprenditorialismo rinnovato, ha dovuto fare i conti con la fine del sistema di istruzione tradizionale e con i nuovi sistemi di istruzione unificati ed universalistici. Nasce così una forma sdoppiata di operatore artistico, che da una parte incarna il vecchio "vate" e dall'altra è costretta a riprodurre la lezione del ready-made di Duchamp: quindi dal vate passa al "water". Tutto ciò può sembrare delittuosamente offensivo, ma invece vorrebbe dire che una parte considerevole dei linguaggi alti cercano di assumere una porzione considerevole dei linguaggi bassi ed a sovraccaricare il loro compito e la loro natura poetica, trasformando letteralmente le grammatiche e le formazioni di pensiero e di conoscenza. Il vero contenuto della società dell'informazione è tutto dentro ai dati trasmessi da un satellite, ogni satellite, o meglio il 90% dei dati trasmessi da essi sono l’interiors di una singola impresa.

Nei flussi transnazionali, che avvengono attraverso le reti di comunicazione, si snodano le nuove tendenze sviluppate nelle e per le economie capitalistiche.

La storia delle singole compagnie multinazionali parlano anche la storia di questo nuovo soggetto della comunicazione, che per un pezzo gioca a fare l'artista alla Marsilio Ficino, e secondo il codice dell'Accademia dei Careggi, e dall'altra si dissemina nella controfigura di questo artigiano poco ribelle e molto integrato, che incarna I lineamenti a flusso dell'operatore della comunicazione. Tutte e due queste figure non possono evitare di confrontarsi con l'eclettismo post-moderno e con gli approcci demagogie! alla cultura che impone il regime totale dell'onnimercificazione.

Alla fine di questo piccolo excursus, che vede sistemati in due poli contrapposti l'immagine tradizionale ma moderna dell'artista borghese e la figura controversa e combattuta del medialista - che eredita di più dalla tradizione dell'ars medioevale che dal progetto fintamente progressista, ma eterogeneamente religioso, dell'artista moderno e neo-platonico - tutto il sapere dell'antichità e quello dell’Information & communication technology si riversa nella forma di un'unica sinossi dell'immagine, ormai straboccante dopo una quantità incredibile di manifestazioni fenomeniche e storiche. Quest'immagine è all'origine di un ampio ventaglio di questioni che investono categorie cognitive, estetiche, etiche, etc... L'immagine è totale e mai come in questa ultima rivoluzione l'immagine può essere mentale e materiale, visiva e verbale, metaforica e simbolica. In questa selva di molteplicità avviene quindi il passaggio strutturale, il non-artista mediale, l'artigiano digitale, l'ars opifex diviene operatore della comunicazione assoluta e, quindi, si ritrova

immerso nel grande universo frammentato della moltitudine elaborativa che si serve di questo flusso. Nella marea di immagini che potenzialmente esprime la virtualità della information society, non è molto facile distinguere l'oro vero dall'oro falso, ecco perché nasce con la morte del pittore, dell'artista, un artigiano, un operatore, una sorta di archeologo, in grado di produrre immagini per discernere. Chi cerca l'oro in quest'immagine non è detto che si ponga come un suo difensore, sceglie piuttosto di lavorare nel progetto di dissoluzione dei miti della modernità, cercando di distinguere tra le strategie di rappresentazione. Nell'immagine si svolge la battaglia, una battaglia che non è più fra una tecnica che si possa sentire più all'avanguardia dell'altra (forse sono le economie, come pure imprese mediali, a trascinare in avanti o indietro queste tecniche), ma piuttosto fra una composizione che scivola nella pura sensazione ed una sintesi che in un certo senso è mediata dal concetto.

Quest'ultima scelta operativa, sotto certi aspetti, può essere il preambolo ad un tentativo di approfondire ciò che è pericolosamente destinato ad entrare nel flusso satellitare. Così talvolta può accadere che l'esteriorità si soffermi di più verso un'Imago mente, mentre in altre circostanze, attraverso un gioco di rimandi infinito, sia una inaccettabile e sofferta interiorità a fare o destinare. L'immagine in questo senso, costituisce lo specchio privilegiato del conflitto contemporaneo della vita di tutti i giorni.E nell'immagine siamo tutti occasione di schermo. Diciamo che le tecnologie dell'immagine ci hanno concesso una doppia strada: una è quella che ci permette di didascalizzare e apologizzare la visione del mondo, ed uno che qualche volta potendo raggiungere una strana complessità (estranea) ci offre la capacità di monitorarlo e conoscerlo, mantenendo nel contempo una sorta di distacco. È come se la lotta per l'irrappresentabile si combattesse nell'affollamento della rappresentazione stessa per veicolare un quoziente immaginativo ed emotivo che scoppi continuamente nel differente rispetto a ciò che abbiamo già classificato. Kevin Robins ha tentato di proporre un paradigma critico alla tecnocultura dominante, dimostrando che le tecnologie dell'immagine sono lo specchio di precisi orientamenti politici e culturali che rispecchiano l'ordine sociale dominante. L'uso archeologico di queste nuove tecnologie da parte di questo strano proletario mentale, di questo nuovo schermatologo, tende a separare quindi, alcune politiche culturali da alcuni territori visivi, alcuni momenti sfavillanti da emotività che possono sovraccaricare l'informazione, è da qui che parte una nuova sfida medialista. Sul Senso specifico di Senaria. Il sei nella tradizione allegorica è un numero che aduna due complessi di attività ternarie. Esso si esprime con il simbolismo grafico di sei triangoli equilateri iscritti in un cerchio. Ogni lato di ciascun triangolo equivale al raggio del cerchio e sei è quasi il rapporto della circonferenza con il raggio, Gli antichi consideravano questo simbolismo un'allegoria virtuale, che oscilla nell'incertezza e nell'insicurezza e quindi trasforma il 6 nel numero della prova, del test, del collaudo, II numero sei è anche quello dell’hexemeron biblico: il numero della creazione, il numero mediatore fra l'Immagine del Principio e della Manifestazione, Sia l'arte indù, sia l'arte cinese, che l'architettura di Vitruvio si basano su sei regole, che sarebbero i sei riflessi dell'emanazione della natura. In Occidente, invece, il numero sei si esprime con lo spazio senario, con l'esagono e la stella a sei punte che rappresenta il macrocosmo, o ancora l'uomo universale del disegno di Leonardo Da Vinci.

Prendendo spunto da una vecchia incisione del 1543, depositata nella Kunsthalle di Amburgo, con questa esposizione si insiste ancora una volta sull'immagine, su sei modi di intenderla, passando attraverso gli sguardi e gli spoz/ che nel contemporaneo la circondano. Perché sei modi di intenderla? Perché sei sono gli artisti invitati in questa mostra e sei sono i modi di trattare la fotografia, come sei sono le fonti delle immagini coinvolte, sei sono i modi di

affrontare il viaggio nelle poetiche e sei sono i riflessi che si determinano tra percorso stilistico e pratiche discorsive. Qui, anzi, la pratica discorsiva per eccellenza è l'Immagine stessa e le varie forme di ricerca che si convogliano (si canalizzano, si instradano...) in Essa. Quell'immagine che negli ultimi anni ha totalizzato il suo identico riflesso, l'immagine che non parla più una lingua, ma parla la lingua delle lingue, la lingua del disegno e della pubblicità. Nell'immagine si concentra lo specchio del mondo contemporaneo: immagine come conflitto dei conflitti, immagine come materia tra le materie, come cosa tra le cose, come economia tra le economie. Immagine come cartina di tornasole, come uno dei test più importanti della scuola del sospetto per capire le nostre attuali condizioni di esistenza. L'immagine come topos del trasferimento definitivo nel mondo, nel valico dell'universo di rappresentazione

della medialità. L'incisione a cui ci riferiamo è Piramide di sei uomini di Juste de Juste e serve a tenere salda un'ulteriore accezione, la dedica che i sei artisti - Andrea Neri, Luca Piovaccari, Fabrice de Noia, Giorgio Lupattelli, Silvano Tessarollo e Adriano Nardi - presenti in Senaria si sono adoperati a realizzare per il famoso Gruppo del Sei della musica strumentale francese: Arthur Honegger, Daris Milhaud, Francis Poulenc, George Auric, Germaine Taillefarre e Louis Durey. Il motivo per cui artisti così giovani hanno scelto di indirizzare questa esposizione ad un gruppo così inconsueto di musicisti è presto detto, I sei artigiani dell'immagine, pur adoperando tecniche e linguaggi fisici così aggiornati, e che in prevalenza scorrono attraverso la fotografia, vogliono comunicare in maniera raffinata il loro dissenso per una moda, banale quanto globale e volgarmente corrente, che nel presente è quella di associare le nuove culture del visivo alla musica rock ed alle tendenze dei videoclip, ormai segnate dalla noia dell'industria culturale, dall'effimero adattamento al genere e al suo portato spettacolare. La mostra è rivolta sia a quelli che sono a digiuno di arte contemporanea, sia a quelli che sono degli appassionati fruitori.

Lo scopo dell'iniziativa tende a propagare l'esigenza di raccogliere, in pochi exempla, concetti, proposte, intenzioni e ricerche sull'immagine mediale, che possano rappresentare il modus del "fare artistico odierno". La mostra, che svolge il ruolo di ouverture a possibilità future, si propone di fornire al lettore una verifica pratica su quell'espressione che convoglia pittura e fotografia e che spesso fa di questo connubio, con tutti i derivati tecnici possibili, l'antro delle sinergie e del laboratorio della post-produzione.

In altri termini, un'economia della tecnica che eroga artigianalità: una summa in cui confluiscono ibridamente new-media, estetica della post-produzione, grafica digitale e tecniche ritenute più tradizionali. Tale excursus, sintetizzato nel lavoro e nell'esposizione di questi sei artisti italiani, ha l'intento di portare l'occhio del visitatore nel cuore dell'immagine, accompagnandolo attraverso il lento processo di gestazione e di elaborazione della cosa: progetto, ideazione. scelta del soggetto e dei mezzi, adozione delle tecniche e dei materiali più adeguati a tradurre l'immagine secondo le intenzioni dell'artista e le occasioni di una buona attività post-produttiva.”

Opere pubblicate: Hurricane Alicia (North Texas 1983) (2002), Shine talker (2003).



ADRIANO NARDI, "Il manifesto di Basmina, per un divario minimo", Ottobre 2003, manifesto pubblicato sul sito www.eadessovediamo.org

“Il manifesto di Basmina (Minimal Divide Manifesto) è un’opera dal titolo a tre livelli: uno dentro al quadro, relativo alla sua struttura interna e alla sua statura nel mondo; il secondo intitola la rappresentazione, l'immagine che vediamo e un terzo titolo nella lingua della comunicazione e linguaggio globale, l'inglese del divario digitale, ma anche l'inglese dell'Arte Contemporanea:

óntos mikròs

Propizia al minimo divario percettivo

Sensibilità e attenzione rispetto le scale ambientali e umane.

il manifesto di Basmina

Propizia al minimo divario sociale mondiale

Sensibilità politica alle differenze culturali e all’ingiustizia economica formale.

minimal divide manifesto

Propizia al minimo divario linguistico

Sensibilità alle differenze stilistiche e contenutistiche della forma artistica data come assoluto personale: verso una unione delle differenze.

(Adriano Nardi, pittore, luglio 2003)

"Il manifesto di Basmina (Minimal Divide Manifesto)"

2003, olio su lino e stampa laser, cm 177 x 128

acquistato dalla Pinacoteca dei Musei Civici di Palazzo d’Avalos, Vasto”



LORENZO CANOVA, "Nel corpo dell'immagine", Luglio-Ottobre 2003, catalogo del XXXVI Premio Vasto

“…Metamorfosi

II periodo storico che stiano vivendo, dominato dai problemi della clonazione, delle biotecnologie e degli organismi geneticamente modificati, sembra rappresentare una misteriosa rappresentazione dei miti archetipi e delle più sfrenate fantasie di quegli antichi scrittori che avevano messo in versi le metamorfosi di uomini in delfini, di Dafne in alloro, o di Atteone in cervo, immaginate con una fantasia degna di un regista horror o di uno scienziato visionario. Del resto, molte opere antiche rappresentano proprio i momenti in cui quelle mutazioni terribili si verificavano sui corpi delle vittime terrorizzate, e non a caso molto spesso l'arte ha dato forma a strani esseri "compositi" metamorfici: dalle grottesche del Rinascimento fino alla Metafisica di de Chirico, Savinio e Fabrizio Clerici, con i loro esseri di forma umana costituiti da frammenti di marmi antichi, o da uomini e donne sui cui colli appaiono delle misteriose teste di animali. Dunque la strana situazione di "ibridazione" che sembra dominare il mondo attuale non appare poi così assurda a chi ha una qualche consuetudine con le arti passate e presenti, e molti artisti contemporanei stanno lavorando su queste tematiche creando lavori dove la fantascienza, la coscienza sociale sui problemi dell'ecologia e della bioetica e l'immaginario si fondono con misteriosa e spiazzante forza visiva…

…Con la rigorosa qualità della sua pittura, Adriano Nardi costruisce immagini fluide e densissime dove la cultura digitale si salda al messaggio politico e dove la bellezza femminile sembra annunciare le coordinate di una nuova, possibile conoscenza collettiva. Le donne che Nardi mette spesso al centro delle sue opere, costituiscono dunque la chiave per entrare all'interno della sua "matrice" visiva, per penetrare i suoi codici simbolici rinchiusi nella veste accattivante di una raffinata eleganza formale. I volti delle ragazze del pittore si trasformano così nelle dichiarazioni criptate di una lotta e di una resistenza, nei messaggi cifrati di uno scontro imminente. Nardi riesce così a coniugare l'attenzione per il sociale e la denuncia dei drammi dell'umanità ad una costruzione metamorfica e fluttuante dell'immagine che viene scomposta, analizzata e parcellizzata con strumenti digitali per poi essere trasferita sul supporto della pittura e divenire una sorta di labirinto visivo, un meandro decorativo e squillante al cui interno, come nuclei centrali e radianti, sorgono gli enigmatici e rigorosi messaggi delle figure rappresentate.’

Opere pubblicate: Il manifesto di Basmina (Minimal Divide Manifesto) (2003) e Science fighter (2003).



GABRIELE PERRETTA, "Imago Mentis", comunicato stampa della mostra presso La Giarina Arte Contemporanea, aprile 2003

"...Oggetto di questa collettiva è la doppia valenza dell'immagine: memoria e concetto, forse un omaggio indiretto all'intuizione di Apollinaire sulla peinture conceptuelle. Per usare un'espressione di A.Warburg, pensiamo l'iconografìa come denkbilder. Si tratta - comunque - di un linguaggio non per iniziati, ma che contiene contemporaneamente tutte le derealizzazioni dell'imago e tutte le derive della mentis. Dunque, lo scopo di quest'esposizione è quello di far incontrare sul campo della "memoria segnica" e della "concettualità visiva" chi produce e chi guarda. Perché non pensare che l'immagine nella sua totalità si presenta come la nuova recta ratio agibilium? È qui che si incontrano i lavori del maniscalco e del retore, l'artìfex e il poeta, l'affrescatore e il tecnologo, il pellegrino del viaggio e l'artigiano. Il riflesso della mente nell'immagine è ciò che è riuscito a superare i confini tra le tecniche di riproduzione ed è spesso ciò che si pone all'altezza dello spettatore, all'altezza di chi "vede". È da lì che ogni singola figura di fruitore viene coinvolta nella scoperta dell'imago e nell'evoluzione sociale della bonus operis. Imago mentis tenta di superare tutte le differenze e le discriminazioni che l'ultimo giornalismo d'arte - con molta retorica - ha contrapposto tra l'immagine grafica, fotografica, videografica, pittorica ecc..., considerando viceversa l'estensione della virtus operativa, come l'unico orizzonte d'attesa di se stessa della sua arétes, della sua vorago..."



GIOVANNA COPPA, "L'amante del collezionista", comunicato stampa, Dicembre 2002, Chieti

"...afferrare l'astrazione di Adriano Nardi, resa concreta in sostanza pittorica come bellezza di donna dal nome di donna ma con potenzialita' extraumane suggerite dal colorito illogico, forza ingovernabile della natura.



HEIDA SANCHEZ, ”La Cartografia e il volo”, catalogo della mostra a cura del Centro Informazioni Geotopografiche Aeronautiche di Pratica di Mare, Roma, settembre 2002

“La cartografia moderna sotto lo sguardo dell’arte contemporanea.

…Nardi, riflettendo sulle tempeste che periodicamente sconvolgono l'umanità sottolinea quanto sia importante che ad esse facciano seguito delle missioni di pace, in un continuo sforzo di progresso. In una striscia diagonale due simboli della pace sembrano sorvolare come aerei un territorio sconosciuto. Sullo sfondo un giovane ucciso, uno dei tanti, in uno dei numerosi scontri dell'umanità. Poi, osservando attentamente, ci si rende conto che il territorio sconosciuto altri non è che un particolare fortemente ingrandito di Dora, il bei volto femminile che campeggia nella tela. Ma Dora è il nome di uno dei 30 uragani più potenti che siano mai stati registrati e a cui l'artista ha volutamente dato un volto di donna. Un uragano come allusione alla guerra, alla violenza, agli "uragani" che sconvolgono troppo spesso l'umanità e alla distruzione che ne consegue. Da ciò scaturisce il senso di una missione di pace su un territorio straniero…

…In Nardi l'idea della mappatura, come esplorazione della superficie del colore, c'è sempre stata. Ma, soprattutto in un'opera come "Mapping Dora" il lavoro esplica la ricerca nella dimensione microscopica della pittura, nel dettaglio strutturale della materia. La base di partenza resta la pittura ad olio, eseguita già pensando all'ingrandimento successivo, ma anche una pittura dai colori vivaci che scompone uno splendido volto femminile nel tecnologico RGB del monitor, colorando il volto con larghe fasce dei tré colori primari. Poi scansisce esaltando a dismisura un dettaglio per lui particolarmente significativo e lo esplora, quasi fosse un paesaggio di un mondo sconosciuto, dove la materia pittorica forma colline e montagne, le pennellate vallate e pianure.

Lo sfondo, in questa come in molte altre opere (Dizzy horizons, Searching wanted, Movimento nudo), contiene anche un'immagine presa da Intemet (un manifestante ucciso a Buenos Aires), finestra tecnologica che da la possibilità di essere ovunque, di dialogare con chiunque, uno strumento che, in sintesi contribuisce ancora di più a ridurre le dimensioni del mondo ad un villaggio globale. La realtà quotidianamente si riversa nella nostra vita attraverso i molteplici canali dei media: dalla TV, ai giornali, a Intemet. E Nardi osserva e analizza il mondo guardandolo dal suo monitor-finestra, pesca immagini e ne fa oggetto di riflessione, inserendole in forma di stampe digitali nelle sue composizioni, magari ripetute (come lo sono in fin dei conti le vicende umane) come frattali, fino a comporre trame suggestive.

Punto focale di ogni composizione rimane un volto o l'immagine di una ragazza in RGB, un'idea astratta di donna più che un ritratto, dipinta, perché, l'artista afferma che una stampa, anche la più bella e raffinata, da sola è povera: ci deve essere un elemento materico, pittorico, tradizionale, che dia uno scatto diverso, una continuità, con cui la stampa moderna interagisca. La figura femminile focalizza l'attenzione e proietta l'immagine in una dimensione atemporale, in cui la riflessione assume valenze positive, ottimistiche…

Opere pubblicate: Dora (2002), Mapping Dora (2002).



GIOVANNA COPPA, SABRINA VEDOVOTTO, ANTONELLO RUBINI, testi in catalogo della mostra "L'isola del tesoro" Miglianico (Chieti)

"...altrettanto sospeso, ma nello spazio, il teorema Earth Loam di Adriano Nardi illustra l'umanità plasmata dalla terra, sorgente dalla combinazione di elementi primari. Con l'aggiunta di potenzialità ulteriori - il verde delle labbra - che ne fanno un misterioso complesso sensitivo-espressivo..." G. Coppa

"...L' opera di Adriano nardi si rivela invece in tutta la sua apocalittica tragicità. Non si può indugiare oltre su aspetti positivi e ludici, ma con un'attenta analisi introspettiva ricondurre il proprio ego verso eventi di maggiore impeto. Cosa fanno le persone protagoniste di questo lavoro insieme? Cosa le unisce? E le unisce poi qualcosa? Una situazione agli estremi della comprensione, nella quale si inserisce anche una figura ambigua scura senza volto ossessiva, della quale non riusciamo a comprendere neanche i connotati. Ed infine, ma sicuramente protagonista di tutto, un volto di donna che dall'alto osserva ogni cosa, ogni singolo movimento, senza però giudicare, ma rimanendo fuori dall'ambientazione spazio-temporale nella quale invece sono collocati gli altri..." S.Vedovotto

"...una testa e un mondo (Earth Loam). Il primo elemento grava pesantemente sul secondo ovalizzandolo pericolosamente. A mio avviso è una denuncia verso una popolazione che sfrutta volentieri negativamente le risorse della terra, non preoccupandosi delle conseguenze verificabili... un richiamo all'unione delle civiltà nelle differenze di colore riscontrabili nel viso..." A.Rubini

Opere pubblicate: Earth Loam (2002) e Kamikaze Love (2001).





AUTORI VARI, “Misura unica per una collezione, pittura del secondo Novecento della collezione Fiocchi nel cantiere di Palazzo Tiranni Castracane”, catalogo a cura del Comune di Cagli e della provincia di Pesaro e Urbino, contenente i seguenti testi: "Misure uniche ed irreversibili" di Arnaldo Romani Brizzi, "Collezionare segni del proprio tempo" di Roberta Ridolfi, "La rivoluzione delle immagini" di Alessandro Riva, 2002

Opera pubblicata: Orientata (2002)


 

ALESSIA MURONI, recensione della personale Vertical Horizons pubblicata su Arte e Critica, aprile-settembre 2002

"La Galleria Maniero ha presentato Vertical Horizons, personale di Adriano Nardi, giovane artista che ha fatto dell'interazione fra plotter painting e pittura ad olio il mezzo veicolante di un discorso di riflessione sul potere sociale dell'immagine quale ridefinita dal World Wide Web. Nel gioco ossimorico fra l'elusività del mondo digitale e la concretezza storicizzata della pittura, l'artista si propone di portare il discorso sulle implicazioni esperienziali e conoscitive dell'immagine. Le algide icone femminili di Nardi, così glamourous ma così stranamente disincarnate e ascetiche, spostano il discorso sull'immagine da patrimonio comune e totalizzante a scelta individuale etica ed eretica; navigando controcorrente nel grande alveo della medialità imposta."



LUDOVICO PRATESI, COSTANTINO D'ORAZIO, “Close up, ultima arte italiana”, catalogo a cura della Art Gallery Banchi Nuovi,edizioni Joyce s.r.l, Roma, marzo 2002

"...Close up nasce dall'idea che abbiamo elaborato sulla base dell'osservazione dell'opera di Marco De Luca, Adriano Nardi, Marco Raparelli e Luca Suelzu. Sono quattro visioni diverse della realtà contemporanea, concettualmente lontane tra di loro, ma realizzate secondo una metodologia simile, che assimila l'occhio di questi quattro artisti all'obiettivo di una telecamera. Una telecamera, appunto, non una cinepresa. Lo strumento che i reporter utilizzano per raccontare la realtà e restituirne l'atmosfera attraverso la cronaca di momenti significativi e la raccolta di immagini forti. Il distacco dalla realtà che appare da questi racconti in pittura è la cifra della nuova generazione di artisti italiani, che si sono fortemente allontanati dalla "partecipazione" che sosteneva il lavoro degli artisti del passato, nei tardi anni Sessanta e Settanta. L'artista oggi osserva e dipinge, con l'obiettivo di evocare l'azione, che sta raccontando, ma senza elaborare un giudizio e senza chiedere all'osservatore di parteciparvi. I dipinti in close up sono finestre sulla realtà dai vetri chiusi, che il pubblico può aprire o ammirare in superficie. E' il gioco dell'arte contemporanea, che in questi quattro artisti si ammanta di una notevole suggestione, grazie al fascino di una pittura attenta ai dettagli dell'immagine...

...Nella medesima cornice storica ci accompagnano le "Naviganti" di Adriano Nardi, l'artista più committed dei quattro, giunto alla formalizzazione pittorica di una lunga riflessione sull'evoluzione e sul decadimento della nostra società contemporanea. "Nel 1992, dipingendo, ho simbolicamente troncato il vertice di una piramide. In quel momento la mia attenzione era rivolta al disastro umano ed ecologico operato dal conflitto..." Come De Luca, anche Nardi punta il suo obiettivo su fatti storici contemporanei dalla grande intensità, che contrasta con le algide figure che in primo piano rappresentano la soglia da attraversare, per entrare nello scorrere del tempo. Sono figure femminili impossibili da ricondurre ad un ritratto, sono idee della donna, forme astratte che Nardi compone attraverso l'uso del verde-rosso-blu televisivo, come diaframmi di una telecamera che guarda gli elementi di resistenza alla decomposizione del tessuto sociale e civile occidentale. Non a caso, recentemente l'artista ha iniziato a dipingere su tele che riportano scene degli scontri di Genova, degli scaffali colmi di merce nei nostri supermercati, stampate in digitale da Internet. Conservano la definizione di un'immagine televisiva, a volte sgranata dal ravvicinamento della macchina fotografica o della telecamera del reporter, che ha inconsapevolmente realizzato uno sfondo, un paesaggio animato e veloce, cui si sovrappongono, senza integrarsi, le figure delle "Naviganti" dai nomi esotici come quelli dei film di fantascienza degli anni '70. Sono venute a riportare ordine nel nostro mondo senza esprimere giudizi, ma attraverso la sovrapposizione, la copertura di parti di realtà, l'affissione come fossero marchi di infamia e severo giudizio nei confronti del nostro scarso buonsenso. Immagine digitale e corpo dipinto costituiscono due contesti diversi che si uniscono e dialogano, come succede nei dipinti di David Salle o nelle visioni oniriche di Stanley Kubrick "

Opere pubblicate: X-Food (2000), Seattle (2000), The Cell (Mother) (2001), Logo(‘)s Eater (2001).



LUDOVICO PRATESI, "Qualche appunto sulla pittura di Adriano Nardi", catalogo della personale “Vertical horizons” edizione Galleria Maniero, febbraio/marzo 2002

" Amazonas

Ho incontrato per la prima volta la pittura di Adriano Nardi nel 1998, in occasione della sua prima personale al Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea dell’Università La Sapienza, intitolata “Antipop” e presentata da Stefano Colonna. Ricordo che la mostra era incentrata su un’installazione complessa e scenografica, che con le sue diverse parti occupava quasi per intero la sala del museo. Dopo aver osservato a lungo il lavoro, la mia attenzione venne attirata da un quadro molto piccolo , che dominava solitario un’intera parete con i suoi colori luminosi. Da lontano non era facile decifrarne il soggetto, ma dopo essermi avvicinato il volto della giovane india apparve in tutta la sua bellezza, evidenziato dall’apparente incongruenza dei suoi colori, acidi e brillanti: l’azzurro dei capelli, il verde del volto e la sua ombra rossa. Fu un attimo, o forse un “coup de foudre”: ora il viso di “Amazonas”, primitivo e ipertecnologico allo stesso tempo, dominava lo spazio, testimonianza di una pittura che non rinuncia all’estetica per appartenere alla più stretta contemporaneità.

Vertical Horizons

Sono passati ormai tre anni, e la strada aperta da “Amazonas” è diventata il fulcro della ricerca di Nardi, come si evince chiaramente dalle opere presenti nella mostra “Vertical Horizons” alla galleria Maniero. Una ricerca che in questo lasso di tempo si è fatta più forte ma soprattutto più consapevole, attraverso una delicato e sapiente equilibrio tra la manualità della pittura e la fredda oggettività della tecnologia informatica. Oggi l’artista ci propone un “itinerario per immagini” che possiede tutte le caratteristiche di una acuta e spietata riflessione sulle contraddizioni del nostro tempo, ormai dominato dall’incertezza del presente, che appare sempre più foriero di minacce incontrollabili capaci di minare per sempre le fondamenta del “villaggio globale” al quale tutti credono di appartenere con gli stessi diritti, in realtà garantiti ad una minoranza sempre più esigua.

Le Naviganti

La guida che ci conduce a scoprire le diverse tappe di questo itinerario è una figura femminile intrigante e sensuale, una sorta di Arianna del Duemila che compare , presenza erotica ma al contempo rassicurante, in tutte le opere di Nardi esposte in mostra. Una donna che ci è ormai familiare, abituati come siamo a vederla comparire in quell’uragano di immagini che travolge il nostro sguardo ogni giorno. E’ sempre lei, che ci invita a gustare yogurt dietetici o succhi di frutta tropicali, esibisce audaci capi di biancheria intima o tee-shirt alla moda, perenne e pervicace simbolo di una femminilità tanto diretta quanto anonima , come lo sguardo assente delle modelle che popolano con i loro corpi immobili le performance di Vanessa Beecroft. Corpi e volti di quelle che Adriano Nardi ha voluto chiamare “le naviganti”, la cui bellezza forzata ed eccessiva viene sapientemente esaltata dall’artista attraverso l’uso dei tre colori primari, che sottolinea ulteriormente la gelida sensualità dei loro sguardi di ghiaccio.Una bellezza algida e distante che mi ricorda l’aspetto fresco e invitante che avevano i fiori del “frozen garden” di Marc Quinn, mantenuto in vita artificialmente ad una temperatura polare e presentato allo spazio Prada di Milano qualche tempo fa.

Per un’arte più etica

Del resto, l’aspetto tecnologico delle figure femminili che dominano i dipinti di Nardi rimanda alle immagini digitali che occupano l’intera superficie dell’opera, scaricate direttamente da siti Internet e manipolate in maniera da non risultare immediatamente riconoscibili e sviluppare così una struttura narrativa ambigua ed enigmatica. Così da un dettaglio della superficie del pianeta Marte emerge il profilo di una ragazza dallo sguardo magnetico (“Green eyes on Mars”,2000) , mentre la figura di una bella donna in bikini si staglia al centro di un dittico di immagini “close up” che mostrano il sole e un fiore delle stesse dimensioni, quasi a voler suggerire due aspetti di una natura in agonia (“Fight-line”, 2001). In altre opere , come “Searching wanted” (2001) e “Movimento nudo” (2001) il corto circuito è ancora più marcato: in questi due casi le immagini del fondo appartengono a momenti di violenza nell’ambito di manifestazioni legate al movimento “no global”, che costituiscono un’espressione dell’ “ideale ecologico” in cui l’artista si riconosce. Come ha giustamente sottolineato Sabrina Vedovotto, si tratta di “un richiamo etico contro la manipolazione della natura e per la difesa degli unici, veri, possibili aspetti sacri della vita dell’uomo, il suo essere natura non manipolabile”.E’ proprio questa valenza di carattere etico che costituisce un aspetto originale del lavoro di Nardi, uno dei pochi artisti italiani che si preoccupa di conferire alla propria ricerca un impegno sociale definito.

Tra pennello e computer: i vampiri dell’immagine

Attraverso la compresenza nella stessa opera di figure dipinte ad olio su immagini digitali Nardi prosegue una tradizione basata sul concetto di sovrapposizione di immagini legate a contesti e significati diversi che ha attraversato tutta l’arte del Ventesimo Secolo, a cominciare dalle “trasparenze” realizzate dal pittore francese Francis Picabia , protagonista di primo piano prima del dadaismo e poi del surrealismo. Un percorso che conduce fino ai dipinti di David Salle, esponente della “new painting” americana degli anni Ottanta, che sovrappone scenette umoristiche tratte da cartoni animati per bambini ad immagini pornografiche “hard-core”. Del resto, al giorno d’oggi la necessità di elaborare opere non effimere ma durature e in grado di esprimere la complessità del nostro presente ha costretto gli artisti delle ultime generazioni a rapportarsi con le nuove tecnologie informatiche , e li ha trasformati, come ha rilevato di recente Lorenzo Canova, in veri e propri “vampiri dell’immagine”, che si nutrono di sollecitazioni visive provenienti dalle fonti più disparate , che vanno dalla pubblicità alla televisione, dal cinema al fumetto fino agli orizzonti infiniti di Internet. All’interno di questo folto gruppo , i pittori italiani si contano sulla punta delle dita, e mi sembra che Adriano Nardi abbia tutte le carte in regola come “new entry” in un gruppo che annovera già personalità di rilievo come Cristiano Pintaldi, Andrea Salvino e Fabrice De Nola"

Opere affiancate al testo in questa prima parte del catalogo:

Nova (2000), Nova Borderlands (2001), Green eyes on Mars (2001), Fight-line(sun son) (2001).



GABRIELE PERRETTA, "Dizzy Horizons", catalogo della personale “Vertical horizons” edizione Galleria Maniero, febbraio/marzo 2002

"Secondo la tradizione moderna, quando si parla di konkrete kunst, ci si riferisce a quella definizione introdotta per la prima volta da Theo van Doesburg nel 1930, che in genere saldava le opere non figurative ad un dizionario visivo interno alla loro stessa funzione. La pittura e la scultura concreta si basavano su ciò che era otticamente percepibile: colore, spazio, luce, movimento. Fu Max Bill che diede una caratterizzazione definitiva di questa visione, ma soprattutto ne fece uno statement con il Nastro senza fine realizzato intorno al 1936. Con la maturazione dei processi tecnologici, che alla fine del secolo scorso hanno influenzato tutte le forme di elaborazione dell’immagine, minando alla base anche nozioni fondamentali per il moderno - come concretezza in opposizione ad astrazione - l’indagine sulla pittura iconografica ha trasformato il senso della sue categorie non mostrando più come contrapposto ciò che può apparire staccato, ritagliato dal reale, da ciò che autenticamente si manifesta nella totalità delle sue determinazioni. In una sola parola, il virtuale con la sua massiccia introduzione nelle case della gente ha rimescolato le carte rispetto alla nostra cognizione di tempo reale, di spazio reale e, quindi, di concretezza stessa della spazialità. Esso ha offerto la possibilità di guardare l’ambiente circostante, e poi anche la pittura, con un occhio diverso rispetto al passato, introducendo una tensione maggiore tra l’idea di immagine naturale e di immagine artificiale.

Partendo da questi presupposti, e con l’intento di agire direttamente all’interno di una forma che convoca concretamente il mondo elettronico - senza adeguarsi all’ipotesi di Max Bill che per diventare il rappresentante più autorevole della Konkrete kunst si opponeva radicalmente ai presupposti alchemici, simbolici ed esoterici della pittura – Nardi, servendosi simultaneamente della riproduzione digitale e del pennello, tenta di rimescolare ancora una volta le carte sul problema dell’immagine. La sfida è ostica e gli obiettivi sono ambiziosi, il territorio dell’immagine si presenta del tutto minato, sia nel campo della pittura che in quello delle nuove attitudini digitali. L’arte della pittura all’inizio di questo secolo effimero, e dittatorialmente guidato dal nichilismo del Capitale, si presenta come un campo disciplinare oltremodo consunto; essa appare come il simbolo di un’arte che è totalmente inscenata e fictionalizzata, assolutamente relittuosa e finemente ingannatrice. Anche il quadro non appare più possibile sia nella sua forma di orchestrazione che nella sua profetica capacità di sintesi. Il quadro è stato rotto dall’esperienza Novecentista del montaggio e non è più acquisibile ad un universo che si circoscriva ad una tela o ad una tavola eseguibili su un cavalletto.

Attualmente l’immagine lavorata al computer non può mostrarsi come l’apologia della tempera dipinta con stile accademico, per essere offerta agli occhi dei nuovi e-salon. Se un tempo il quadro era un sistema chiuso, una specie di piccola boite optique, oggi tale formulazione è improponibile. Chi pensa ad un quadro rinnovato nel contemporaneo dagli scherzi del digitale, è un imbonitore che vende fumo e aspira ad affermare dei principi che non hanno niente di fondato. È assolutamente aberrante pensare ad un quadro come alla composizione di un file. Un file non è il contenitore di un’immagine, ma potenzialmente rappresenta uno dei tasselli di un mosaico che può comporre delle immagini infinite e super-riproducibili. A partire da ciò il quadro potenzialmente non esiste più e, parallelamente, non esiste più la sua struttura né la possibilità visivamente circoscritta di dichiarare la sagoma di un’icona. Diciamo che il confronto tra una pittura composta su tavola e il decorso di un file, che si orienta al risultato espanso di una tavolozza, si percepisce come una grande baggianata. Il file sappiamo tutti che è una raccolta significativa di informazioni dotata di un nome; esso può essere un programma oppure un documento creato da un utente. Se un file permette di distinguere i set d’informazione, come è possibile pensare che la sua potenzialità si possa ridurre all’immagine di un quadro?

Nel computer, proprio perché si distinguono una memoria centrale ed una memoria di massa, ogni immagine si specchia nella propria capacità di essere una copia di se stessa e, quindi, una copia infinita della sua specularità. Nelle funzioni del computer vi sono inoltre i file server (dispositivo di memorizzazione accessibile a tutti gli utenti), i disk server (unità remota), vi sono i buffer (immagazzinamento temporaneo). In sostanza, il linguaggio del computer è dotato di una versatilità fortemente espandibile, che non è configurabile alla luce del concetto di quadro. L’immagine del quadro non è diminuibile, non è dilatabile, non è sezionabile, non è stratificabile, quella dell’elaborazione digitale, invece, può essere tutto questo insieme. Sul computer da un microrganismo può sfogliarsi una famiglia infinita di immagini. La fotografia digitale è potenzialmente versatile, perché con un dettaglio possiamo riempire ed emulsionare centinaia di chilometri di tela, con tre tubetti di colore ad olio al massimo riusciamo a fare una tavola 120x130. Inoltre, il file è una copia, è un back up infinito di quella intuizione che abbiamo avuto. Il file ha in sé la potenza dello scriba Ezra che copiava i testi sacri (Codex Amiatinus –700/716 ca.-), esso risente del tratto illimitatamente riproducibile e su questo tratto divide la sua spinta orizzontale e verticale. Da una parte condanna la pittura ad essere infinitamente se stessa e dall’altra sanziona la copia della tavola miniata come l’eterna copia, lo scriba altro da se stesso. È così che si muove il grande universo mediale, è così che il mondo feticistico che ci circonda rasenta la follia parossistica. Ma nonostante la grande disponibilità del digitale ad espandersi, esso non può essere tradotto nei tempi tecnici della pittura. Fra il digitale e la pittura vi è la rottura del riproducibile che si alimenta tramite una sequenza infinita di immagini, forme che alla manualità sono state offerte solo con l’introduzione della nozione di montaggio. Ecco che la pittura è oltre la macchina perché in essa si ricompone il senso concettuale di superamento della tecnologia per la tecnologia. In questa grande fiera delle banalità, la storia della pittura, e soprattutto di quella figurativa e realistica, si presenta come una battaglia tra ghostbusters, tra morti viventi che si impauriscono e si dilettano a spaventarsi tra loro, la battaglia di chi vuole affermare con un sottile inframince (il riferimento è alla nozione duchampiana) il disperato senso di una tecnica, ormai in grado di agire liberamente e senza nessun legame all’attualità, perché è passata all’infinito archivio della memoria.

Per ripercorrere la storia senza dare l’impressione di essere degli epigoni di qualcosa che non si riuscirà più a risollevare dalle ceneri, bisogna agire rimescolando le carte in maniera giocosa, tentando di dare spazio al Carnevale di M. Bachtin, di cui il linguista russo parlava negli anni trenta/quaranta del ‘900. A futura memoria, accompagnato da un atteggiamento ironico e contemporaneamente politico, e soprattutto senza l’incanto di dover eseguire la pittura per riversare sulla superficie un qualsiasi panegirico, Adriano Nardi ci prova. Egli cerca di farci capire che anche nel mondo dell’immagine che si muove tra il richiamo parallelo ai media tecnologici e il mondo della pittura sintetica (Ducotone Valley) vi è la possibilità di rispettare e di attraversare l’universo e la nuova nozione di konkrete, rimanendo però nell’ambito del figurativo e nel territorio affascinante dell’iconografico. Sì perché, fallito il progetto dell’avanguardia e il suo pedissequo rapporto con la spazialità del colore, della forma minimale e dell’esperienza della geometria, tra i giovani artisti contemporanei corre voce che si può ritrovare la concretezza facendo riferimento quasi “realisticamente” al consunto mondo circostante, al riflesso della sfera iconologica che tutti i giorni occupa la nostra esistenza. Grazie al filtro che noi abbiamo scoperto nel contrastarci e nel conflittualizzarci con la pesante coltre della cyber-sfera, siamo finiti in un territorio vago, che si trova oltre la visione informale. Senza l’idea di fare di una filosofia del concreto un’intrinseca tendenza a sforare nella didattica, e senza voler autoritariamente pensare di dialogare con le purezze e i significanti più astrusi del segno, senza dare compositivamente una risoluzione alle linee ed agli spazi vuoti ed alla geometria piana, Nardi tenta di affiancare il significato di concreto al mondo fictionale dello schermo in tutte le sue coniugazioni (cinema, computer, televisione, etc…).

Concreto (concretezza) nello spazio tridimensionale dell’immagine (“elusa ed illusa”) significa giocato tra il doppio senso della realtà e della finzione continua. L’immagine - dato che contiene in sé la doppia verità dell’illusione e della rappresentazione, dato che si sposta sull’evidenza dell’idea, quindi su di una concretezza che può assorbire l’astratto, il corporeo, il palpabile, il tangibile e parallelamente il suo contrario, il pratico, il concettuale, l’ideale, l’autentico e poi nella sua finzione l’accertato, il feticistico, il salto nell’apparente, nel fantasioso, etc… - piegata alla manipolazione totale nel laboratorio della tecnica, si presta ad essere lo specchio totale della sua apparenza, si piega definitivamente al paradosso del concreto.

Max Bill ed i suoi seguaci (vedi Maldonado) hanno costruito un’immagine della concretezza che passava attraverso gli interventi su scala urbana; la pittura mediale, dalla quale provengono il discorso e la ricerca di Nardi, passa attraverso la riconsiderazione della metafora visiva, o meglio della nozione di konkrete che agisce all’interno dell’immagine della grafica computerizzata. Sì, perché i programmi di grafica al computer, l’uso popolare della fotografia digitale e via di seguito sono degli addentellati della grande costellazione mediale. Il medialismo, nella sua fattispecie, sin dall’inizio degli anni ’90, ha fatto scuola ed ha prodotto una varietà immensa di soluzioni e di spinte per la ricerca sull’immagine ed una di queste è senza alcun dubbio quella di Nardi. Il suo lavoro, sia nell’uso della pittura che in quello dell’elaborazione digitale, è assai più maturo di molte altre aberrazioni che vorrebbero essere infelicemente ricondotte ad una sorta di école du regard - tutta papalina - che usa la grafica elettronica così come i vecchi lustrascarpe usavano la cromatina per chaussures à semelle de cuir già forzosamente lucide.

In sostanza, l’immagine digitale si muove rispetto alle sorprese del rinnovamento come un oxymoros. Essa ci sottolinea il fatto di non essere più un’immagine. La sua particolarità è quella di sottrarsi all’evidenza ed alla concretezza della superficie. Quindi, la pittura che Nardi aggiunge al lavoro automatico della plotter painting serve per ravvisare e farci riconoscere una concretezza. L’immagine digitale è una sorta di antitesi della pittura, essa introduce una specie di contraddizione in termini sull’immagine pittorica. La pittura più tradizionale serve dunque a fare da macina, ad assorbire questo contesto ed a recitare il suo ruolo storico, ovvero quello di modellare nel contesto della sua forma i dati di colore, di luce, di effettualità della materia. Il digitale appare invece come l’apologia della sparizione, l’introduzione definitiva della nozione di sfuggente, di fuggevole, di riproducibile fino al parossismo. Il digitale non è l’ampliamento definitivo o nuovo della forma del quadro, ma se mai è la morte definitiva del quadro. Quanti file di quel file esistono? E quanti icone di quell’icona esistono nelle memorie del World Wide Web? L’immagine, sfondando il “di per sé”, non riesce ad avere più la consistenza di un’immagine concreta. L’immagine di un file appare come un lembo d’asfalto, è un fazzoletto di territorio colorato. Esso è assolutamente calpestabile, è la continuazione elettronica della pittura industriale di Pinot Gallizio, è il mondo della rinuncia definitiva a qualsiasi idea di soggettività, di verità, di concretezza. Ecco che alla possibilità di stendere all’infinito le pannellature dell’immagine offertaci dalla veloce elaborazione digitale, il pittore ha bisogno di aggiungere la marca, un’elaborazione individuale, una figura di donna, un corpo ipercolorato che pur provenendo dalla stessa elaborazione digitale sfugge dalla ripetizione inautentica e sia testimone di un gesto che si mostra più vicino ad una forma vaga di individuazione. È come se la pittura calcasse l’istanza della poesia narrativa e facesse il gioco del poema allegorico rispetto all’estremo realismo della tecnologia.

Nardi si accinge a navigare tra la pittura intesa come corpi, pigmento steso sulla superficie e come elaborazione digitale. Egli usa il supporto digitale come una sorta di sfondo e di pattumiera multicolorata dove si affastellano “i caos” dell’informazione. Alla schermatura piatta ed omologata proveniente dall’elaborazione digitale – quasi per provocazione – aggiunge poi la sfida pittorica, tentando di sostenere che l’esercizio della pittura appaia come un’etica della comunicazione in grado di controllare ancora la faciloneria del supporto digitale. Da queste immagini iperstratificate vengono fuori degli schermi veri e propri, in cui le sovrapposizioni si addensano e il corpo della tecnologia più attuale slitta in una situazione di compressione. Lo sfondo spesso richiama immagini digitalmente scelte, elaborate e stampate, provenienti dagli spazi praticati dai movimenti globali, dai simboli della ricerca scientifica, dalle mappe ambientali o ecologiche, da forme di ingrandimenti vertiginosi che spingono lungo il desiderio di farsi oggetti, cose, strutture fortemente bloccate, inevitabilmente collassate nel vuoto dello spazio acustico dell’infosfera. Naturalmente anche qui, in primo piano ricorre l’immagine della donna, così come nei lavori pittorici dei Dormice, la donna è quasi sempre sul proscenio della boite optique. Essa si solidifica come una materia gassosa, come un corpo tra i corpi in grado di attrarre l’attenzione sulla sua prevalenza e sulla sua capacità di apparire una rappresentazione di primo piano. Nardi la definisce la donna “Microdipinta”, perché ci vorrebbe dire che la sua figura è curata al micron. Essa è composta da una ritmica interna che, anche se si presenta leggera, apparentemente venata, delicata, fisionomizzata, semplificata dai tratti caratteristici della sua avvenenza, mostra una mimesi curata nel dettaglio, nel tratto più sottile della sua caratterizzazione. Così come per i Dormice, in Nardi si tratta sempre di una donna da rotocalco, con la differenza che, rispetto alle pin up della pop art, la venere dei Dizzy Horizons nasconde una fascinosità differente, quasi come se ci trovassimo dentro alle pagine di qualche web-comics. Nelle geometrie tonali che si espandono nel suo corpo, la pittura agisce come una mise en abîme. La figura e la controfigura di se stessa fungono come una matrioska, così come nel sistema dell’araldica la raffigurazione di uno scudo contiene e sottende un altro emblema. Nell’immagine popolare la figura femminile, la Gioconda, è un cliché ma è anche un sintagma, un fatto espressivo che volontariamente richiama all’eloquenza del banale (alla retorica della storia della pittura); infatti, sia per la frequenza del suo impiego, sia per la parossia della sua intrinseca derisione, nonché per la sua referenzialità memoriale e per la sua forma espressiva così diffusa e nota, la donna raccoglie il segreto della Sfinge. Il pittore interpreta il luogo comune che la società dello spettacolo offre della donna, un topos che diventa stereotipo facendosi scivolare da dosso ogni rilevanza ed esibendosi nell’automatizzazione come se fosse un pezzo della descrizione di Bebuquin oder Die Dilettanten des Wunder (1912) di Carl Einstein. Si tratta, però, anche di una figura-tandem che agisce, con un suo fascino irresistibile, per disumanizzare la moltiplicazione di forme automatiche che ispirano e alitano sullo sfondo.

Potremmo sperare che la pittura sia ancora viva, se essa riuscisse a denigrare se stessa, se continuasse a prendersi gioco della sua stessa identità. Per troppo tempo (soprattutto negli anni Ottanta e negli anni Novanta) c’è stato un tentativo di considerarla come qualcosa di molto serio, qualcosa che con il ritorno alle forme fosse veicolo di una seriosità quasi alienata dal corso della storia presente. Anche la pittura mediale è stata vista come una minaccia, perché la si voleva ricondurre alla serietà del gesto umanizzante della tecnica, dello scarto deviato che essa dovrebbe rappresentare. Invece la pittura dei Cascavilla, Santolo de Luca e così via non ha niente di tutto questo; essa è piuttosto l’introduzione volontaria, l’immersione quasi a corpo nudo nell’universo simbolico della finzione, dove non c’è niente di serio e di vero, tutto è abilmente s/natura, tutto è filtrato dall’immagine del finto, dell’inespressivo. Una pittura dichiaratamente fumettistica che concettualmente gioca contro se stessa; essa vuole apparire finta e falsa, tanto quanto può essere falso un oggetto sociale in disuso come un orinatoio o uno scolabottiglie. È la prima volta che la pittura, dopo un periodo buio e sconfitto dal nichilismo della restaurazione, ha cominciato a parlare un linguaggio impossibile a se stesso, il linguaggio della tecnologia e della sua stessa morte. Abbiamo quindi a che fare con una pittura che sul filo di questa impossibilità ritorna ad essere assolutamente concettuale. L’immagine delle veline che si vedono sui lavori di Nardi ci fanno chiedere sempre la stessa questione: è carne da macello così come si vede sui calendari, oppure si tratta di icone politicamente accattivanti? Ma è possibile ancora chiedersi, davanti al velo di una società che ha fondato tutta la sua politica dello sguardo sulla prassi del voyeurismo, se la questione importante sia legata ai veli? Le immagini che usa Nardi, le icone che usano i Dormice, sono effettivamente le testimonianze dirette dell’oggettualità femminile, ma esse rimangono anche il motivo per cui la pittura mostra con questa trascrizione l’aspetto più consunto di un fenomeno sociale e di una tradizione stessa della tecnica. Le veline in tutte le loro movenze accattivanti e seducenti, in tutto il loro essere “movimento nudo”, appaiono come un dato reale di qualcosa che descrive alla lettera il parossismo della società dell’immagine in cui viviamo. Naturalmente, il pittore non ha altra scelta: egli può mostrare soltanto il difetto che ognuno di noi ha nel desiderio sublimato del mons veneris. Il voyeurismo è una malattia diffusa, esso è l’altra faccia del calendarismo, è un piacere per la merce perché, come dice Freud, “le nevrosi sono forme sostitutive delle normali espressioni dell’erotismo”[4][1].

Curioso quel lavoro di Nardi, dove il pittore mette al centro di un vero e proprio scontro sociale l’immagine di una donna: ai quattro lati della testa essa porta quattro guerriglieri della strada e quattro simboli dell’anarchia che disegnano la simmetria facciale della sirena, quasi come se fossero una griglia politica sottoposta all’esibizione della donna in prima fila. Attraente anche Nova, che ricorda vagamente uno dei più bei romanzi di William Burroughs. Ma il lavoro che rispecchia di più l’idea sofisticata della micropittura di cui ci parla Nardi, è sicuramente Mouse&Lisa, che incastra benissimo la versatilità dell’olio e della plotter painting. Il primo piano della donna risulta sorprendentemente carico: il corpo di una ragazza, che potrebbe pubblicizzare una lavanda o una saponetta dal profumo delicato, si trasforma immancabilmente nel topos della nuova storia dell’arte, quella che è scritta a colpi di logo e di possenti regole economiche. Qui più che la novità del colore acido, o della resa cromatica che peculiarizza le potenzialità della plotter painting, è la filosofia del montaggio che sfoga un sottile senso di originalità. Il montaggio viene da molto lontano, ce lo insegna lo stesso Walter Benjamin, quando nel 1929 rifletteva su quel bel romanzo di Alfred Doblin che è Berlin AlexanderPlatz. Egli sostiene che il principio stilistico di esso è il montaggio, perché nel testo compaiono stampe piccolo borghesi, storie scandalistiche, casi sfortunati, canti popolari, inserzioni ecc…[5][2]. Da questa analisi oggi noi possiamo dedurre che la tecnica digitale non aggiunge niente di nuovo al versante della pittura iniziata con il dadaismo. Azzardiamo pure che il Novecento potrebbe essere considerato il secolo del montaggio e che l’aiuto del digitale non fa altro che continuare questo grande ampliamento della tecnica verso confini in cui la pittura si pone in continua metamorfosi, cercando di trasfigurare se stessa e ponendo la sua mutazione come un rinnovato traguardo per fronteggiare l’idealismo tecnologico degli imbecilli."

 

Opere affiancate al testo in questa seconda parte del catalogo:

Dizzy horizons (2001), Searching wanted (2001), Movimento nudo(2001), Mouse&Lisa (2001), Ducotone Valley (2001).



CARLO FABRIZIO CARLI, “Una scelta di pittura”, catalogo 1° Premio nazionale di pittura Ferruccio Ferrazzi, Sabaudia (LT) agosto 2001

"... Se, dunque - si diceva - gli obbiettivi dell'iniziativa pontina appaiono di immediata evidenza, forse è proprio sulla formula del "premio di pittura" che converrà invece spendere qualche considerazione. Già il parlare oggi di pittura, in un clima diffuso di contaminazione di tecniche e di linguaggi, presuppone una scelta di "ideologia" dell'arte, per cui tale contaminazione non è data per scontata, almeno non è accettata fino al punto di dissolvere interamente la riconoscibilità dell'oggetto estetico nella veste tradizionale ("il quadro"). Anzi, la questione si presenta da parte di non pochi "addetti ai lavori" in forma ancora più radicale/ riguardando la stessa praticabilità attuale della pittura, e così analogamente della scultura. Basta visitare la Biennale tuttora in corso a Venezia, per rendersi conto come alla pittura (come, del resto, alla scultura) siano riservati ambiti marginali rispetto ai video, ai filmati, alle fotografìe, alle istallazioni. D'altro canto, il progetto espositivo messo a punto da Harald Szeemann non è certo in dissonanza con la maggior parte delle grandi rassegne internazionali di arte contemporanea. Anche il Leone d'Oro alla carriera assegnato a Venezia a Cy Twombly, non fa - in fondo - che confermare questa prospettiva: non è che si neghi l'importanza e il ruolo "storici" della pittura; se ne nega la praticabilità nel contesto della creatività estetica contemporanea, quasi un linguaggio irrimediabilmente logorato, non più utilmente impiegabile. Consapevole dei propri limiti ma anche delle ragioni della propria scelta, il "Premio Sabaudia - Ferruccio Ferrazzi", e la mostra che ne consegue, ha scelto l'insegna della pittura, anche se - come il visitatore interessato avrà modo di constatare -, specie nella sezione d'impronta segnico-concettuale, si è cercato, mediante proposte assai diversificate e talvolta perfino problematiche, in quanto a tecniche e materiali, di offrire un marcato ampliamento dell'accezione tradizionale della pittura. E di mostrare, a costo di operare sul filo del rasoio (dove finisce, in certi casi, il dominio della pittura, dove comincia quello della scultura?), l'ardua separabilità dei due linguaggi.

II. II progetto della mostra si è dunque articolato, a scopo strettamente operativo, in un ideale "dittico", l'uno incentrato sulla Persistenza della figura, l'altro su Percorsi di segno e di concetto, annoveranti ciascuno una ventina di artisti invitati; ad esso si affianca una seconda sezione di artisti selezionati, dove tecniche e linguaggi sono, naturalmente, disparati.

In Persistenza della figura si è voluto presentare, pur nella fatale incompletezza, un diorama ampio e attendibile dell'importante fenomeno del rinnovato vigore della pittura di figura, che fa da significativo contraltare alla presunta obliterazione della pittura stessa, cui si è fatto sopra cenno…

… III. E' nell'ordine logico della situazione attuale dell'arte, che questa seconda sezione della mostra, attestata su uno spettro di registri linguistici che spaziano dal segno alla concettualità, si configuri più problematica e articolata, in una parola, più "aperta". In questo contesto la tradizionale accezione della pittura manifesta spesso la sua fragilità, abdicando ali' (apparente) univocità connotativa del suo fisico manifestarsi…

… IV. La presenza degli artisti selezionati, in assenza di indicazioni stilistiche e/o tematiche, offre naturalmente un diorama oltremodo differenziato…

…Di particolare interesse, per la sperimentazione di nuovi linguaggi e il relativo ampliamento dell'ambito tradizionale della pittura (l'associazione dell'olio ai nuovi procedimenti di stampa digitale), ma anche per le sue valenze di carattere concettuale, appare il lavoro di Adriano Nardi…”

Opera pubblicata: No fear (2000)



GIORGIA MUSIELLO, “La mia prima volta”, catalogo ed. Ass. cult. Futuro, collettiva di giugno 2001

"... No Fear fa parte di un gruppo di opere che Adriano Nardi ha realizzato dopo gli avvenimenti di Seattle, che nel ’99 hanno visto nascere l’opposizione spontanea contro gli organismi internazionali che, come il WTO, si riuniscono per decidere su questioni vitali per il futuro del pianeta, come l’ambiente, le coltivazioni transgeniche, l’equilibrio fra gli Stati, la globalizzazione dell’economia. Una foto degli scontri tra attivisti e polizia, presa da Internet, viene sdoppiata e specchiata; le direttrici dei palazzi, così moltiplicate, dirigono la prospettiva dal fondo verso un punto esterno alla tela, e l’immagine sembra divenire un cuneo puntato verso lo spettatore. Al centro, come se provenisse dal suo interno, compare il volto di una strana creatura, con le labbra socchiuse. Il gesto della sua mano ripete quello di un dimostrante alla polizia: non avere paura di noi, noi chiediamo solo PUBLIC VOICE, e lo stesso gesto, di pace, si rivolge a chi guarda, per dire non avere paura di… quello che vedi dietro di me. E’ un richiamo etico contro la manipolazione della natura e per la difesa degli unici, veri, possibili aspetti sacri della vita dell’uomo, il suo essere natura non manipolabile. L’essere umano deve restare al centro delle scelte, e la tecnica del quadro partecipa al contenuto: il pittore si riappropria di un’immagine digitale attraverso la sua combinazione con la pittura a olio. Forse è la pittura stessa che parla, qui, nel simbolo, e attraverso la storia: è un’immagine interamente pittorica, con la costruzione dello spazio simmetrico centralizzato, l’uso del colore, in una ricerca di equilibrio e unità “classici”.”

Opera pubblicata: No fear (2000)



SABRINA VEDOVOTTO, “Mercato globale”, testo dal catalogo ed. Ass. cult. Futuro, stampato in occasione della collettiva 'Arte al mercato a Piazza Vittorio', dal 24 Maggio al 24 Giugno 2000

"... il mercato di Piazza Vittorio si è vestito in questa circostanza con abiti nuovi, tirati a lucido per una occasione dawero speciale, nuova ed originale: una mostra d'arte contemporanea all'interno di un mercato. Ma non è tutto: il mercato è infatti quello di piazza Vittorio, centro nevralgico di una realtà in cui le varie etnie presenti nella città di Roma convivono da almeno un decennio, con colori e sapori differenti. I dieci artisti che partecipano alla mostra hanno voluto tributare un omaggio, ognuno con il proprio linguaggio, a questo luogo così denso di significati...

... Il tema tragico della realtà in cui viviamo ci viene però prontamente riproposto da Adriano Nardi. Artista giovane romano, da diverso tempo si interessa, attraverso i suoi lavori, del problema della natura, delle sue trasformazioni, del suoi stravolgimenti. Anche in questo caso ci propone una giovane attivista giapponese che segnala del prodotti geneticamente manipolati. Qui, come nell'opera di Alecci e in quella di Pletroniro, vi è un chiaro e manifesto segno di ribellione nei con-
fronti della nuova economia che spinge a manipolare, cambiare ogni cosa, per renderla apparentemente perfetta, ma non più naturale.”

Opera pubblicata: X-Food (2000)



AUTORI VARI a cura di A.BACCILIERI, “Figure del ‘900, 2”, libro-catalogo LaLit edizioni d’arte,AABB Bologna, maggio 2001



EMANUELA NOBILE MINO, “Guida agli artisti contemporanei, Roma#1”, libro catalogo ed. Nuova Anterem, dicembre 2000

"... La sua ricerca artistica si fonda sull’interazione di diversi media e campi di indagine. La pittura classica viene associata a quella digitale per sovrapposizione e bilanciamento cromatico, la moda e l’arte si fondono in funzione di una narrazione che, partendo dal ritratto sviluppa tematiche relative ai rapporti sociali odierni e ai grandi temi della contestazione politica internazionale.”

Opera pubblicata: Sophìa (1999)



Arnaldo Romani Brizzi, “Straordinari cortili”, catalogo ed. Associazione Dimore Storiche Italiane , Roma, 27-28 maggio 2000

" Per il secondo anno consecutivo l'Associazione delle Dimore Storiche, Sezione Lazio, ospita nei cortili di numerosi palazzi romani una rassegna d'arte contemporanea... ...questa volta, con Ludovico Pratesi, si è inteso perfezionare il meccanismo espositivo della manifestazione precedente, che fu messa in piedi in poco tempo e con inviti non del tutto mirati. Si è, infatti, ritenuto opportuno invitare artisti conosciuti e che hanno già avuto modo di farsi conoscere in importanti manifestazioni in Italia e non solo, anche se la loro arte può essere presa in considerazione specialmente per l'attualità dei linguaggi. A ogni artista è stato quindi "assegnato" un cortile con il quale fosse possibile stabilire un dialogo tra il luogo dato, appunto, e la loro particolare linea espressiva. Ecco che opere appositamente realizzate, o altre che già esistevano ma che avevano tutte le caratteristiche necessario all'incontro di cui sopra si è detto, costituiscono il "tesoro" che ogni visitatore andrà a scoprire, cortile dopo cortile, nell'itinerario scritto dagli organizzatori delle Dimore Storiche. Gli artisti di questa sezione sono, in rigoroso ordine alfabetico: Giovanni Albanese, Roberto Almagno, Andrea Aquilanti, Stefania Fabrizi, Felice Levini, H.H. Lim, Giuliano Marin, Adriano Nardi, Marina Paris, Simone Racheli, Maurizio Savini, Adrian Tranquilli... ...Una grande storia - di architettura di alcuni dei più bei palazzi al mondo e delle famiglie patrizie che li commissionarono, abbellendoli nel corso del tempo - che non intende rammaricarsi per un passato che non è più, ma che si fa spirito attivo di una continuità, attraverso la presentazione di alcuni aspetti dell'intelligente e colta, anche se a volte difficile, arte del presente..."
 

Opera pubblicata: Biquinis (1999)



A. PIPERNO, “Pigneto Gallery”, La Repubblica, Roma, 14 aprile 2000



MARIA KATIA Ficociello, SABRINA Vedovotto, “Invito al Pigneto”, catalogo ed. Ass. cult. Futuro , Roma, aprile 2000

"...in vetrina questa volta sono finite le opere di artisti contemporanei invitati a partecipare non solo ad una mostra, ma anche e soprattutto ad un'idea. Coinvolgere il pubblico in modo diretto e rendere partecipi gli abitanti del quartiere era lo scopo e quale migliore occasione se non portare quadri, fotografie e sculture
nei negozi, nei posti che quotidianamente vengono frequentati nella zona? Così sono stati scelti artisti che si confrontano con mezzi espressivi diversi e di varie generazioni per offrire una panoramica quanto mai vasta sull'arte, cercando un dialogo tra il luogo ospitante e le tematiche indagate dalle ricerche artistiche...

...in un negozio di ottica, dove dalle tele di Adriano Nardi catturano la nostra attenzione gli occhi penetranti delle sua ipnotiche donne, creando un gioco di sguardi...

...II suo percorso pittorico è piuttosto complesso: da una semplice immagine quotidiana, spesso ricavata da immagini prese da internet, ne desume una forma quasi indistinta, che utilizza come "sfondo" dove poi dipingere straordinari volti algidi..."


Opera pubblicata:Desert fox (1999)



SABRINA VEDOVOTTO,”Le Naviganti”, testo per la personale all’Ass.cult.Futuro, Roma, marzo 2000

"... lo “spazio visivo”, come lo intende l’artista, vive sempre una realtà con il volto dipinto… ... ognuno è memoria del tempo in cui vive ed è ricordo, immagine di un evento… …i temi affrontati rivolgono spesso la loro attenzione al problema dell’ecologia, o meglio come dice Nardi “nell’ideale ecologico”, a lui molto caro. Il tema sociale è, infatti, sempre presente; nella produzione di ogni sua opera c’è un messaggio molto forte… …messaggio che proviene anche dalle contaminazioni degli strumenti che utilizza: dalle immagini scaricate dalla rete, ai volti rubati alle riviste, decontestualizzati e quindi ricontestualizzati, alle scansioni di pittura ingrandite… … queste naviganti, la cui bellezza apparente può distrarre per un attimo l’attenzione, sono dunque messaggere di un mondo carico di contraddizioni…"



FRANCESCA LAMANNA, “Gli artisti e l’università”, libro catalogo Ed.Università La Sapienza di Roma, 1999

Opere pubblicate: Videofiliazione antioraria (1996), Videomuti (1996).
 


 

STEFANO COLONNA, “L'Antipop, comunicazione individuale nella società di massa”, catalogo della personale, Edizioni Università La Sapienza di Roma, 1998

" Premessa

Nardi presenta un laboratorio sperimentale del difficile ruolo della pittura nella società di massa rivolgendosi a quel pubblico distratto dalla semplificazione ed usura delle immagini e dei loro significati operata quotidianamente dai media. L'artista elabora una strategia di comunicazione basata sulla visione individuale e sulla "buona pittura"; richiede allo spettatore di pensare la propria visione delle opere in un contesto complessivo attuando una serie di riferimenti dialettici incrociati con le altre opere esposte; esperimenta inoltre una sua nuova estetica, modellata sulle rinnovate esigenze della società dell'informazione e della comunicazione, evidentemente più complessa della cosiddetta società di massa. La nuova estetica e una sottile lettura semiotica sono poi a loro volta incapsulate in un'inedita dimensione meta-pittorica, che si identifica con la pittura stessa di Nardi. Surrealismo, Metafisica e Pop Art convivono all'insegna di questo esperimento, di cui Amazonas potrebbe essere il primo risultato concreto.

Video muti

Nelle opere presentate in mostra la piramide tronca ha un forte valore simbolico. Per comprendere chiaramente tale valore bisogna partire da Video muti, dove il taglio sistematico delle piramidi permette l'ingresso nella macchina della comunicazione.

Una volta penetrato all'intemo della macchina, lo spettatore può finalmente vedere gli schermi dei video presenti sulle basi delle piramidi. Il processo di comunicazione avviene su entrambi gli assi lineari e su quelli radiali, che convergono verso un centro virtuale che è l'individuo: il punto di convergenza dei vertici mancanti delle piramidi. Le piramidi permettono invece la relazione stessa tra gli schermi, cioè il rapporto interpersonale tra gli individui.

Se infatti, le piramidi avessero tutti i vertici, sarebbe impossibile entrare all'intemo di Video muti. La troncatura delle piramidi rappresenta quindi l'attuazione della comunicazione che compensa il potere, anche politico; viceversa, la realizzazione piena ed autoreferenziale del potere, rappresentata dalla piramide intera, impedisce la comunicazione.

Video muti non è un'installazione; non richiede l'intervento creativo del pubblico; non è nemmeno una scultura: è la "macchina di presentazione" della pittura di Nardi, quando con pittura si intende l’idea della pittura e quindi l'estetica stessa della pittura.

Video-filiazione

La macchina di Nardi viene letteralmente aperta e resa bidimensionale in Video filiazione, dove si narra con tono epico il grande tema della comunicazione sociale. Come in Video muti, le piramidi tronche contengono schermi dipinti con una ricca serie di citazioni retrospettive, ispirate dall'esperienza della "lente percettiva" del pittore. Ma, a differenza di Video muti, il processo di comunicazione si articola in un caos, che è però solo apparente. L'insieme delle piramidi tronche disegna infatti una complessa geometria trattale tesa ad abbracciare una dimensione cosmica. La grandezza dei video e delle piramidi è mutevole, ma non casuale: il lato corto dell'uno coincide con quello lungo dell'altra, e così via in un susseguirsi quasi organico di forme vitali.

Si ha l'impressione di assistere ad uno spettacolo imponente, ad una nuova rappresentazione della società di massa, dove un insieme di individui, una miriade di monadi, dialogano attraverso reti di comunicazione. Il riferimento immediato è ad Internet, dove una serie virtualmente infinita di nodi si interseca in un sistema complesso regolato e sviluppato secondo precise regole matematiche, ma anche organizzato secondo nuclei di casualità tipici della geometria frattale, alla quale Nardi si è consapevolmente ispirato per la realizzazione dell'opera.

Video filiazione può essere letto come una metafora della comunicazione individuale interpersonale nella società di massa, in cui il video rappresenta il modo di pensare di un individuo, ma anche il concetto stesso di individualità.

Déjà vu, oppure una nuova estetica?

Nardi adopera evidentemente strumenti già noti che appaiono "vecchi" soltanto in una lettura estetico-formalistica. La novità dell'artista si apprezza invece quando si riesce a cogliere la sua intensa metodologia di lavoro, che sa cogliere con un nuovo codice estetico-semiotico le linee di tendenza emergenti dalle turbolenze della civiltà contemporanea.

Quando Nardi presenta Video filiazione con il titolo Video filiazione antioraria, dimostra un'intenzionale vocazione retrospettiva in cui la citazione del repertorio figurativo del ventesimo secolo è un'operazione culturale esplicita e non certo una disattenzione.

Sua Riflessione

Sua Riflessione, da me ribattezzata scherzosamente Sua Emittenza (in onore al Video, perno dialettico della mostra), presenta per la prima volta caratteri di figurazione, anche se smorzata in un'atmosfera di Surrealismo o "metafisica" saviniana. Citazioni della piramide ricorrono di fronte alla maestosa ed inquietante presenza della Riflessione della pittura su se stessa all'alba della conoscenza.

L'AntiPop

La Pittura di Nardi è, nell'accezione estetico-semiotica, il "principio della diversità" (non-identità), cioè dell'irripetibilità dell'opera d'arte ovvero della sua individualità, in opposizione alla cultura del consumismo. E in difesa della supremazia della nuova sinergia arte e tecnologia, che si rivolge non più alla collettività per renderla oggetto della comunicazione di massa, ma all'individuo-protagonista nel processo della comunicazione artistica.

Infatti, a differenza della Pop Art, che per definire il principio di unità del processo di comunicazione, usava la qualità fìsica del mezzo utilizzato, l'AntiPop utilizza il codice, ovvero una convenzione semiotica tra video-fruitori, che definisce il principio di identità dell'opera d'arte nella priorità del soggetto fruitore sull'oggetto inesteticamente "consumato".

Nella fattispecie, la pittura di Nardi a livello materico corrisponde al mezzo utilizzato (p.es. pittura ad olio, immagine elettronica), a livello concettuale la parola pittura corrisponde al codice semiotico del principio d'identità dell'opera d'arte.

Riassumendo, nel caso di Nardi, la materia della pittura è segno di "non ripetibilità" e, a sua volta, la "non ripetibilità" della pittura è strumento di comunicazione individuale interpersonale e torna ad essere segno di espressione individuale anche a livello semiotico.

Quest'approccio stratificato evidente nelle opere di Nardi esposte in Mostra, lungi dall'essere gratuita esercitazione intellettualistica, si impone come un'esigenza profondamente connessa alla complessità dei rapporti di comunicazione interpersonale e di gruppo che caratterizzano la moderna società dell'informazione.

AntiPop, quindi, significa morte della tecnologia, intesa però non come ritorno all'edenica e rousseauiana età del buon selvaggio. La morte della vecchia tecnologia della società di massa prelude infatti alla nascita della nuova comunicazione individuale nella società dell'informazione.

Il metapittore: conosci la Natura RGB

Finalmente la serie degli Sparapittore porta alla luce con nitida chiarezza gli elementi nuovi di un fìgurativo-colto vicino alle esperienze degli anni Sessanta, ma con intenzioni critiche ed esiti opposti, tanto che, in risposta all'evento Mostra-Laboratorio di Nardi, è stato coniato il termine AntiPop per definire questo rapporto di reciprocità ed opposizione che l'Arte di Nardi assume di fronte alla Pop Art.

Poche ed elementari equazioni definiscono l'ambiente di sviluppo del figurativo di Nardi: nel caos vi è la perfezione della natura, mentre viceversa la semplificazione corrisponde all'imperfezione, ad uno stadio non concluso di crescita, che viene rappresentato dalla serialità e dalla tecnologia espresse dall'RGB, cioè Red Green Blue, i tre colori del segnale video. Conosci la Natura è un motto per richiamare l'uomo e l'artista, cioè il pittore, alla consapevolezza ed accettazione della complessità, che, inquietante, ricorre nella prima tela come una fastidiosa macchia nera a ricordarci che non si tratta di schermi televisivi, pronti a fornire pubblicità su prodotti di largo consumo, ma di pitture singole, individuali, irripetibili.

Amazonas

Lo scontro finale tra Arte e Natura si compie nell'ultima e più accattivante pittura della mostra. Il ritratto di una donna bellissima è fascinoso richiamo al "sex appeal dell'inorganico" (Perniola), dove l'elemento mitologico riesce a prevalere su quello tecnologico soltanto grazie alla presenza nascosta del meta-pittore, il quale, evidentemente, stanco di assistere alla Morte dell'Arte, decide di ribaltare i termini della questione a proprio favore, utilizzando un geniale quanto elementare artificio. Il principio freddamente tecnologico dell'RGB viene addomesticato e "sconfitto" dall'ombra delicatamente segnata sul viso della fanciulla. L'RGB ricorre nei capelli azzurri, nel volto verde e nell'ombra rossa, non più come simbolo della serialità della società di massa. Così la Natura riacquista se stessa attraverso l'Arte, la buona pittura, che utilizza l'ombra propria in modo naturalistico figurativo e rende immediatamente accettabile e gradita al fruitore l'opera d'arte e il suo messaggio.

Nota sull'allestimento: Nardi ha curato personalmente l'integrazione con gli spazi del Museo collocando Sua riflessione in uno spazio mediano tra la serie dei Video e la serie degli Sparapittore RGB. L'illuminazione di Video muti è assicurata da una lampadina al tungsteno che ricorda una luce calda e casalinga e filtra attraverso la trama naturale della tela.”

Opere pubblicate: Sua Riflessione (1996), Videomuti (1996), Videofiliazione antioraria (1996), Videobotto (1996), Sparapittore RGB (1997), Conosci la natura RGB (1997), El Niño (1998), Amazonas (1998)



AUTORI VARI; “L'Arte contemporanea a Bologna”, Prima Biennale, catalogo della mostra, Palazzo Re Enzo, Bologna, 1993

Opera pubblicata: Trepiramide (1993).



ROBERTO DAOLIO, catalogo della collettiva al Centro culturale Edison, Parma, 1991

“In un'altra occasione, a proposito di alcuni artisti presenti in questa mostra, ho avuto modo di parlare di "pelle" e di "cuore". In un certo senso di interno e di esterno, di qualità sensibili estese e allargate a comprendere dimensioni sempre più sfumate, ma non per questo distanti lontane da un sentimento di partecipazione completo. O, quantomeno, dotato di tensioni attive nel confrontarsi con la contradditoria dinamica "ipercontemporanea" degli eventi dell'arte. Tutto ciò non tanto per continuare ad evocare giustificazioni e garanzie di "lateralità", quanto piuttosto per mirare nuovamente al centro (al cuore) attraverso superfici periferiche e di contatto mediato. Tale percorso si avvale e si serve di direttrici e di indicazioni multiple variegate. Non insistesu di un unico schemapreordinato o sui solchi tracciati da passaggi precedenti. Per questo le difficoltà esplorative possono essere confuse con variazioni di ordine tematico o, ancora, con riflessi di perifrasi con iterazioni di procedure in ritardato e misconosciuto esaurimento.

Le funzioni e i passaggi paralleli degli artisti inglobati in questa tappa di percorso, si avvicinano a modificare un'attitudine di corrispondenze al di fuori di qualsiasi emblema o spirito di gruppo. Rimane vigile e costante un'attenzione estrema ad istituire ugualmente uno scarto nella produzione di immagini, di oggetti o di eventi nei confronti della "rappresentazione" e dell'artificio "reale".

L'equilibrio, le relazioni tra le parti, tra il pieno e il vuoto, tra i rapporti di superficie con spessore cromatico e l'ordine geometrico codificato in strutture apparentemente arcaiche di Germano Attolini, ridisegnano le qualità dei materiali classici (come il legno) nella ambivalenza di un'oggettività seriale ma non standardizzata. L'immersione in un'aperta circolazione dei segni plastici evocanti un forte senso pittorico, si trova a definire una spazialità contratta e modulata nell'alternanza delle scansioni e dei ritmi quasi indistinti e mimetici. L'organizzazione delle immagini codificate dal linguaggio, dall'abitudine percettiva e dell'omologazione orizzontale di ciò che rappresenta la diffusa esteticità pubblicitaria o il concentrato narrativo di una pulsione sentimentale del "bello" patinato e levigato, trova nella riproduzione - della - riproduzione di Francesco Bernardi un precipitato oggettuale (in alternanza tra hard e soft) dell'originalità non soggettiva a cui dare corpo e dimensione "critica". Per presentare simultaneamente il vero e il falso di una appropriazione "immateriale" e al tempo stesso tangibile e plasmabile. Se la realizzazione di formule e di impianti di gioco dalla necessità interattiva svolge ormai unasorta di funzione sostitutiva del reale, Nadia Filippini reinventa in alternativa simbolica un linguaggio di segni e di ideogrammi mobili, frementi e pulsanti a sorpresa, per un percorso di figure intrecciato con le regole libere di una fantasia leggera e aerea come un ectoplasma. Modularità e disegno spaziale delimitano e circoscrivano un campo d'azione di elementi cellulari dalla meccanica e dalla sonorità inquietanti. Un certo "ordine" delle cose, intese nella serialità della produzione industriale e nella forzata standardizzazione numerica, riflette una perdita di senso globale della funzione e degli oggetti al difuori del loro uso specifico. Eva Marisaldi riapre la catena dei rimandi significativi direzionando la logica seriale nella rarefatta dimensione di un possibile "decoro" isolato dalla esclusiva dimensione linguistica. Il "nuovo" ordine degli oggetti più anonimi si ricompone in strutture visive e plastiche che rivelano l'adesione ad un progetto forte e sempre più definito. Nel riaffermare una volontà esclusivamente pittorica Adriano Nardi sollecita e propone una disposizione simbolica dei rapporti di superficie. Dove l'immagine si frantuma e si organizza nella spazialità concentrata dei settori e dove la suddivisione risponde ad esigenze numericamente preordinate. La valenza epifanica del numero da la possibilità di condensare e di infrangere le qualità fenomeniche delle forme e dei colori. Duplicazionie moltiplicazioni innestano un processo di spazialità dilatata in senso temporale e immergono l'immagine nella "profondità" della superficie. Lo sconfinamento di luogo e i passaggi continui da una dimensione all'altra di Alessandro Pessoli sottintendono l'urgenza di un attraversamento dell'esperienza. E, al al tempo stesso, di una dinamica espressiva non vincolata ad un esclusivo concetto operativo. I disegni "riprodotti" e conservati nell'integrità di una doppia esposizione e gli oggetti assunti al massimo grado di concentrazione e di esplosione simbolica e pragmatica, riflettono una forma di radicale partecipazione all'analisi critica della realtà. Un'altra pratica operativa, in equilibrio tra la rappresentazione di un universo iper-naturale filtrato da un'abile "grafia" pittorica e la dimensione esoterica di un microcosmo inquieto da plasmare e da scavare con perizia chirurgica, definisce la determinazione di Leonardo Pivi. A superare dall'interno le dimensioni più contrastate di un rapporto con il modo in chiave di memoria ancestrale e di spiritualità "fisicizzata".”

Opera pubblicata: Ecotopia (1991).



ROBERTO DAOLIO, catalogo della collettiva "3° Laboratorio” alla galleria S. Fedele, Milano, 1990

“Giunge più che mai opportuna, quest'anno, la manifestazione che il centro culturale San Fedele dedica alle Accademie di Belle Arti. Visto l'attuale e perdurante stato di agitazione degli studenti e di gran parte del corpo docente per l'ormai insopportabile stato di precarietà, di anacronismo e di ambiguità, in cui versano da decenni queste storiche istituzioni. L'urgenza e la necessità di una riforma non dovrebbero e non potrebbero più essere rimandate se solo si pensasse realmente (e non a parole) all'approssimarsi di scadenze inderogabili come l'ingombrante "1992" o il più "mitico" e simbolico avvento dell'anno 2000. Ciò nonostante, nel rendere conto di questa mostre di studenti e di diplomati" dell'Accademia di Bologna, non posso fare a meno di rilevare come la qualità e l'intensità delle idee e delle "cose" dell'arte qui espresse non possono e non potranno mai sottostare o soggiacere all'ottusità di chi regola e scandisce l'esistente in modo serio e cieco.

In perfetta sintonia con i tempi, quasi a sottolineare la caduta e il frantumarsi di molte certezze e di altrettante classificazioni, modelli e programmi, i giovani artisti invitati, ciascuno a suo modo (e non potrebbe essere diversamente), dimostrano come e nonostante tutto sia possibile avvantaggiarsi e trame profitto dalle pieghe di una situazione di crisi, trasformata di fatto in "status". E in questo modo che le individualità di caratterizzano e convisono ben oltre i limiti caparbi di una separazione o di una specializzazione. Pittura, scultura, installazione, fotografia, disegno e nuove tecnologie ricreano differenze all'interno di un continuo rapporto di relazioni e di riflessioni sul trasformismmo e sulla mutevolezza del reale. Se non è facile distinguere una linea di lavoro o un tratto dominante di ricerca, immediatamente affidabile ad esempi e ad accadimenti già registrati, è perché è mutato l'atteggiamento e il modo di procedere. Il disincanto e la consapevolezza di una marginalità nei confronti dell'universo produttivo, valutato come sistema compatto e monolitico, consente e favorisce la rielaborazione di attitudini coltivate e "disperse" nel tempo stesso. Una condizione disorganica e frantumata si pone come passaggio al riconoscimento della complessità dei saperi (e, del sapere artistico) nella simultanea conservazione di un rituale debole ma non ancora sostituito. La maggior parte di questi lavori appare inevitabilmente tesa a codificare, nelle differenze e nei tratti distintivi dell'entità materiale scelta, una sorte di identità transculturale. Dove la pittura stessa, nelle varianti qualitative o stilistiche di un impegno espressivo consumato, alimenta uno sradicamento di sensibilità e di ideazione nei confronti del "passato-presente".

In particolare, il materico neo-espressionismo di Gianfranco Beghi, asciugato e costruito in una messa a fuoco di "racconti" senza narrazione raffredda il ritmo ossessivo di una proliferazione di figure e di immagini affioranti dal buio senza tempo del fondo. Mentre l'azione modulare di un rapporto tra superficie dipinta e frammento-sostegno di un materiale "altro" affida ad Adriano Nardi il rigore modulato di una anatomia del segno, da cadenzare secondo ripartizioni precise e numericamente preordinate. Per Leonardo Pivi pittura e disegno sono un concentrato di rapidi e raffinati appunti cromatici da disperdere in una infinita serie di piccoli "frammenti", perfettamente conclusi ma destinati a comporsi sul volto della parete secondo un ordine libero e variato per logica associazione o per pura pulsazione interna. La storia e la memoria recitano per Michele Bertolini un ruolo di efficace quanto riproponibile luogo di differenze, da rinverdire e da galvanizzare non solo sulle tracce riciclate di un accento new-dada, quanto sull'evenienza di una considerazione estetico-ecologica non priva di riscatto ironico e surreale. Nadia Filippini viene a sollevare invece un'esigenza di accattivanti disposizioni per meccanismi lucidi, programmata cineticamente a dare vita e sonorità a "Teatrini" pittorici, dove elementi biomorfi, o più infantilmente oggettuali, ampiano ed amplificano la percezione allo stupore e alla sorpresa del movimento colorato. Anche Pier Paolo Campanini è attratto dalla dimensione del gioco, più aperta forse alla contaminazione degli "effetti speciali" della tecnologia e dei nuovi materiali, abbinati e mescolati alle antiche tecniche artigianali, per attirare un abile metadiscorso tra vero e falso, tra reale e artificiale, tra ideale e "progetto". Per Vasco Geminiani le forme e le figure ritagliate e accampate nello spazio, nascono da inespressi giochi associativi tra stereotipate immagini mentali e la loro proiezione conica in un "espressimento" e in una plasticità semantica ricca di slittamenti e di sottili ambiguità dimensionali e linguistiche. Roberto Mainardi coniuga, in piena maturità, il più lontano afflato arcaico di emblemi, di trofei, di aguzzi e puntuti giavellotti, con la più attuale e raffinata essenzialità neo-minimale: rovesciando tuttavia i canoni di un impatto percettivo che vorrebbe l'azzeramento di senso e di significato, altera e modifica i rapporti tra i termini e tra i materiali di una "scultura" in corto circuito tra passato e futuro. Anche le immagini e le scritture più formalizzate e analizzate della stereotipia delle riproduzioni e dei caratteri tipografici possono rientrare, a buon diritto, nel canone della rilevanza estetica, se il sistema che le accoglie è filtrato dall'artista e dalla totalità del suo aspetto concettuale, come succede per Francesco Bernardi e per le sue "simulazioni" in fotocopia ormai assunte ad un implacabile ed etereo effetto "sublime". Alessandro Pessoli riesce a monovrare i fili dello stordimento fisico sulle varianti di un atteggiamento globalizzante che nell'ostentare la diversità e l'alterità dell'arte, sovverte la riconoscibilità delle tecniche, delle forme e degli oggetti, al massimo dell'estensione e della "realtà". Per Eva Marisaldi il concetto di spazio e di ambiente è misurabile e abitabile solo attraverso la riproposta di oggetti, di situazioni e di eventi, tradotti in sottile rilettura plastica e formale con l'ausilio di mussole, di garze, di tele e di cotoni grezzi o raffinati. Idee ed oggetti di uso comune e quotidiano riaffiorano misteriosamente ed impassibili a cadenzare , a rendere soft o ad annullare l'impatto fisico con le rigide dimensioni spaziali.”

Opera pubblicata:Transgredior (1989).



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